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DI JOE H.LESTER

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Da appassionato analista di cinema mainstream (perlopiù statunitense), recentemente mi trovo spesso a citare una frase di Guy Debord contenuta nei suoi Commentari sulla società dello spettacolo: “È difficile applicare il principio ‘Cui prodest’ in un mondo dove tanti interessi agiscono nascostamente”.

Se pure risulta evidente come in ogni tempo lo spettacolo sia riuscito a distrarre e influenzare le masse, spingendole a schierarsi contro o pro questo e quello, arrivando per esempio a portare fin sui banchi di scuola neologismi depistatori e quasi nonsense come “fake news” (a proposito lo erano anche le armi di distruzione di massa in Iraq?), non è altrettanto facile individuare i mandanti, le camarille che si celano dietro messaggi che di subliminale oramai non indossano più nemmeno la maschera. È il caso della recente proposta cinematografica Disney contrapposta all’allarmante racconto delle molestie hollywoodiane, che tra l’altro non si capisce bene quale coinvolgimento dovrebbe scatenare, se non una pruriginosa curiosità, nel precario molisano, piuttosto che nella casalinga di Voghera. Parrebbe quasi di assistere a uno scontro tra media caldi e freddi, per dirla alla Marshall McLuhan, tra Jedi e Sith, in cui però non saprei bene in che ruolo collocare l’osservatore, se non in quello di pubblico appunto, né che insegnamento potremmo trarne. È solo intrattenimento, o siamo spettatori di un reale scontro tra enormi gruppi di potere? Oligarchie che si fanno la guerra? Due opposizioni grosse come continenti che cozzano l’un l’altra?

Andiamo con ordine: dopo l’elezione di Trump alla Casa Bianca abbiamo da subito assistito a un continuo tentativo di delegittimarlo tramite movimenti di piazza (sulla cui spontaneità non ci esprimiamo) e una radicale presa di posizione da parte di tutto l’establishment dello star system statunitense che già da anni forse aveva puntato tutto, anche editorialmente, sulla narrazione del primo presidente donna. E poi ti vincono i teocon redneck! Non sono bastati, per ora, i successi degli Hunger Games, bisogna mettere in cantiere le Ocean’s Eight o distribuire “gioiellini” come le Ghostbusters donne (il cui vero problema è stato interrompere la continuity sia chiaro, perché Kristen Wiig & company sono sempre una forza della natura), poi pompare di recensioni positive un film mediocre come Wonder Woman, ecc, ecc, ecc. Certo, resta forte il sospetto che insistere su alcuni tasti può infastidire l’elettorato e alla lunga sortire l’effetto opposto…

Tornando all’anno scorso, quando era il momento di reagire alla batosta e scatenare la cavalleria, da Hollywood giunse l’appassionato discorso anti-Trump e pro-stampa di Meryl Streep ai Golden Globe e poco dopo le caustiche spiritosaggini di Jimmy Kimmel agli Oscar 2017. Insomma, decisamente lontani i tempi felici in cui Michelle Obama annunciava l’Oscar come miglior film (Argo, 2013). Ma è alla figuraccia finale (La La Land, anzi no, Moonlight!) che ho pensato: se non è un sabotaggio, l’ingenuità di ‘sti tromboni, per usare un eufemismo, è impressionante! Sai Trump le risate che si sarà fatto. Sapete com’è, a fare dietrologie si commette peccato, ma spesso ci si azzecca.

Poi è arrivato lo scandalo Weinstein (con tutti i suoi strascichi collaterali, Kevin Spacey incluso), produttore collegato a mezza Hollywood, anche alla già citata Meryl Streep (impressionante la quantità di immagini che li ritrae assieme sorridenti se si googlano i loro nomi). Meryl ora è nuovamente sui nostri migliori schermi con The Post, un film che fonde assieme il tema della complicata solitudine di una donna sul posto di lavoro a quello della libertà di stampa, una pellicola che Spielberg è riuscito a incastrare tra i suoi molteplici impegni non si sa come. Certo, libertà di stampa per la stampa vera, non equivochiamo, quella di carta e dei grandi gruppi editoriali, mica i blog o i siti di controinformazione!

A questo punto dovrei inserire la mia personale sinossi per un film di genere fantapolitico, in cui ci viene il sospetto che le due parti in causa in questa guerra siano lobby israeliane: l’ala sionista che apparentemente appoggia Trump e quella più moderata, democratica si fa per dire, che controlla perlomeno mezzo mondo dello spettacolo americano. Poiché, ci dicono le conache, pare che lo stesso Harvey Weinstein fosse collegato ad alcuni elementi ex-Mossad di cui si sarebbe servito nel tempo per raccogliere informazioni diffamatorie e mettere a tacere alcune delle attrici da lui molestate. Non scordiamoci poi che a fine mandato Obama, con un incredibile colpo di coda, quasi uno sfregio nei confronti del presidente eletto, per la prima volta gli Stati Uniti si astennero dal voto all’Assemblea Generale dell’ONU lasciando passare una risoluzione che era una condanna alla politica degli insediamenti di Netanyahu. E Trump cosa fa invece? Inneggia a Gerusalemme capitale di Israele, scatenando tra l’altro unanime e inedito, contrariamente a quanto (forse) sperava, un sentimento pro-Palestina a livello internazionale. Nonostante l’ONU abbia già in passato rigettato più di una risoluzione israeliana, trattandosi di Trump la notizia stavolta viene persino riportata dai giornali! Che vuol dire tutto ciò? Unite voi i puntini, la mia trama fantapolitica termina qui.

Cosa può aver convinto invece, proprio il 5 ottobre 2017, il New York Times, a pubblicare un’inchiesta circa la risaputa condotta del noto produttore e, in seguito, il 6 novembre 2017, il New Yorker a pubblicarne un’altra, a firma di Ronan Farrow, e poi i media tutti a scoperchiare il vaso di Pandora sulle consolidate abitudini hollywoodiane? Come al solito a pensar male… Così sono semplicemente andato a controllare su IMDB (e se le cose non cambiano potete farlo anche voi) quale fossero le ultime produzioni di Harvey il briccone. E indovinate quale titolo ha attirato la mia attenzione? Proprio l’ultima pellicola, ancora in lavorazione: Fahrenheit 11/9, seguito ideale di Fahrenheit 9/11, del documentarista premio Oscar Micheal Moore. E cliccando sul cast di questo suo nuovo lavoro indovinate chi risulta essere il protagonista? Ma naturalmente proprio lui, Mr. President. E possiamo scommetterci che parte della durata del documentario sarà occupata dal suo rapporto con le donne non precisamente rispettoso e paritario. Che credibilità ha un documentario su un sospetto molestatore di donne, prodotto da un molestatore di donne? Zero. Risultato: Harvey viene in tutta fretta scaricato dal fratello Bob e la sua creatura, la Weinstein Company, viene messa in vendita, non è chiaro se a pezzi o in blocco. Chi si fa avanti per rilevarla? Tarak Ben Ammar, già membro del consiglio di amministrazione, dichiara di aver siglato un accordo con Colony Northstar, ex-Colony Capital, fondata da Thomas J. Barrak Jr. stretto amico e consigliere proprio di Trump. Ovvio no? E Michael Moore corre subito ai ripari cercando un nuovo distributore, minacciando di trascinare i Weinstein in tribunale. Tutto buono per Donald.

Ecco però che il medium caldo, il cinema, incassata la sconfitta, riorganizza le truppe e si prepara a riprendere il proprio racconto. E lo fa proseguendo la linea iniziata col precedente blockbuster del suo franchise più noto, giunto oramai all’ottavo episodio (senza contare gli spin-off): Star Wars – Gli ultimi Jedi. SPOILER! Certamente un film di pregevole fattura e costellato di belle sequenze, che a sorpresa tradisce la grammatica della saga. C’è sempre stato un salto temporale tra un film e l’altro, qui invece si inizia a ridosso del precedente; non ci sono mai stati prima flashback e spiegoni tanto significativi in Star Wars, si vive ciò che sta accadendo (L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell insegna); e soprattutto si chiude sempre sui protagonisti, non su personaggi sconosciuti. Il Luke Skywalker che conosciamo non si comporterebbe mai in quella maniera, non potrebbe in alcun modo avere anche soltanto l’istinto di sguainare la spada laser alle spalle di nessuno, figuriamoci del nipote addormentato. E infatti anche Mark Hamill ha raccontato più volte di non essere d’accordo con la condotta del suo personaggio, prima di ritrattare clamorosamente in più tweet. Ora, chiariamo: questo commento non ha l’ambizione di essere una recensione, bensì vuole soltanto essere una riflessione, forse appena un tantinello provocatoria. Ma vogliamo parlare di Leila Poppins?! Non si può farle fare un voletto spaziale con tanto di congelamento dopo i Guardiani della Galassia senza risultare ridicoli e in ritardo.

Cosa ci vorrebbe raccontare infine questo episodio? Rinnovamento, rinascita, rigenerazione: palingenesi insomma, anche e soprattutto della classe politica e dirigenziale della galassia lontana lontana eppure mai così vicina. E questa nuova trilogia tutta, alla fine della fiera, parrebbe proprio di ispirazione clintoniana (nelle intenzioni del produttore), magari renziana per lo spettatore italiano, tanto tende a identificare posizioni antiestablishment nello scontento e capriccioso figlio di papà Kylo Ren (niente più Jedi né Sith, dice lui). Insomma, secondo la Disney, Ben Solo è un giovane che nella realtà avrebbe votato Trump, e che quindi in Italia sarebbe forse tentato dai 5 Stelle, mentre la visione di Kathleen Kennedy, attuale presidente della Lucasfilm (acquistata dalla casa di Topolino come la Pixar, la Marvel e oggi di gran parte della 21st Century Fox) promuoveva idealmente Hillary Clinton presidente. Il caso li ha privati della loro Principessa e adesso avranno una bella gatta da pelare. Non stupirebbe un Episodio IX, dove sicuramente avremmo dovuto avere Leia come deus ex machina, che la vedrà invece morire all’inizio o comunque essere messa da parte, per poi magari recuperare un Hamill “fantasma di forza”, anche in considerazione dello scarso gradimento di pubblico rilevato da siti come Rotten Tomatoes (sono stati gli hacker di destra, come no).

Riguardo certo recente femminismo d’accatto, speriamo almeno che la Kennedy e il ritrovato J. J. Abrams abbiano ascoltato le dichiarazioni di Susan Sarandon, donna di sinistra e realmente impegnata, secondo cui Hillary non sarebbe stata affatto meglio di Trump. Quello forse era Sanders, ma è stato boicottato proprio dalla Palpat… ehm, Clinton. Non sarebbe complicato da capire, a meno che, anche editorialmente, non si è aderito al lato oscuro. Piuttosto si ritrova la posizione degli sceneggiatori, o autori che dir si voglia, nel personaggio di Benicio Del Toro (Ops! I cattivi vendono armi al Nuovo Ordine, ma anche alla Resistenza!), il quale spiega a Finn quello che Katniss Everdeen capiva definitivamente alla fine della saga degli Hunger Games. E mi sembra un tentativo di dire la propria nonostante il produttore, di far passare un messaggio senza essere troppo sgamati, un po’ come facevano Dalton Trumbo e compagni durante il maccartismo. Solo che siamo negli anni 2000, quindi poi prendi i soldi e scappa.

Il lavoro di propaganda prosegue in maniera sinceramente ammirevole anche alla Pixar, che in un momento storico dove un presidente degli Stati Uniti cavalca l’idea, non certo nuova, di un muro al confine col Messico (vedere l’episodio numero 2 della quarta serie di Arrested Development, 2013), ci racconta in Coco di un coloratissimo paese che per contrasto costruisce ponti verso l’Aldilà. Tutto bello e buono, se non fosse che qualcuno dovrà prima o poi prendersi la briga di spiegare all’audience, statunitense e non, che la barriera tra Messico e USA, a onor del vero, è stata voluta e iniziata da Bush padre e poi proseguita da Bill Clinton e nel tempo, in Senato, tra i votanti a favore ci sono stati anche i democratici Hillary Clinton e Barack Obama.

E infine sono arrivati i Golden Globe 2018, dalle cui battute è sparita l’ombra di Trump, efficacemente sostituita da quella di Harvey Weinstein. Niente da fare, le star di Hollywood proprio non ce la fanno a vivere senza un cattivo contro cui strillare. In una società equilibrata, non isterica e fondamentalista su ogni fronte come quella che abbiamo costruito, non ci sarebbe bisogno di discutere della differenza tra molestie e avances. Questo dimostra quanto siamo immaturi: certa enfasi appartiene ai teenagers. O ai vecchi arteriosclerotici. Insomma, o alla prima categoria o all’altra. Poiché solo una decadente società dello spettacolo affiderebbe le fondamentali istanze del femminismo a un gruppo di moderni saltimbanchi con necessità di protagonismo. Roba che fa veramente male alla causa, tra l’altro, rischiando di sortire nuovamente il famigerato effetto contrario.

Così anche il comizio della Streep è stato sostituito da quello di un’ispiratissima Oprah Winfrey (forse in procinto di interpretare un qualche ruolo politico di primo piano?) con la stessa sostituzione di temi.

Ma insomma qualcuno ha vinto la battaglia? E di tutto ciò “cui prodest” infine? Magari qualche suggerimento ce lo potranno dare i premi Oscar 2018. La guerra e la propaganda stellare continuano. Forse avremo come prossima candidata democratica alla presidenza degli stati uniti non più Michelle Obama come qualcuno speculava, bensì Oprah, magari con l’attuale CEO Disney Bob Iger come vice (se riuscirà a liberarsi del vincolo di mandato al 2021 che gli ha imposto Murdoch come condizione necessaria al colpaccio dell’acquisizione degli asset cinema e spettacolo del gruppo Fox), dopotutto saperlo tra i responsabili della raccolta fondi per la campagna elettorale di Hillary Clinton lo rende un personaggio ancor più affidabile, poiché esperto di certe questioni. E magari i repubblicani risponderanno a tanto star power con Dwayne “The Rock” Johnson, chissà.

Riguardo il nostro destino invece, in che modo si rapporti a queste vicende, torna nuovamente in aiuto l’imprescindibile Debord, spiegandoci come lo spettacolo, che oggi tanto aliena l’uomo oltre ogni nefasta previsione, sia in realtà: “un discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo”.

Joe H. Lester

Fonte: www.comedonchisciotte.org

23.01.2018

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