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La Redazione

 

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Possono aspettare con calma, mentre Netanyahu si affanna e sbaglia

Netanyahu è nel bel mezzo di una "campagna". Ma non è una campagna elettorale, perché non avrebbe alcuna possibilità di sopravvivere alle elezioni.
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A cura di Markus
Il 20 Dicembre 2023
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Alastair Crooke
strategic-culture.su

In una piccola stanza poco illuminata di Gaza, era stato possibile distinguere prima la vecchia sedia a rotelle da museo e poi la figura accartocciata e avvolta in una coperta del paraplegico che la occupava. All’improvviso, dalla sedia a rotelle era arrivato uno stridio acuto; l’apparecchio acustico del suo occupante era impazzito e avrebbe continuato a strillare a intervalli regolari per tutta la durata della mia visita. Mi ero chiesto quanto potesse sentire l’occupante della sedia, con un apparecchio acustico così mal regolato.

Durante la discussione, mi ero reso conto che, disabile o meno, il suo stato mentale era più affilato di una lama. Era duro come il ferro, aveva un ottimo senso dell’umorismo e i suoi occhi brillavano in continuazione. Chiaramente si stava divertendo, tranne quando lottava con i fischi e gli strilli del suo apparecchio acustico. Com’era possibile che un tale carisma fosse racchiuso in una figura così esile?

Quest’uomo sulla sedia a rotelle e con l’auricolare sgangherato – lo sceicco Ahmad Yasin – era il fondatore di Hamas.

E ciò che mi aveva detto quella mattina è arrivato a sconvolgere il mondo islamico di oggi.

Mi aveva detto: “Hamas non è un movimento islamico. È un movimento di liberazione e chiunque, sia esso cristiano o buddista – persino io [Alastair Crooke] – avrebbe potuto farvi parte. Siamo tutti benvenuti”.

Perché questa semplice formula è così significativa e collegata agli eventi di oggi?

L’ethos di Gaza, a quel tempo (2000-2002), era prevalentemente quello dell’Islamismo ideologico. La Fratellanza Musulmana egiziana era profondamente radicata. Non era esclusivamente un movimento di resistenza – era capace di usare la violenza, ma il suo obiettivo principale era il lavoro sociale e una governance non corrotta. Voleva dimostrare quanto fosse in grado di governare.

Il commento di Yasin era rivoluzionario perché il concetto di liberazione aveva la meglio sui dogmi e sulle varie “scuole” dell’Islam politico. Alla fine, questo sarebbe diventato “Hamas in Gaza”, in contrasto con la sua leadership convenzionale residente a Doha. Sinwar e Dief [attuali leader di Hamas] sono i “figli di Yasin”.

Per farla breve, poco tempo dopo Yasin, mentre attraversava la strada sulla sedia a rotelle per raggiungere la moschea vicino a casa per la preghiera del venerdì, era stato fatto a pezzi da un missile israeliano.

L’ala dei Fratelli Musulmani di Hamas aveva avuto la possibilità di dimostrare la propria abilità di governo: aveva (ragionevolmente) vinto le elezioni dell’Autorità Palestinese del 2006 a Gaza e aveva ottenuto la maggioranza dei seggi, alcuni anche in Cisgiordania.

Il presidente Bush e Condaleeza Rice erano inorriditi. Avevano sostenuto le elezioni… ma non avrebbero mai immaginato…

Così, il premier Blair e il presidente Bush avevano messo a punto un piano segreto di risposta (non comunicato all’UE): i leader di Hamas e le ONG di supporto sociale del movimento dovevano essere eliminati. E l’Autorità palestinese avrebbe dato un giro di vite a tutte le attività di Hamas, in stretta collaborazione con Israele.

In questo piano, la Cisgiordania sarebbe stata destinataria di ingenti aiuti finanziari volti a costruire un prospero Stato consumista in stile occidentale, mentre Gaza sarebbe stata esplicitamente impoverita. Sarebbe stata fatta “cuocere nel suo stesso brodo” in 16 anni di assedio e ridotta in povertà.

Gli israeliani avevano fornito al piano Blair la base empirica – calcolando esattamente quante calorie, a testa, quanto carburante e gas sarebbero potuti entrare a Gaza – in modo da mantenere lo standard di vita a livello di sussistenza. E da questa iniziativa di Blair-Bush, i palestinesi erano stati irrimediabilmente divisi, senza un progetto politico neanche lontanamente possibile.

Come scrive Tareq Baconi su Foreign Policy:

“Hamas era bloccato in… un “equilibrio violento”, in cui la forza militare emergeva come mezzo per negoziare concessioni tra Hamas e Israele. [Hamas ha usato] missili e altre tattiche per costringere Israele ad allentare le restrizioni sul blocco, mentre [Israele] ha risposto con una forza schiacciante per costruire una deterrenza e garantire la “calma” nelle aree intorno alla Striscia di Gaza. Attraverso questa violenza, entrambe le entità hanno operato all’interno di un quadro in cui Hamas ha potuto mantenere il suo ruolo di autorità di governo a Gaza anche sotto un blocco che mette in atto una violenza strutturale quotidiana contro i palestinesi”.

È questo il paradigma dell’assedio a Gaza che è esploso il 7 ottobre:

“Il cambiamento strategico ha comportato il passaggio dall’uso limitato del lancio di razzi per negoziare con Israele ad un’offensiva militare a tutto campo volta ad interrompere il suo contenimento, in particolare, e l’assunto israeliano di poter mantenere impunemente un sistema di apartheid”.

Hamas si è trasformato: ora è il “movimento di liberazione” che era stato previsto dallo sceicco Yasin – la liberazione di tutti coloro che vivono sotto l’occupazione – e , proprio come lo intendeva Yasin, è incentrato su un Islam non ideologico, sull’icona civile della moschea “Al-Aqsa”, che non è né palestinese né sciita né sunnita, né wahhabita, né della Fratellanza, né salafita.

Ed è questo – Hamas come movimento di liberazione – che si accorda direttamente con la nuova “spinta indipendentista” globale a cui stiamo assistendo oggi, e che, forse, spiega le enormi marce a sostegno di Gaza, in tutto il Sud globale, così come in Europa e negli Stati Uniti. La punizione inflitta ai civili di Gaza ha quell’imperdibile tocco da “vecchio colonialismo” che evoca i ricordi e scatena la rabbia.

Il calcolo di Hamas è che la sua resilienza militare, più la pressione internazionale sostenuta dai massacri di Gaza, alla fine potrebbe costringere Israele a negoziare e, infine, a raggiungere un (costoso, “tutto per tutti”) accordo sugli ostaggi con il movimento palestinese, così come un cambiamento di paradigma nel regno politico degli infiniti “colloqui di pace” con Israele. In breve, la scommessa di Hamas è che la sua resilienza militare probabilmente supererà l’impazienza della Casa Bianca di porre rapidamente fine all’episodio della guerra di Gaza.

Questo approccio sottolinea come Hamas e i suoi “alleati dell’Asse” abbiano una strategia in cui gradini dell’escalation sono coordinati e procedono per consenso, evitando reazioni impulsive a eventi che potrebbero far precipitare la regione in una guerra totale – un esito distruttivo a cui nessuno dei “principali” dell’Asse desidera assistere.

In definitiva, questo attento calcolo dell’Asse si basa sul fatto che Israele commetta errori prevedibili che consentano un graduale incremento del logoramento regionale rispetto alle capacità militari di Israele. La reazione esagerata del Gabinetto israeliano ai fatti del 7 ottobre rientrava nel calcolo; il fallimento di Israele nello sconfiggere Hamas a Gaza era previsto, così come l’escalation dei coloni in Cisgiordania e i tentativi di Israele per cercare di cambiare lo status quo rispetto a Hezbollah. Anche questo era previsto. (Gli abitanti del nord di Israele si rifiuteranno di tornare alle loro case senza un cambiamento della situazione nel sud del Libano).

Tutte queste presunte escalation israeliane potrebbero concretizzarsi nella forma di un “diversivo da Gaza” concertato da Netanyahu, in quanto l’opinione pubblica israeliana comincia a dubitare che Hamas sia vicino alla sconfitta e a dubitare anche che il bombardamento dei civili palestinesi faccia pressione su Hamas affinché rilasci altri ostaggi, come sostiene il governo o, piuttosto, possa mettere a rischio altre vite di ostaggi israeliani.

Anche se le forze dell’IDF dovessero continuare ad operare a Gaza ancora per qualche settimana, scrive Amos Harel, commentatore degli affari militari di Haaretz,

“rischierebbero di non soddisfare le aspettative dell’opinione pubblica – dal momento che la leadership politica ha promesso di eliminare Hamas, di restituire tutti gli ostaggi, di ricostruire tutte le comunità di confine devastate e di rimuovere ogni minaccia alla loro sicurezza. Si tratta di obiettivi ambiziosi, ed è già chiaro che alcuni di essi non saranno raggiunti…”.

I leader di Hamas, al contrario, sono consapevoli che i membri dell’attuale gabinetto (Levin, Smotrich e Ben Gvir) avevano previsto già da anni che sarebbe stata necessaria una crisi vera e propria – o una guerra – per attuare il piano di pulizia della Cisgiordania dalla popolazione palestinese, una pulizia etica indispensabile per la fondazione di Israele sulla biblica “Terra di Israele”.

È quindi inverosimile che l’Asse della Resistenza basi il suo piano su errori strategici di Israele?

Forse non è così inverosimile come alcuni potrebbero immaginare.

Netanyahu deve continuare la guerra (per la sua stessa sopravvivenza), perché la fine delle ostilità potrebbe essere un disastro per lui (e per la sua famiglia). Netanyahu è quindi nel bel mezzo di una “campagna”. Ma non è una campagna elettorale, perché non avrebbe alcuna possibilità di sopravvivere alle elezioni.

Al contrario, si tratta di una “campagna per la sopravvivenza” con due obiettivi: tenersi stretto il seggio per altri due anni (cosa fattibile, dato che la possibilità di defezioni dal governo è tutt’altro che sicura) e, in secondo luogo, conservare, o addirittura rafforzare, l‘ammirazione servile della “base”.

“Solo io, Netanyahu, posso impedire la nascita di uno Stato palestinese a Gaza, in Giudea e in Samaria”: “Non lo permetterò”. “Non ci sarà mai” uno Stato palestinese. Solo io posso gestire le relazioni con Biden. Solo io so come manipolare la psiche statunitense”.

“Sono io a guidare”… non solo per la storia ebraica, ma anche per la civiltà occidentale.

“Ma a cosa serve una lunga guerra”, si chiede il corrispondente israeliano e commentatore di Haaretz B. Michael,

“se alla fine, o anche mentre è ancora in corso, la ‘base’ si annoia, diventa indifferente e delusa? Non è questo il tipo di base che si precipiterà nella cabina elettorale con la scheda giusta tra i denti. Una base vuole azione. Una base vuole sangue. Una base vuole odiare, essere arrabbiata, essere offesa, vendicarsi. Scaricare sull’altro tutto ciò che la fa arrabbiare.

Questo è l’unico modo per capire l’ostinata evasione [di Netanyahu] da qualsiasi seria discussione su una politica che consenta l’uscita da questa guerra. Solo così si possono comprendere le infondate promesse di un controllo perenne di Gaza. La base è felice. Le speranze si stanno avverando. Stiamo davvero attaccando gli Arabi, spingendoli verso il mare. Ed è tutto merito di Bibi.

Non c’è una goccia di logica nel massiccio bombardamento di Gaza. Né una goccia di beneficio deriverà dall’uccisione di altri palestinesi… tutto questo è una palese follia e un imbarazzante atto di servilismo nei confronti della base – che non deve essere assolutamente delusa dal leader. Che ne sarà degli ostaggi? La base è più importante”.

Israele lo aveva già sperimentato in passato, in particolare con la Nakba del 1948. L’aspettativa arrogante che questa sarebbe stata la “fine della storia” – i palestinesi espulsi, le loro proprietà saccheggiate e appropriate – “Fine della storia” (si credeva). Problema risolto”.

Eppure non era mai stato risolto. Da qui il 7 ottobre.

Il Primo Ministro e il suo gabinetto sono in modalità “campagna elettorale” per cogliere e amplificare il trauma della base derivante dal 7 ottobre – e per plasmarlo in base alle loro esigenze elettorali.

Netanyahu ha ripetuto un unico messaggio: “Non smetteremo di combattere”. Dal suo punto di vista, la guerra deve continuare per sempre:

“La visione di Ben-Gvir, Bezalel Smotrich e degli altri come loro sta prendendo forma. E l’arrivo del messia deve essere dietro l’angolo. Ed è tutto merito di Bibi. Urrà per Bibi!”.

La Resistenza capisce e vede tutto: come farà Israele ad uscire da questa situazione? Rovesciando Bibi? Non basterà. È troppo tardi. Il tappo è stato tolto, i geni e i demoni sono fuori.

Se il “fronte” rimarrà coordinato, procederà per consenso, eviterà qualsiasi reazione pavloviana agli eventi che potrebbero far precipitare la regione in una guerra totale allora:

‘Possono aspettare con calma, mentre (Netanyahu) si affanna’ – e sbaglia (Sun Tzu).

Alastair Crooke

Fonte: strategic-culture.su
Link: https://strategic-culture.su/news/2023/12/18/they-can-wait-at-leisure-whilst-netanyahu-labours-and-errs/
18.12.2023
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

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Alastair Crooke CMG, ex diplomatico britannico, è fondatore e direttore del Conflicts Forum di Beirut, un’organizzazione che sostiene l’impegno tra l’Islam politico e l’Occidente. In precedenza è stato una figura di spicco dell’intelligence britannica (MI6) e della diplomazia dell’Unione Europea.

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