Venti capitoli e venti video, di settimana in settimana. È una sorta di viaggio agli inferi col biglietto di ritorno, quasi fossi un novello Dante, ma privo di un Virgilio a farmi da guida.
E allora, visto che Virgilio non c’è, in questo lungo viaggio mi accompagnate voi?
AMAZONIADE CAPITOLO 14
Lo Slow Rate
Di Massimiliano Cacciotti per ComeDonChisciotte.org
Oh, ci pensavo oggi: è da parecchio che non vedo più Roberta. Quella magrissima e simpatica, quella che gli scadeva il contratto. E nemmeno Sara, che andava come una scheggia. E non ho più ho visto Antonio, neanche al bar dell’Autogrill. Mi sa che non hanno più rinnovato nessuno. Eppure, cacchio se erano veloci a paccare, quelli lì.
Pare che sono rimasto solo io, qui. Almeno di quelli che avevo imparato il nome. Io e un tizio cubano, uno di colore, uno che si fa chiamare Fidel. Ma mi sa che non si chiama davvero Fidel, perché c’ha il login che non comincia con la effe. Sarà un comunista, un ammiratore di Castro, boh.
Nemmeno al vendor mi ci hanno più mandato. Che lì al vendor mi piaceva. E si poteva pensare. E pure parlare un po’. Anche se poi ti mettevano la nota in condotta.
Ora davvero di parlare, qui all’hub, non c’è proprio più modo. Con chi? E come?
Per fortuna che ieri mi ha chiamato Francy. Sì, quella del corso. Che oggi aveva anche lei il turno di notte. Anche se sta in un altro reparto. E allora ci siamo visti in pausa. E ci siamo messi a chiacchierare. Nella sua macchina, così nessuno ci rompeva le scatole se facevamo casino. E abbiamo parlato. E parlato. E parlato. E parlato ancora. Mica lo so di che. Era troppo bello sentire una voce, senza quel vruuuuuuuuuuu infinito di sottofondo, che quello che dicevamo non aveva proprio nessuna importanza.
Poi però la pausa è finita. Sono tornato in postazione. Mi sono rimesso a paccare. E ripensavo alla voce di Francy. Che è pure carina. E mi manca un sacco farmi delle belle chiacchierate. E farmi delle risate. E mi manca l’aria aperta. E una birra la sera. Che non ci andavo mai a farmi una birra, ma mi manca lo stesso. E poter chiedere a qualcuno qualcosa. O che qualcuno chieda qualcosa a me. Poi, oggi mi sento davvero stanco. Anche un po’ triste. Qui il lavoro è pesante. L’atmosfera è cupa. E fra poco mi riscade pure il contratto.
“Caro, potresti andare più veloce?!” m’interrompe, tra i pensieri, una manager sui venticinque, una col tablet e la pettorina flu. Pare decisamente spazientita. “Ma anche no” le rispondo io, con un tono sereno, come se la mia fosse la risposta più scontata del mondo, anzi un omaggio garbato, che le porgevo a istinto, per riflesso automatico.
Che una risposta del genere non sia nemmeno lontanamente contemplata dentro questo hub, lo so bene. Ma sono stanco. Pensoso. Deluso. Incapace di agire a freddo. Ora so già che per me si scatenerà l’inferno. Note su note in condotta e nessun rinnovo a scadenza di contratto. Così sarà.
O forse no. Perché poi, un po’ a sorpresa, la venticinquenne resta spiazzata. Gliel’ho detta troppo grossa. Troppo, troppo grossa. Ho sovvertito tutte le regole e le usanze del luogo. Resta inebetita, come gli americani a Pearl Harbour, di fronte ai kamikaze giapponesi. Non sa cosa fare. E nemmeno il tablet, nemmeno l’algoritmo le vengono in aiuto, dandole suggerimenti.
“Ok” mi fa. Con tono sottomesso. E poi va via, col passo un po’ insicuro. Sono stupito anch’io. E allora alzo la posta. Ho deciso che d’ora in poi giocherò all’attacco. Con le armi del paradosso. E per farmi rinnovare il contratto, anziché aumentarlo, abbasserò il ritmo del mio lavoro. Per tutti i giorni che ancora mi restano da lavorare lì. Che tanto, di sicuro, me ne resteranno pochi.
E così, mi passano le settimane. Tutte monotone. Tutte uguali. Tutte lente. Perché me ne frego del rate. E non succede proprio niente. Nessun richiamo disciplinare, né scritto, né verbale. Niente di niente. Che roba strana.
Anzi no. Una cosa importante, a dire il vero, alla fine succede: tre giorni prima della scadenza, mi chiama Gi Group per firmare il rinnovo. E allora firmo per restare ancora un po’. Per altri tre mesi, a quanto pare, potrò permettermi di dire ancora “Ma anche no” ad ogni prossima venticinquenne in pettorina flu, che dovesse, in futuro, chiedermi di fare qualcosa che non mi va.
I colleghi che andavano come schegge li hanno mandati via. Io sono ancora qui. Nelle fogne di New York, forse, non ci vive nessun alligatore.
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