LIBERTA’, SOVRANITA’, DEMOCRAZIA

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo.

Di Andrea Cavalleri

Comedonchisciotte

Questa riflessione non punta a disquisire sul dettaglio dei singoli termini, ma, una volta chiarita la sostanza degli stessi, a mostrare la loro correlazione.

Dato che queste parole sono diventate pane quotidiano del dibattito politico, è essenziale approfondirne il significato, perché l’alternativa che si presenta al cittadino è fra prenderne coscienza o esserne preso per il naso.

 

Libertà.

La parola più difficile da comprendere è senza dubbio la prima.

L’istinto e la memoria di discussioni adolescenziali possono riportare alla mente frasi come “libertà è fare ciò che voglio” (e senza che nessuno possa impedirmelo), oppure “la tua libertà finisce dove inizia quella degli altri” e simili amenità dallo scarso significato.

Poiché il ramo predominante della filosofia politica ha diffuso l’idea (o “l’état d’esprit”) che la libertà è il diritto di fare ciò che le leggi permettono, in questa direzione vanno le suggestioni che provengono dai libri.

La definizione in corsivo è del Montesquieu, poi ripresa dallo Joly e dall’ignoto autore dei Protocolli dei Savi di Sion (cioè da due belle serpi e un povero illuso loro vittima che sta nel mezzo) e questa paternità dovrebbe far riflettere su quanto poco sia neutrale un simile modo di intendere la libertà.

Anzi, sono gli stessi Protocolli a mostrare uno dei maggiori inganni di questa posizione quando parlano del popolo incatenato nella schiavitù della miseria: [si istituiscono] molti diritti che per le masse sono puramente fittizi. Qual vantaggio deriva ad un operaio del proletariato curvato dalle sue dure fatiche e oppresso dal destino, dal fatto che un ciarlone ottiene il diritto di parlare, od un giornalista quello di stampare qualunque sciocchezza (o diritti che interessano praticamente a nessuno, come quello per un omosessuale di “sposarsi” o per un depresso di suicidarsi, vorrei vedere come punirebbero il cadavere per aver trasgredito a un eventuale divieto… NdA)?

Da questo punto di vista l’economista Silvio Gesell fa un’importante affermazione di filosofia politica scrivendo: è veramente libero solo l’uomo che possa modificare la sua posizione economica col suo lavoro e in funzione delle sue necessità.

E un contributo da non dimenticare proviene da Aldo Moro, quando parla della libertà individuale (teorica) che può diventare libertà pratica solo se si traduce anche in libertà di associazione.

Tuttavia queste osservazioni, pur importanti, sono ancora troppo particolari e incentrate sull’aspetto materiale della libertà.

E dato che le moderne ricerche socio filosofiche sulla felicità hanno mostrato che questa dipende poco dal possesso di beni materiali e molto dalla capacità di attivare relazioni positive (cosa che dovrebbe risultare abbastanza ovvia considerando la natura relazionale della persona umana), conviene ripartire dalle basi per giungere ad una visione il più possibile sensata del concetto di libertà.

Ebbene il punto di partenza, che proviene dall’esperienza personale e universale, è che l’uomo ha facoltà di operare delle scelte.

Di fronte a un menù al ristorante posso scegliere pizza o arrosto o insalata e chissà quante altre voci;

di fronte alla giornata di lunedì posso decidere se presentarmi al lavoro in orario, oppure marcare visita e andare a giocare a biliardo; di fronte a una bella ragazza di nome Pamela posso offrirle dei fiori, scriverle una lettera romantica e invitarla a una cena a lume di candela, oppure posso darle della droga e mentre è intontita sottoporla a uno stupro di gruppo per poi accoltellarla al fegato, mangiarle il cuore, sezionarla e riporre le fette in una valigia.

In generale il progresso tecnologico e sociale ha prodotto nel tempo un grande ampliamento delle nostre possibilità di scelta, che chiamiamo…. e qui casca l’asino: si chiama libero arbitrio e NON libertà.

Per capire che la moltiplicazione delle opzioni possibili non coincide con la libertà basta pensare al caso di un condannato a morte per iniezione letale a cui si offre la possibilità di essere fucilato, impiccato, ghigliottinato, messo in una camera a gas, garrotato, affogato o lapidato: non credo che di fronte a queste generose offerte di nuove scelte si sentirebbe più libero, perché comunque mancherebbe l’unica possibilità che a lui interesserebbe davvero, cioè quella di vivere.

La società e soprattutto la politica moderna ci stanno ingannando perché, mettendo in atto grandi sforzi per ampliare le possibilità di scelta (che, oltre tutto, sovente riguardano delle sparute minoranze), ci illude che stia lavorando per accrescere la nostra libertà, quando di norma aumenta solo le possibilità del nostro libero arbitrio entro binari predefiniti.

Ma allora come distinguere la libertà dal libero arbitrio?

Nell’esempio del condannato appare che la scelta libera è quella che consegue un valore reputato positivo dal soggetto che decide.

L’esposizione migliore e più semplice che conosca del concetto di libertà si deve a Gustave Thibon e procede dai seguenti ragionamenti.

La libertà come indipendenza assoluta è un inganno utopistico (l’uomo è indipendente dall’ambiente e dagli altri solo quando è morto).

Tuttavia le dipendenze possono avere segni opposti: lo scolaro studioso va volentieri a lezione, quello negligente si sente costretto; il vero soldato trova naturale la disciplina, l’arruolato di leva che pensa ad altro trova straniante il regolamento e così via.

In definitiva, dice Thibon, l’uomo non è libero nella misura in cui non dipende da nulla e da nessuno: è libero nell’esatta misura in cui dipende da ciò che ama, ed è prigioniero nell’esatta misura in cui dipende da ciò che non può amare.

Tra l’altro il filosofo contadino fa notare che colui che non ama nulla non sarà mai libero: per quante rivoluzioni faccia e per quante catene spezzi, al massimo otterrà di cambiare schiavitù.

 

Sovranità.

Dice Carl Schmitt che sovrano è colui che decide lo stato d’eccezione.

In parole povere sovranità significa poter dire l’ultima parola di fronte a qualunque scelta cruciale e importante.

Come è venuto di moda definire la Banca Centrale “prestatore di ultima istanza” (che in realtà è “pagatore di ultima istanza”, l’idea che pagare significhi contrarre un debito è una distorsione del concetto di proprietà che prevede pregiudizialmente la sudditanza del popolo ai banchieri) il sovrano è il “decisore di ultima istanza”.

La sovranità è sempre relativa (la sovranità assoluta non esiste, spetterebbe solo all’Essere supremo) e si riferisce a diversi ambiti.

In casa mia (relativamente alle mie cose) il sovrano sono io.

Se ho famiglia già è un po’ diverso dato che la sovranità è distribuita tra i coniugi con alcune concessioni ai figli.

La sovranità del condominio spetta alla maggioranza dell’assemblea condominiale.

Gli esempi possono continuare e hanno in comune il fatto di presentare dei limiti relativi ai vari ambiti.

La sovranità dello Stato è diversa da tutte le altre, perché, pur dovendo per forza di cose rispettare dei limiti, tuttavia è un ambito completo, cioè esprime delle decisioni su ogni aspetto della vita sociale.

Il trattato di Westfalia riconobbe personalità giuridica ai singoli Stati, fatto molto significativo per stabilire relazioni internazionali basate sul diritto (“relazioni civili” direbbe l’uomo della strada) superando così la logica dei puri rapporti di forza e del homo homini lupus di hobbesiana memoria.

Questo criterio fu applicato inizialmente in doppio standard, ovvero tributando legalità e rispetto per gli imperi e le potenze e subordinando ad essi le colonie.

Successivamente, con l’introduzione del principio di autodeterminazione dei popoli, si posero le basi per la dissoluzione dei rapporti coloniali.

Purtroppo la tendenza si è vistosamente invertita dopo il crollo del muro di Berlino, in quanto le ripetute azioni di forza dell’unica superpotenza rimasta, hanno ripristinato una logica imperialistica e coloniale nelle relazioni internazionali che, seppur formalmente dissimulata, ha fatto regredire vistosamente gli spazi giuridici e diplomatici a favore di quelli bellici.

Qualunque sia la forma di governo di uno Stato, esso esprime una sovranità endogena: se c’è una monarchia sovrano è il re, se c’è un’oligarchia sovrano è il gruppo dominante, se c’è una democrazia sovrano è il popolo che si esprime attraverso i suoi rappresentanti.

Ma in ognuno di questi casi la sovranità è esercitata da uno o più membri dello Stato.

La sovranità esterna allo Stato non esiste: significa semplicemente parlare di una colonia.

Quest’ultima affermazione è essenziale per capire il paradosso del fenomeno “sovranista”, dove il paradosso non consiste nel legittimo reclamo di decidere del proprio destino da parte di nazioni dotate di riconosciuto ordinamento statale, ma nel fatto che tale sovranità venga negata, o auto negata, tramite cessioni di sovranità, relegando tali Stati al rango di colonie che si vorrebbero contente di esserlo.

Il fatto nuovo, rispetto a tutta la storia passata, è che queste nuove colonie non sono più soggette a uno Stato egemone o a un impero, ma a organismi opachi e dichiaratamente non politici (che però si arrogano la pretesa di dettare legge su tutte le principali decisioni politiche) espressione diretta o indiretta della finanza e del commercio internazionali.

Non si parlerebbe di colonie in presenza di fenomeni federativi, che però nel mondo di oggi sembrano completamente assenti, mentre la tendenza più rilevante è, al contrario, quella della frammentazione particolaristica e regionale, non di rado conflittuale.

In questo contesto l’Unione Europea è la punta di diamante più rappresentativa di questo fenomeno, (contrasto politico di Stati membri, contestualmente sottomessi a organismi tecnocratici di natura commerciale e finanziaria) che produce la mostruosità giuridica di declassare tutti i suoi membri a “colonie dei mercati”, qualunque cosa voglia dire il termine -molto discutibile- di “mercati”.

 

Democrazia.

Il termine storicamente designa semplicemente una delle possibili forme di governo.

Negli ultimi decenni è stato però caricato di una serie di connotazioni ed aspettative che travalicano ampiamente il suo significato originale.

Non è raro sentir parlare di “valori della democrazia”, mentre l’aggettivo “democratico” viene utilizzato come sinonimo di “bene assoluto”.

Basta osservare qualche esempio per capire che si tratta solo di becera propaganda autoreferenziale.

L’URSS e la Germania nazionalsocialista furono due prodotti della democrazia, combattuti e avversati dal mondo democratico in nome della democrazia stessa…ma allora, quante democrazie esistono?

Ancora oggi si continua ad assistere al ridicolo teatrino di Stati che si professano più democratici di altri e che pretendono di attribuire i patentini di democraticità in base alle proprie convenienze geopolitiche.

Fa sorridere, ad esempio, pensare che il presidente americano Trump, che il 54% dei suoi cittadini non vorrebbe come premier, accusi Putin di essere un dittatore, quando questi gode del consenso del 69% dei suoi elettori.

Ma ciò che soprattutto bisogna capire è che gli Stati hanno un comportamento che non dipende dal loro ordinamento interno, per cui avviene sovente che uno Stato che si proclama un modello di democrazia si comporta allo stesso modo (o anche peggio) di un altro considerato esempio di illiberale costrizione politica.

Un esempio attuale evidente sono le proteste di Hong Kong e di Parigi, in cui le autorità esercitano semplicemente la stessa funzione di repressione, più violenta e chiusa al dialogo proprio nello Stato che si professa maggiormente democratico.

Ciò che è veramente bello della democrazia è il nome e la suggestione che emana: governo del popolo!

E poiché quasi tutti si sentono “popolo” e non esseri speciali, tutti si identificano nella partecipazione al governo (senza ovviamente volersene assumere la minima responsabilità e senza spendere in merito nemmeno una goccia di sudore).

Ma, ovviamente, democrazia non significa che comandano tutti.

In teoria esisterebbero forme di democrazia diretta, che prevedono un referendum per ogni decisione, ma in pratica oggi non ne esistono esempi.

Perciò la democrazia si esprime nella forma rappresentativa, in cui il popolo elegge i suoi rappresentanti e questi agiscono e decidono coerentemente col mandato ricevuto; ciò significa che i candidati al governo presentano un programma e ricevono una delega dal popolo per attuare il programma prescelto dalla maggioranza.

La formulazione di democrazia rappresentativa che ho appena descritto (che ne esprime i requisiti minimi, dettati dal buon senso) se paragonata con le realizzazioni pratiche dei moderni Stati democratici, mostra tutti i punti critici di questa forma di governo, sempre pronta a tradire se stessa.

E li elenco.

1) la catena di deleghe: il popolo di solito non sceglie i suoi governanti, ma seleziona un’oligarchia parlamentare la quale converge su una figura di premier (sovente non eletto) il quale coopta la squadra di governo.

Come la fotocopia della fotocopia risulta sempre più sbiadita, così la catena di deleghe si allontana fatalmente dal progetto originale della volontà popolare.

2) il personalismo: la macchina della propaganda elettorale si concentra sulla persona dei candidati trascurando il loro programma, come se il gioco consistesse nell’ottenere una delega in bianco.

Vota me, dice il candidato, per le mie qualità personali (sono bravo, sono simpatico, sono uno di voi) e poi lasciami fare senza preoccuparti del progetto di governo…la pericolosità di un tale atteggiamento, prossimo al tifo calcistico o all’elezione di una miss, è evidente eppure si ripete continuamente a danno dell’elettore; ma chi è causa del suo mal….

3) il partitismo: il popolo non sceglie i suoi governanti e nemmeno i suoi parlamentari, ma solo le percentuali di maggioranza e minoranza dei vari partiti.

Tutti i candidati (col loro ordine di eleggibilità) sono scelti dalle segreterie dei partiti.

Anche questo procedimento tende ad allontanare il governo dalla volontà degli elettori.

4) l’incoerenza: un governante viene eletto con un mandato preciso, ma non lo rispetta.

Questo può capitare per traviamento del candidato a cui il lusso e il potere hanno dato alla testa, per incapacità, o per litigiosità della squadra di governo.

Ma molto più spesso accade per le fortissime pressioni che i governanti devono subire da parte delle lobby, dello Stato profondo e dei grandi interessi internazionali, che non esitano ad alternare lusinghe e minacce.

Il caso di Tsipras è esemplare.

A causa delle falle che si producono per via delle sue fragilità costitutive, una vera democrazia (intesa in senso puramente tecnico di forma di governo) non viene attuata quasi mai.

 

Dialettica fra democrazia, sovranità e libertà.

Il primo passo che affronto è il rapporto tra democrazia e sovranità.

Recita la costituzione italiana: la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Questo testo esprime molto bene un concetto universale (per nulla riservato al caso italiano) tipico delle democrazie, cioè che il decisore ultimo sul proprio destino è il popolo, ma questo può esprimere le sue scelte solo attraverso dei meccanismi preordinati (tipicamente elettorali) che se da un parte gli offrono una possibilità concreta di decidere, contestualmente la limitano.

Ora il termine demo-crazia, potere o governo del popolo, implica che questo potere o governo effettivo venga esercitato.

Ma se, paradossalmente, i rappresentanti delegati dal popolo non hanno facoltà di prendere decisioni, la democrazia viene svuotata di tutto il suo contenuto.

Un conto è eleggere un governante che persegue il programma scelto dalla maggioranza degli elettori, altra cosa è eleggere un governante-fantoccio che si limita a trascrivere gli ordini giunti da altra sede: allora inutile eleggerlo, tanto valeva ubbidire direttamente al vero padrone.

Questa situazione non è nuova, dato che Pietro Nenni fin dal 1962 aveva detto che entrando nella stanza dei bottoni si era accorto con stupore che nella stanza dei bottoni i bottoni non c’erano.

Ma il problema non è mai stato acuto come nell’Unione Europea, che esautora le democrazie nazionali, riducendole a ossequienti trascrittrici di direttive e, al tempo stesso, inserisce sbarramenti a un reale processo democratico continentale, in cui il parlamento non può neppure proporre le leggi e tutte le cariche realmente decisionali sono detenute da tecnocrati mai eletti che si cooptano a vicenda.

Questo discorso, che dovrebbe essere ovvio, è reso necessario da un lessico deviato che è stato utilizzato nei tempi recenti, volto a suggerire una fantomatica contrapposizione tra i movimenti sovranisti e quelli democratici.

In realtà, come spiegato, senza sovranità non esiste neppure democrazia, dunque non può esistere nessuna contrapposizione.

Al massimo esiste una contrapposizione tra movimenti che reclamano un autentico spazio democratico e altri che si illudono beatamente di averlo già.

Se invece ci poniamo la questione della libertà, in relazione alla democrazia e alla sovranità, la faccenda si fa un pochino più complessa.

Il significato di libertà che ho illustrato sopra è essenzialmente riferito al caso individuale, ma quando si parla di ordinamento statale si ha a che fare non solo con individui, ma con gruppi e comunità.

Dire che un popolo è libero quando dipende da ciò che ama non ha lo stesso significato che affermarlo per un individuo.

È evidente che un popolo è costituito da milioni di persone i cui pensieri, orientamenti e gusti, non solo non coincidono, ma talvolta discordano e si oppongono frontalmente.

L’identità collettiva può dunque esprimersi più che altro in riguardo ai valori di riferimento.

In questo senso è possibile che in un regime semi tirannico islamico, in cui vige la sharia, il popolo si senta più libero che in una democrazia plutocratica liberale, in cui la libertà è direttamente proporzionale al reddito.

L’Europa medioevale, fino all’età moderna, condivise un patrimonio di valori che permetteva ai cittadini di sentirsi “a casa”, una casa comoda o scomoda, bella o brutta, ma la loro casa, in cui le regole erano sottomesse alla legge naturale e non alla semplice volontà dei legislatori.

Dal ‘900 in poi si è gradualmente affermata la mentalità secondo cui l’unico valore condivisibile dalla società possa essere la libertà individuale.

Questo è un paradosso che crea due gravi problemi.

Il primo è l’immobilismo decisionale, perché tale orientamento conduce dritto al criterio di unanimità in forma diretta o appena mitigata dal principio di Pareto che non cambia la sostanza delle cose.

E poiché l’immobilismo pratico non è accettabile, ha prodotto come esito il mantenimento dello status quo legale, mentre i cambiamenti avvengono per colpi di mano improvvisi, decisi da puri rapporti di forza.

Il secondo problema è che la promulgazione dei diritti individuali, intrapresa come via per garantire la libertà del singolo, risulta astratta e inapplicabile, cioè utopistica; e lo è sia in pratica (vedi

sopra: se l’individuo non ha i mezzi per godere dei propri diritti è come se non avesse neppure i diritti) sia in teoria, come afferma Amartya Sen col suo teorema, in cui dimostra che in una società in cui coesistono ottimalità paretiana e libertà, la garanzia di godere dei propri diritti può essere detenuta da un unico individuo (che è ciò che si definisce comunemente dittatura, quindi Sen dimostra matematicamente il famoso passo di Platone sull’eccesso di libertà che diventa tirannia).

Un altro elemento di riferimento che influisce sul grado di libertà in una società organizzata è la possibilità per singoli, piccole e medie associazioni di farsi da sé ciò che sono in grado di fare, senza dipendere troppo dall’organismo burocratico centrale.

Principio questo che è detto di “sussidiarietà”, che risponde all’idea che più la decisione e la realizzazione dell’idea sono vicine al cittadino, più questi è protagonista, e più si sentirà libero.

È evidente che una selva di regole complicate e molto esigenti hanno l’effetto di scoraggiare l’iniziativa e a coartare i cittadini a restare nei canali istituzionali (questa è una situazione particolarmente sviluppata in Italia, ma che è stata, se possibile, accresciuta dai regolamenti di Bruxelles che arrivano a occuparsi della curvatura delle banane) mortificando così le aspirazioni di rapporto sussidiario tra Stato e cittadini.

Con queste ultime osservazioni ho introdotto il rapporto tra democrazia e libertà, che è un rapporto molto labile; la democrazia può favorire la libertà, ma può anche sfavorirla, perché la libertà dipende molto di più dai contenuti della politica che non dai metodi con cui si governa.

Quelle europee si chiamano tutte democrazie, eppure vediamo di giorno in giorno introdurre censure, reati di opinione e tutta un’azione di conformismo, volti addirittura a limitare la libertà di pensiero, più che quella di espressione.

La mia personale opinione è che i pretesi “valori della democrazia” non esistano affatto, e vengano invocati solo per legittimare i valori cari ai governanti di turno.

E trovo opportuno separare debitamente il concetto di democrazia da quello di libertà.

Per quanto riguarda la sovranità è invece una condizione necessaria alla libertà.

Nel paragrafo sopra ho distinto il libero arbitrio (cioè la possibilità di scelta) dalla libertà (ovvero una scelta che incarna un bene o un valore perseguito), ma non ho fatto l’affermazione lapalissiana che senza possibilità di scelta non vi sia neppure libertà.

Certamente la scelta può essere illusoria, come un cagnolino a cui si permetta di scegliere il colore del guinzaglio, ma se non si ha nessuna scelta a maggior ragione non si avrà una scelta libera.

Ora la sovranità è esattamente la condizione politica di poter assumere le decisioni tutte, non solo ordinarie, ma anche straordinarie e quindi può essere libero solo chi la esercita.

Abbiamo visto che esistono vari ambiti (individuale, familiare, condominiale, di associazione) in cui la sovranità viene esercitata pur coi suoi limiti, perciò tanto più razionalmente e spontaneamente sono fissati questi limiti, tanto più i corpi sociali saranno protagonisti, in una costruzione dello Stato dal basso (sussidiarietà).

La sovranità di uno Stato non può essere semplice espressione dal capriccio dei governanti e dei cittadini, perché questa condizione tende a distruggere la libertà e ad atomizzare la società; dunque è necessario che venga espressa entro un sistema assiologico di riferimento.

E proprio per produrre dei riferimenti minimi di principio esistono le costituzioni.

Infine resta il punto che per essere liberi occorre amare ciò da cui si dipende.

Quindi un popolo, per essere libero, deve necessariamente amare se stesso, perché questa dipendenza è socialmente e politicamente ineliminabile.

Chi non ama il proprio popolo, non sarà mai politicamente libero.

E chi, peggio ancora, lo disprezza e lo detesta, sarà vittima politica di un’odiosa schiavitù.

 

Andrea Cavalleri

Fonte: Comedonchisciotte.org

Settembre 2019

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