DI FEDERICO DEZZANI
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A distanza di un anno esatto dagli attacchi terroristici di Bruxelles ed a sette giorni dall’avvio dei negoziati per il divorzio tra il Regno Unito e l’Unione Europea, Londra è stata teatro di un attentato carico di significati: un’auto ha travolto i passanti sul ponte di Westminster, per poi schiantarsi contro i cancelli del Parlamento britannico. Cinque i morti, una quarantina di feriti ed un inequivocabile messaggio: la Brexit non destabilizzi ulteriormente la già moribonda Unione Europea. Che lo stesso Parlamento inglese, braccio politico della City per più di due secoli, sia oggetto di un attentato intimidatorio, è sintomo della degenerazione raggiunta dall’ordine mondiale “liberale”, sempre più vicino al collasso.
Westminster e la City: mai così distanti
Viviamo “anni interessanti” che, iniziati con la bancarotta di Lehman Brothers nel settembre 2008 e proseguiti sino ad oggi, coincidono con lo sfaldamento dell’impero angloamericano, di cui la UE/NATO sono la storica propaggine sul continente euroasiatico. È un periodo inquieto e tormentato, in cui si è assistito ad un’esplosione del terrorismo come non si vedeva gli anni ‘70, quando la presa di Washington e Londra sul resto del mondo sembrò mancare una prima volta. Certo, il terrorismo si è adeguato ai tempi e anziché essere “marxista-leninista”, “fascista” o “palestinese”, è oggi “islamista”, opera del letale quanto sfuggente “Stato Islamico”. Sono così frequenti gli attentati e così spudoratamente maldestra la loro esecuzione, che è persino inutile dissipare energie per smontare la versione ufficiale degli attacchi terroristici: il lavoro di analisi può dare un valore aggiunto solo collocando i singoli episodi in una cornice allargata, uscendo dalla narrazione del terrorismo islamico per entrare nel territorio della guerra ibrida combattuta dall’establishment atlantico contro il resto del mondo.
Gli attentati “islamisti” che hanno insanguinato la Francia a partire dal gennaio 2015, sono riconducibili, ad esempio, al tentativo di sedare una società, quella francese, in piena ebollizione a causa della disoccupazione record e delle riforme economiche di stampo neoliberistico. Attacchi terroristici di natura economica, come l’assalto a Volkswagen ed a Deutsche Bank da parte delle autorità americane e di George Soros, sono dettati dalla volontà di piegare Berlino, nella certezza che la rigidità tedesca in fatto di conti pubblici porti, presto o tardi, al collasso dell’eurozona. L’attacco “islamista” di Berlino dello scorso dicembre va poi inquadrato nel braccio di ferro tra Germania ed euro-periferia sull’applicazione del “bail in” e sullla garanzia europea dei depositi bancari.
In questo quadro ci sono state sinora alcune eccezioni, significative e “razionali”: nessun attentato nell’euro-periferia, perché marginale rispetto al motore franco-tedesco che decide le sorti dell’euro e già piegata dalla depressione economica, e nessun attentato nel Regno Unito, perché “isolato” dal resto continente, in virtù della Manica e della sterlina.
L’attentato del 22 marzo a Londra, prontamente rivendicato dall’ISIS come le stragi in Francia e Germania, rappresenta un’anomalia rispetto alla storia recente, sebbene, ad essere rigorosi, non sia il primo episodio di terrorismo che interessi il Regno Unito e sia collegabile alle fibrillazioni europee: esiste un triste precedente, di cui l’ultimo attacco può essere considerato “il secondo atto”. Pensiamo, ovviamente, all’omicidio della deputata Jo Cox, perpetrato alla vigilia del referendum sulla permanenza di Londra nell’Unione Europea: un classico esempio di guerra psicologica con cui si cercò di influenzare (senza risultati) l’imminente voto.
Riportiamo brevemente i fatti: è il pomeriggio del 22 marzo quando una Hyundai i40 esce dalla carreggiata del ponte di Westminster per immettersi sul marciapiede e falciare i passanti. L’auto finisce la corsa contro i cancelli del Parlamento inglese e l’attentatore, sceso dal veicolo, accoltella ancora a morte un poliziotto prima di essere liquidato dagli agenti di sicurezza: si contano in totale cinque vittime, compreso il terrorista. Trascorreranno meno di 24 ore prima che “il Califfato” rivendichi l’attentato attraverso il consueto canale del SITE Intelligence Group, la spudorata firma con cui i servizi segreti atlantici (CIA, MI6, Mossad, DGSE) siglano le loro operazioni sin dalla strage di Charlie Hebdo.
La data, 22 marzo, è molto significativa, perché cade a distanza di un anno esatto dagli attentati che inseguirono Bruxelles e a sette giorni dall’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, per l’uscita formale del Regno Unito dall’Unione Europea. La dinamica dell’attentato è altrettanto significativa, perché la sua estrema semplicità (un’auto, un coltello, un terrorista) implica una preparazione molto rapida, se non frettolosa, dettata dall’urgenza di agire sull’onda di qualche evento esterno: risale infatti al 20 marzo, appena due giorni prima, la decisione di Downing Street di attivare il sullodato articolo 50. “Brexit, l’Inghilterra va avanti: dal 29 marzo il via ufficiale all’iter per l’uscita dalla Ue” titolava la Repubblica1. L’obbiettivo dell’attentato è strettamente collegato a quanto appena detto: si tratta del Parlamento inglese, lo stesso che ha avvallato l’iter per la Brexit ed influenzerà l’operato della premier Theresa May nei prossimi mesi. Il profilo dell’attentatore si inquadra infine perfettamente nel nostro discorso: è il 52enne Khalid Masoo, “già noto ai servizi segreti britannici, l’MI5, ma considerato un elemento marginale”2. Un pesce piccolo, “una figura periferica”, utilizzabile dai servizi segreti inglesi per un lavoro semplice e veloce come l’attentato di Westminster: un uomo di mezza età, “appassionato di giardinaggio”3, adescato probabilmente in moschea e portato sul ponte di Westiminster forse lucido o, più facilmente, sotto l’effetto di sostanze allucinogene.
Mai, in passato, si sarebbe verificato qualcosa di analogo nel Regno Unito: i servizi segreti, etichettati per l’occasione come “deviati”, agiscono contro il proprio governo solo nei Paesi a sovranità limitata, Stati subalterni che gravitano nell’orbita atlantica: Italia, Germania, Egitto, Turchia, etc. etc. Il famigerato Secret Intelligence Service è abituato ad interferire con attentati, omicidi e rivoluzioni colorate in Paesi terzi, non certamente ad intervenire a gamba tesa nell’agone politico inglese e mai, comunque, contro il Parlamento britannico inteso come istituzione.
L’attentato del 22 marzo sancisce quella frattura interna al Regno Unito, tra la politica e la City, tra lo Stato-nazione inglese e la finanza cosmopolita che ha in Londra la propria sede principale, tra l’establishment nazionale e quello sovranazionale, mondialista e liberal delle grandi banche: dopo aver vissuto in simbiosi per secoli, i due vecchi alleati si sono separati sull’Unione Europea. Come negli Stati Uniti i servizi segreti, fedeli all’establishment liberal, non si fanno scrupoli nell’attentare alla presidenza di Donald Trump con dossier e fughe di notizie, così in Regno Unito i servizi segreti non hanno remore nell’inviare avvertimenti mafiosi alla camere in vista della Brexit.
Già, perché non alcun dubbio che l’attentato al Parlamento inglese non ruoti attorno ad una fantomatica guerra di civiltà tra l’ISIS e l’Occidente, ma attorno alla ben più concreta uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, edificata, passo dopo passo (CECA, CEE, UE), proprio dalla finanza cosmopolita che ha sede a Londra, la stessa che negli anni ‘20 del Novecento sovvenzionava il primo esperimento di federazione del Continente, la Paneuropa del conte Coudenhove-Kalergi.
Si è cercato in ogni modo di depotenziare, se non di ribaltare tout court, il voto dello scorso 23 giugno: si sono raccolti milioni di firme per ripetere una seconda volta il referendum, si è ricorsi all’Alta Corte Britannica che ha vincolato la Brexit all’approvazione del Parlamento, si è cercato fino all’ultimo di indebolire l’azione del governo attraverso la Camera dei Lord, che avrebbe voluto vincolare l’accordo finale sulla Brexit ad un voto delle due camere. Tutto inutile, perché la premier Theresa May ha infine ottenuto, il 13 marzo, che la Camera dei Comuni la investisse di pieni poteri per negoziare la Brexit senza vincoli di sorta: a distanza di una settimana Downing Street ha annunciato l’imminente attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona e nove giorni dopo, quando i media ricordavano gli attentati “islamici” di Bruxelles di un anno prima, si è consumato l’attacco a Westminster.
Il messaggio sottostante all’attentato è inequivocabile: che i negoziati non destabilizzino ulteriormente un’Unione Europea che si dibatte tra crisi politiche, economiche e sociali sempre più lancinanti. Che la premier Theresa May non fornisca altra benzina ai “populisti” oltre Manica, col rischio di innescare un incendio di proporzioni continentali. Che la politica inglese non alimenti le spinte centrifughe che stanno divorando le istituzioni di Bruxelles.
Subito dopo la Brexit, scrivemmo che l’ordine mondiale “liberale”, edificato dagli angloamericani del secondo dopoguerra e poggiante sul binomio UE/NATO, era entrato in crisi irreversibile: l’attentato del 22 marzo rafforza questa tesi, svelando un sistema internazionale così degenerato da sfiorare l’autocannibalismo, dove i servizi segreti atlantici sferrano un attacco persino contro Westiminster, degradato ai livelli di un Parlamento sud-americano o africano qualsiasi. È la stessa agonia cui si assiste dall’altro lato dell’Oceano, dove la faida tra la Casa Bianca ed i servizi segreti sta assumendo toni sempre più drammatici. Si avvicina il crepuscolo dell’establishment liberal e nessuno può sentirsi al sicuro dai suoi colpi di coda: neppure il blasonato Parlamento inglese.
Federico Dezzani
Fonte: ttp://federicodezzani.altervista.org
LInk: http://federicodezzani.altervista.org/lattentato-a-westminster-lisis-sbarca-in-regno-unito-in-vista-della-brexit/
24.03.2017