AMAZONIADE: LA SOCIETÀ DEL FUTURO – LA STATION TRE [VIDEO]

La rubrica di ComeDonChisciotte.org alla scoperta di Amazon assieme al giornalista e documentarista Massimiliano Cacciotti. AMAZONIADE sarà con noi per venti settimane, sempre di venerdì. Buona lettura e buona visione.

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Venti capitoli e venti video, di settimana in settimana. È una sorta di viaggio agli inferi col biglietto di ritorno, quasi fossi un novello Dante, ma privo di un Virgilio a farmi da guida.

E allora, visto che Virgilio non c’è, in questo lungo viaggio mi accompagnate voi?

AMAZONIADE CAPITOLO 15

La station tre

Di Massimiliano Cacciotti per ComeDonChisciotte.org

No, non sono tutte uguali. Certo, si assomigliano molto, ma proprio tutte uguali no. Parlo delle station, cioè le postazioni di lavoro per i packer. Che ce ne sono cinque per ogni wall. E, ogni volta, non sai mai quale ti capita. Proprio come i cioccolatini di Forrest Gump.

Poi, quando te ne assegnano una, non è detto che tu resti lì per tutto il turno. A volte sì. Altre volte ne puoi cambiare pure cinque o sei nella stessa giornata. Non sai mai bene il perché.

Perciò, non ti puoi organizzare, sistemarti le cose come ti viene più comodo per lavorare. No, no: lì è tutto impersonale, tutto standardizzato. Deciso una volta per tutte, da chissà chi. E se tu sei troppo alto, o troppo basso per prendere gli oggetti, gli attrezzi, le scatole, se ti viene scomodo per come sono messe le cose nella station, problema tuo.

Poi c’è la station tre. Che è quella che sta nel mezzo di ogni wall. Ha gli scaffali un po’ più larghi. Una roba quasi impercettibile, per uno sguardo poco allenato. Ma è uno di quei dettagli che ti fa la differenza. Perché alla station tre possono infilare oggetti più voluminosi. E voluminoso, spesso, significa anche più pesante. Di poco più pesante. Un poco da moltiplicare per centocinquanta pacchi l’ora, da moltiplicare ancora per le otto ore di turno. Così finisce che tanto poco, alla fine, proprio non è.

Non lo so perché, ma sono giorni che mi piazzano sempre lì. Mi cambiano di wall, questo sì. Ma la station che mi assegnano è sempre la tre. Magari è il loro modo di vendicarsi per certe mie risposte, per i miei “ma anche no”. Oppure per non farmi fare il rate, perché le cose pesanti ci metti di più a imballarle e quindi di pacchi, alla fine, ne fai di meno. O forse hanno l’ordine di piazzare lì gli anta, perché, stranamente, nelle station tre, quasi sempre ci trovi i tipi un po’ più agé.

Fatto sta, che, da ieri, comincia a farmi male la spalla e adesso pure la schiena. Ho provato a fermarmi, a rilassarmi un attimo, per far passare il dolore. Sono arrivati subito a farmi il cazziatone e a dirmi di ricominciare. Allora, sai che c’è? Me ne vado in infermeria. Così il cazziatone me lo farà il medico di turno, semmai. Sempre meglio di un ventenne nerd con la pettorina flu e il tablet d’ordinanza.

Ho visto che sta in fondo al magazzino, l’infermeria. Nella parte dell’inbound, dove arrivano le merci. Sarà un chilometro da qui, ma la meta e il nobile obiettivo, valgono il lungo viaggio. Quando arrivo lì, però, la porta è chiusa e non so come entrare. Vedo un tizio che si avvicina e gli chiedo lumi. Ha l’aria da boss.

“Ma il tuo lead dov’è?” mi fa lui. “Non lo so dov’è. Sono venuto qui perché ho male alla spalla e alla schiena. Il lead non l’ho cercato proprio” rispondo io. “Eh, ma non puoi venire qui senza il tuo lead. Tu non sei nemmeno di inbound. È lui che ti ci deve portare in infermeria” aggiunge perentorio. A sentirla così mi sembra quasi di essere un bambino scemo, uno che dev’essere accompagnato dalla mamma, dal papà e da chi ne fa le veci.

Stiamo un po’ a dibattere su queste procedure, ma alla fine, per fortuna, il tizio si convince a fare uno strappo alla regola e ci riesce a farmi entrare in infermeria, parlando con qualcuno, tramite il suo walkie talkie.

Dentro l’infermeria, c’è una dottoressa sui quaranta, da sola e con l’aria decisamente molto annoiata. È una che, a naso, pare ancora più felice di me di avere davanti qualcuno con cui finalmente poter parlare. Mi visita sommariamente, mi smolla rapida un antinfiammatorio e poi mi consiglia di restare lì, in infermeria, per le due ore che restano ancora fino a fine turno. Mi fa firmare dei fogli e bedgiare il green badge.

Avvertiamo il mio reparto della situazione, sbrighiamo tutte le pratiche del caso e poi cominciamo a parlare del più e del meno, nell’attesa dell’agognato cambio turno. Sono chiacchiere senza trasporto, quelle fra me e la dottoressa, ma parlare, si sa, ha comunque un suo grande valore, è già di suo un fatto eccezionale e un’efficacissima terapia, qui in Amazon. Fuori, intanto, comincia ad albeggiare.

Quando arrivano le sei, ci salutiamo educatamente. Un altro giorno è passato. Un altro arriverà.

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