Il cappello del mago e il grande simulacro del balsamo palliativo

L'attuale scambio di ostaggi è incentrato su Gaza. Tuttavia, Israele ha tre fronti di conflitto aperti.

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Alastair Crooke
strategic-culture.su

Il Mago entra in scena con il suo mantello nero svolazzante. Al centro del palco, mostra il suo cappello: è vuoto. Lo batte leggermente con le dita per dimostrarne la solidità. Il Mago prende alcuni oggetti e li mette nel cappello. Vi inserisce il sequestro da parte di AnsarAllah di una nave di proprietà israeliana (la situazione è “monitorata”), vi inserisce gli attacchi iracheni alle basi statunitensi (appena notati dai media main-stream), vi inserisce anche i 1.000 missili lanciati da Hizbullah nel nord di Israele, vi inserisce la guerra calda in Cisgiordania. Il Mago si rivolge al pubblico: il cappello è vuoto. Ma il pubblico sa che questi oggetti hanno una realtà fisica, ma che, in qualche modo, sono stati magicamente offuscati.

È in questo modo che i media main-stream occidentali minimizzano lo stato di guerra attraverso quello che Malcom Kyeyune descrive come “un simulacro di pace” – intendendo con questo un conflitto che si attenua dolcemente e il dispiegamento silenzioso (parafrasando Kyeyune) di una “domanda molto postmoderna“: qual è esattamente il significato di un civile “non combattente”?

Un aspetto dell’immagine che vorrebbe addolcire il conflitto è lo scambio di ostaggi. È reale e, allo stesso tempo, sostiene l’illusione che, una volta annientato Hamas e liberati gli ostaggi, il problema dei 2,3 milioni di palestinesi possa entrare nel cappello del mago e scomparire dalla vista. Per alcuni, esiste una speranza sincera e piena di buone intenzioni: che, una volta cessati, i combattimenti non riprendano e che la fine dei bombardamenti a Gaza possa aprire uno spiraglio per una qualche “soluzione” politica – se potrà essere estesa sine die.

“Soluzione” qui non è altro che una parola gentile per il tentativo di corruzione dell’UE nei confronti di Egitto e Giordania. Secondo quanto riferito, la Presidente dell’UE, Ursula von der Leyen, ha visitato Egitto e Israele [in realtà la Giordania, N.D.T.] e ha fatto loro offerte finanziarie (10 miliardi di dollari per l’Egitto e 5 miliardi di dollari per la Giordania), in cambio del trasferimento altrove degli abitanti della Striscia di Gaza – di fatto per facilitare l’evacuazione della popolazione palestinese dalla Striscia in linea con la volontà di Israele di ripulire etnicamente Gaza.

Il tweet dell’ex ministro Ayalet Shaked – “Dopo aver trasformato Khan Yunis in un campo di calcio, dovremo dire ai vari Paesi che ognuno di loro dovrà prenderne una quota: abbiamo bisogno che tutti i 2 milioni se ne vadano. Questa è la soluzione per Gaza” – potrebbe anche essere solo l’esternazione di uno degli alti esponenti della politica e della sicurezza israeliana che esaltano quella che Israele vede sempre più come la “soluzione” per Gaza.

Ma essendo la sua dichiarazione così esplicita, Shaked ha probabilmente silurato l’iniziativa della Von der Leyen – perché nessuno Stato arabo vuole essere complice di una nuova Nakba.

Un Hudna o “tregua” è inevitabilmente molto precaria. Nei combattimenti del 2014, le forze dell’IDF avevano ripreso le operazioni militari a Gaza subito dopo l’inizio del cessate il fuoco e questo aveva portato a nuovi scontri a fuoco e al collasso della tregua. I combattimenti erano continuati per un altro mese.

Le due lezioni fondamentali sulle tregue che avevo imparato mentre facevo da mediatore per conto dell’UE durante la Seconda Intifada erano che una “tregua è una tregua” e basta – entrambe le parti la usano per riposizionarsi in vista del prossimo round di combattimenti. E, in secondo luogo, che la “quiete” in una località circoscritta non porta ad una de-escalation in un’altra località geograficamente separata; è vero il contrario, un’esplosione di violenza eclatante è viralmente contagiosa e si diffonde geograficamente all’istante.

L’attuale scambio di ostaggi è incentrato su Gaza. Tuttavia, Israele ha tre fronti di conflitto aperti (Gaza, il confine settentrionale con il Libano e la Cisgiordania). Un incidente che si verifichi in uno qualsiasi dei tre fronti potrebbe essere sufficiente a far crollare la fiducia nelle intese di Gaza e a rilanciare l’assalto di Israele contro Gaza.

Alla vigilia della tregua, ad esempio, le forze israeliane hanno bombardato pesantemente sia la Siria che il Libano. Sette combattenti di Hizbullah sono stati uccisi.

Il punto, detto chiaramente, è che i precedenti storici di tregue che abbiano porato ad aperture politiche non sono poi così numerosi. Il rilascio di un ostaggio, di per sé, non risolve nulla. Il problema della crisi attuale è molto più profondo. Quando, “una volta”, la Gran Bretagna aveva promesso una patria agli Ebrei, le potenze occidentali avevano anche promesso (nel 1947) di concedere uno Stato ai palestinesi, un intento mai messo in pratica. Questa lacuna ora sta culminando in uno scontro frontale.

L’ambizione del Gabinetto israeliano di creare uno Stato ebraico nelle terre bibliche di Israele mira semplicemente a bloccare la nascita di qualsiasi Stato palestinese sia in Gerusalemme che in altre zone della Palestina storica. In questo contesto, le azioni di Hamas avevano proprio lo scopo di rompere questa impasse e l’infinito paradigma dei “negoziati” infruttuosi.

Non sorprende che il Ministro della Difesa israeliano abbia già annunciato l’intenzione di Israele di rinnovare i combattimenti subito dopo la fine del cessate il fuoco. I funzionari israeliani hanno detto alle loro controparti statunitensi che prevedono ancora diverse settimane di operazioni nel nord della Striscia, prima di spostare l’attenzione verso il sud.

Finora l’IDF ha operato in aree vicine alla costa di Gaza e in luoghi, come il Wadi, a sud di Gaza City, dove il sottosuolo non facilita la costruzione di tunnel. Sono queste le aree, quindi, dove Hamas non ha significative capacità difensive. Se l’azione militare dovesse essere rinnovata, è probabile che l’IDF si sposti dalla costa settentrionale verso le zone centrali di Gaza City, cosa che permetterebbe ad Hamas di manovrare più facilmente e di infliggere maggiori perdite all’IDF e ai suoi veicoli corazzati. In questo senso – lontano dai simulacri – la guerra è appena iniziata.

Il Primo Ministro Netanyahu è stato politicamente descritto sia in Israele che nei media mainstream occidentali come un “morto che cammina”. Comunque sia, Netanyahu ha la sua strategia: ha sfidato apertamente il team di Biden su ogni questione legata alla guerra, tranne quella di sradicare Hamas.

Durante la conferenza stampa di domenica scorsa, Netanyahu ha parlato di una “cupola di ferro diplomatica“, affermando che non avrebbe ceduto alle “pressioni sempre più pesanti… usate contro Israele nelle ultime settimane… Respingo queste pressioni e dico al mondo: continueremo a combattere fino alla vittoria, fino a quando non avremo distrutto Hamas e riportato a casa i nostri ostaggi“.

Yonatan Freeman, dell’Università Ebraica, percepisce il gioco d’azzardo insito nelle vaghe dichiarazioni di Netanyahu: sfida il Team Biden ma si preoccupa di lasciare un sufficiente “margine di manovra”, in modo da poter incolpare Biden ogni volta che verrà “costretto” dall’America a fare marcia indietro.

La strategia del Gabinetto israeliano, quindi, si basa sulla grande scommessa che l’opinione pubblica israeliana reggerà – nonostante gli indici di disapprovazione personale di Netayahu – e che sarà sostenuta dallo schiacciante sostegno pubblico per i due obiettivi dichiarati dal Gabinetto di guerra: distruggere il “regime di Hamas” e liberare tutti gli ostaggi israeliani.

Alla base della “scommessa” c’è la convinzione che il sentimento dell’opinione pubblica – contestualizzato deliberatamente dal Gabinetto israeliano in termini assolutamente manichei (luce contro oscurità; civiltà contro barbarie; tutti i gazesi complici del “male di Hamas”) – finirà per suscitare un’ondata di consensi per l’ulteriore mossa di togliere “una volta per tutte” dal tavolo la “finzione” di uno Stato palestinese. Si sta preparando lo scenario per una lunga guerra contro il “male cosmico”.

La “soluzione”, come sottolineano il ministro della Sicurezza nazionale Smotrich e i suoi alleati, consiste nell’offrire ai palestinesi una scelta: “rinunciare alle loro aspirazioni nazionali e continuare a vivere sulla loro terra in uno status inferiore”, oppure emigrare all’estero. In parole povere, la “soluzione” è la rimozione di tutti i palestinesi non sottomessi dalle terre del Grande Israele.

Passiamo ora alla prospettiva della contesa:

L'”asse unito” che sostiene i palestinesi osserva che Israele continua a perseguire il suo obiettivo militari iniziale, quello di distruggere Gaza fino al punto in cui non rimarrà nulla – nessuna infrastruttura civile – con cui i gazesi potrebbero vivere, se anche solo tentassero di tornare alle loro case distrutte.

I sostenitori dei palestinesi vedono che Biden approva in pieno questo obiettivo israeliano, e lo hanno capito dalle parole del suo portavoce:

Riteniamo che [gli israeliani] abbiano il diritto di [intraprendere ulteriori operazioni di combattimento a Gaza]; ma [tali azioni]… dovrebbero includere maggiori e più efficaci protezioni per la vita dei civili“.

Il commentatore della sicurezza regionale, Hasan Illaik, osserva che,

“I funzionari dell’Asse ritengono inoltre che le dichiarazioni concilianti degli Stati Uniti, che a volte suggeriscono l’imminenza di una fase di de-escalation, non siano altro che uno sforzo per riparare un’immagine pubblica pesantemente danneggiata dal sostegno incondizionato degli Stati Uniti al continuo massacro dei palestinesi di Gaza da parte di Israele”.

Quindi, Israele, sostenuto dal Team Biden e da alcuni leader dell’UE, sta vincendo?

Tom Friedman – un intimo del Team Biden – ha scritto sul New York Times del 9 novembre – dopo aver viaggiato in Israele e in Cisgiordania:

“Ora capisco perché sono cambiate tante cose. Mi è chiarissimo che Israele è in pericolo reale – più che in qualsiasi altro momento dalla sua guerra d’indipendenza nel 1948”.

Inverosimile? Forse no.

Nel 2012, l’autore statunitense Michael Greer, aveva scritto che Israele era stato fondato in un momento particolarmente propizio, nonostante fosse circondato da vicini ostili:

“Diverse delle principali potenze occidentali avevano sostenuto il nuovo Stato con significativi aiuti finanziari e militari e, cosa altrettanto importante, i membri della comunità religiosa responsabile della creazione del nuovo Stato, rimasti in quelle stesse nazioni occidentali, si erano impegnati in vigorosi sforzi di raccolta fondi per sostenere il nuovo Stato e in altrettanto vigorosi sforzi politici per ottenere il mantenimento o l’aumento del sostegno governativo esistente. Le risorse così messe a disposizione del nuovo Stato gli avevano dato un sostanziale vantaggio militare nei confronti dei suoi vicini ostili e la sua esistenza era diventata un fatto talmente compiuto da indurre alcuni dei Paesi confinanti a rinunciare ad una posizione esclusivamente conflittuale”.

“Tuttavia, la sopravvivenza dello Stato dipendeva da tre fattori. Il primo, e di gran lunga il più importante, era il continuo flusso di aiuti da parte delle potenze occidentali per sostenere un’istituzione militare molto più grande di quanto le risorse economiche e naturali del territorio in questione avrebbero permesso. Il secondo era la continua frammentazione e la relativa debolezza degli Stati circostanti. Il terzo era il mantenimento della pace interna e dell’assenso collettivo ad un chiaro senso delle priorità, in modo da poter rispondere con tutta l’energia possibile alle minacce provenienti dall’esterno – invece di sperperare le limitate risorse della nazione in lotte civili o progetti popolari che non avrebbero contribuito in alcun modo alla sua sopravvivenza”.

“Nel lungo periodo, nessuna di queste tre condizioni potrebbe essere soddisfatta all’infinito… Quando questi primi modelli di sostegno si romperanno, Israele potrebbe trovarsi con le spalle al muro”.

La settimana scorsa, un importante commentatore israeliano ha osservato che:

“Si potrebbe pensare che una visita presidenziale, un discorso presidenziale, tre visite del Segretario di Stato, due visite del Segretario alla Difesa, l’invio di due gruppi di portaerei, di un sottomarino nucleare, di una Marine Expeditionary Unit e l’impegno di 14,3 miliardi di dollari in aiuti militari d’emergenza, siano la testimonianza dell’incrollabile sostegno che gli Stati Uniti stanno estendendo a Israele”…

“Ripensateci”.

“Sotto un apparente pieno e robusto sostegno dell’amministrazione Biden, negli Stati Uniti scorrono correnti pericolose e insidiose che stanno intaccando e corrodendo il sostegno pubblico a Israele. I sondaggi pubblicati la scorsa settimana contengono i dati più allarmanti e significativi: il sostegno pubblico a Israele sta crollando, soprattutto nella fascia d’età compresa tra i 18 e i 34 anni. Un altro sondaggio mostra che il 36% degli americani si dichiara contrario ad ulteriori finanziamenti per l’Ucraina e Israele: il sostegno al finanziamento di Israele è stato solo del 14%”.

Ciò che è davvero notevole è che i leader delle nuove narrazioni sono i giovani delle generazioni Z, Y e Alpha. Sfruttando i social media e parlando direttamente ai loro gruppi di pari, hanno trasmesso al mondo le rimostranze dei palestinesi. Molti avevano una conoscenza limitata della Palestina, ma un senso di giustizia non condizionato ha alimentato la loro rabbia collettiva contro la pulizia etnica della Palestina da parte di Israele.

Anche la seconda e la terza condizione di Greer per la sopravvivenza di Israele stanno metastatizzandosi, e questo mentre le placche tettoniche globali iniziano a muoversi: le potenze non occidentali non stanno dalla parte di Israele. Si stanno coalizzando in opposizione all’aspirazione del Gabinetto israeliano di porre fine all’idea di uno Stato palestinese una volta per tutte. Oggi Israele è aspramente diviso sulla visione del futuro, su ciò che costituisce esattamente “Israele” e persino sulla questione postmoderna di “cosa significhi essere Ebrei”.

Alastair Crooke

Fonte: strategic-culture.su
Link: https://strategic-culture.su/news/2023/11/27/the-magician-hat-and-great-simulacrum-palliative-balm/
27.11.2023
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

Alastair Crooke CMG, ex diplomatico britannico, è fondatore e direttore del Conflicts Forum di Beirut, un’organizzazione che sostiene l’impegno tra l’Islam politico e l’Occidente. In precedenza è stato una figura di spicco dell’intelligence britannica (MI6) e della diplomazia dell’Unione Europea.

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