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Il Business della macellazione

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A cura di Davide
Il 20 Febbraio 2018
517 Views

 

PAUL TRITSCHLER

counterpunch.org

Li vedevamo sbirciare fuori tra le assi di legno delle casse dei camion, rinchiusi bene, che passavano per la città. Spesso quando i camion rallentavano agli incroci, gruppi di bambini – io tra loro – si afferravano alla parte posteriore per fare un giro gratuito (un gioco rischioso che chiamavamo “andare aggrappati”), ma l’idea di stare aggrappati al camion che andava al macello ci riempiva di disgusto. Come bambini di città, la nostra idea sugli animali della fattoria veniva filtrata attraverso una visione annebbiata tipo Disney, ma nessuno riusciva a vedere che la corsa al macello aveva qualcosa di sbagliato. Avendone la possibilità, avremmo sicuramente liberato i nostri nobili amici per farli gironzolare per le strade e nella nostra immaginazione: mucche, maiali, polli – tutti.

Erano terrorizzati in quei veicoli con pareti alte; le madri separate dai loro figli, e alcune avevano partorito nel camion, in quelle condizioni anguste. Capitava spesso per una cucciolata di nascere e che i cuccioli venissero calpestati durante il viaggio, e per alcuni anche scivolare fuori attraverso le assi come un bolo e carne flaccida; una volta vedemmo un maialino appena nato scivolare fuori e finire sull’asfalto a Saltmarket, ma non fummo capaci di andare a vedere se fosse vivo prima che il traffico lo schiacciasse.

C’erano tre posti coinvolti nel macello degli animali vicino a dove siamo cresciuti, Glasgow Cross, e io ci passavo abitualmente per andare a scuola. Ogni mattina, dopo aver scavalcato i cumuli di residui di pesce in decomposizione nel mercato del pesce di Briggait, passavo per le piante che venivano processate per diventare mangime ed ero testimone della rude macellazione di pollame che sembrava non avesse fine. Quelli che non erano stati sgozzati ancora vivi, venivano presi per il collo e messi su un nastro trasportatore. La puzza era terribile, tanto da trattenere il respiro quando ci passavo.

I bovini venivano uccisi a Calton, il macello dal quale passavo quando andavo alle scuole medie. Non ci entrai mai, ma una volta, quando mio fratello più grande era nei vigili del fuoco, la sua unità fu chiamata in piena notte per andare in questo posto tetro. Scoppiò un incendio, isolato, in uno degli uffici ma il fumo riempì l’edificio, e mio fratello fu costretto a sciropparselo tutto a pieni polmoni. Il fumo era illuminato ad intermittenza da due grandi fari rossi lungo quel pavimento mortale che erano seguiti dal lungo e pulsante suono dell’allarme. Attentamente camminò tra loro, aggrappandosi alla ringhiera di metallo come supporto. In quei momenti di surreale visibilità rossa vedeva carcasse, tagliate, fatte a pezzi, pozze di sangue sul pavimento di pietra. Ha dovuto camminare attraverso quelle pozze di sangue. Trovando corpi carbonizzati vicino le uscite antincendio del magazzino, e nelle sovraffollate catapecchie, spesso intravedeva l’inferno – Glasgow Est era la stazione più indaffarata d’Europa – ma l’aver camminato sul pavimento mortale poteva essere davvero la porta d’ingresso di quell’inferno. Era una camminata che l’avrebbe poi perseguitato.

Non ho mai visto l’interno del macello di Calton se non attraverso gli occhi di mio fratello – comprensibilmente, i manager erano di solito abbastanza scrupolosi nel nascondere la carneficina al grande pubblico – ma dalle persone del vicinato ho guadagnato una visione del massacro umano che avveniva oltre quei minacciosi cancelli curvi. Ho imparato cos’è la morte, distribuire su scala industriale e non avere compassione dell’agonia degli animali, sofferenza che è parte della routine della macellazione, e della banale brutalità con la quale li portano via per ovviare alla noia di quel pavimento – una gamma di indicibili crudeltà ideate unicamente con finalità d’intrattenimento.

C’è stata un’occasione, ricordo, un bue barricato all’entrata del macello lungo Gallowgate. Meccanicamente le persone iniziarono ad accalcarsi portandosi birre prese nei pub, spettatori divertiti da quello che sembrava uno sport, uno schiavo che cercava di scappare dalla sua vita. Ridevano quando l’animale disperatamente si muoveva a zig zag nel traffico, prendevano in giro i poliziotti in divisa e gli operai del macello che l’inseguivano a piedi. Guardavo lo sguardo sui volti di quella folla, apparentemente insensibili del panico in cui si trovava l’animale e dei suoi frenetici sforzi di scappare. Un giornale locale riportò la storia con una sorta di sollievo, descrivendo che dopo qualche ora, e molte miglia, era stata portata una mucca per indurre il bue a salire su una rampa e farlo entrare in un camion per trasporto bestiame. Lontani dal trasmettere il raccapricciante orrore che accade in quel magazzino, l’articolo voleva sottolinearne il lieto fine. In verità, una volta diventato “gestibile” – o meglio, scioccato – il bue sarebbe stato issato in aria da una catena attaccata a una delle caviglie posteriori e sarebbe stato aperto tagliandogli la gola, al che il suo corpo cominciò a contorcersi violentemente e mentre esalava gli ultimi sospiri il cuore pompò tutto il sangue fuori finendo su quel pavimento omicida. È anche probabile che la mucca e il toro furono macellati uno di fronte all’altro – una caratteristica comune di quel pavimento, e dati inquietanti della ricerca di de Waal and Preston ci accomunano che quello che subiscono gli animali “da cucina” è una caratteristica più importante di tutte le altre che definisce la nostra umanità: empatia.

La morte del bue, sottoposta a revisione rispetto alla misura di riferimento dei principali indicatori di efficienza, sarebbe un criterio per valutare le prestazioni nei sistemi di gestione della qualità utilizzato oggi nei macelli. Soprattutto, questo tipo di omicidio (l’eufemismo preferito dall’industria è “elaborazione”), sarebbe considerato umano – un concetto che, per definizione, significa mostrare compassione. Molte persone arrivano ad accettare la legittimità delle parole “umano” e “uccisione” nella stessa frase: il diritto di morire con dignità, di porre fine a sofferenze incessanti, di autorizzare organi per trapianti da qualcuno in uno stato vegetativo permanente. Morte su qualsiasi altro motivo. Eppure le domande sulla compassione vengono raramente sollevate contro la domanda di carne e dell’industria casearia – un insieme di imprese guidata dal desiderio di massimizzare i profitti dall’ “elaborazione” della cura, della vita, del pensiero di cose che hanno la capacità di soffrire e sono desiderosi di vivere.

Ad eccezione dell’India, dove il 30% della popolazione è vegetariana, la grande maggioranza delle persone – 90 % – in quasi tutti i paesi del mondo, mangia carne e latticini. Da questo è deducibile che le persone credono effettivamente che sia accettabile per le imprese possedere, allevare, castrare, mettere all’ingrasso e uccidere gli animali a scopo di lucro. La maggioranza, ovviamente, non la rende una cosa giusta – basta prendere in considerazione un diffuso sostegno alla schiavitù, alla pulizia etnica o alla pena capitale. C’è però qualcosa di incoraggiante, come i segnali di un cambiamento nell’opinione pubblica, con un numero crescente di persone che chiedono che gli animali vengano uccisi nel modo più umano possibile. Da qui però si solleva la questione sul tracciamento del confine tra umano e disumano. Considerati gli strumenti di questo commercio – coltelli, seghe, martelli, elettricità, catene e ganci – potrebbe essere più umano gettarli nei camion in cui vengono trasportati da una fattoria all’altra? In tal caso potrebbe esserci preoccupazione per il deterioramento delle carcasse in transito – sia per il cibo che per i prodotti a base di pelle – potrebbe quindi essere più efficiente portarli direttamente in massa in camere a gas? Il pensiero paragonato alle atrocità umane può essere inquietante, ma è ragionevole chiedersi se la razionalità alla base della macellazione selettiva degli animali – sia quelli domestici che quelli alimentari – sia diversa dalla razionalità che sta alla base dello sterminio delle popolazioni umane nei campi. (È forse degno di nota che il gas è sempre più, e in qualche modo orripilante, usato per uccidere i maiali, come mostrato al seguente link (Attenzione: è inquietante).

La morale è il centro della questione. Da bambino, ho trovato difficile distinguere tra santi martiri e animali assassinati. La mia insegnante era desiderosa di trasmettere la dolorosa storia di Sant’Andrea, il santo patrono del nostro paese, che fu smembrato con un’accetta – le mani e i piedi per primo – mentre era ancora cosciente su una croce a forma di X. È stato ugualmente sconvolgente apprendere che lo smembramento degli animali ancora coscienti era un evento normale nel mattatoio di Calton. Se gli animali fossero sopravvissuti a quel viaggio sovraffollato dalla fattoria al macello – in condizioni di stress, disidratazione, calore o congelamento – sarebbero poi stati maltrattati, tagliati, bruciati, spellati e smembrati. Questo è quello che succede nell’industria della carne e dei latticini oggi, ma su scala molto più rapida, intensa e inumana.

Per quanto riguarda la sofferenza degli animali da fattoria, l’unico riferimento che ricordo di quegli anni era legato alla loro sfortunata capacità di percepire l’avvicinarsi alla morte. Era risaputo che gli animali potevano improvvisamente cambiare comportamento dopo essere stati scaricati dai camion nel macello – presi dal terrore, diventavano frenetici durante gli ultimi minuti della loro vita – e non era insolito che le persone si interrogassero su come potevano percepire che stavano per essere uccisi. La spiegazione che girava era che il loro istinto di morte veniva stimolato. Questa conveniente giustificazione, una forma di negazione, distoglieva l’attenzione dal caos di sangue schizzato sul pavimento mortale a quello di una stranezza evolutiva: un difetto genetico che in qualche modo permetteva agli animali di percepire la loro morte imminente.

Gli animali potrebbero avere una sorta di antenna psichica, misteriosi mezzi per trascendere la sostanza conosciuta di questo mondo, ma sembra più probabile che la loro isteria scaturita dall’approccio al macello abbia la sua fonte nelle viscere e nelle richieste di aiuto dei compagni poco prima di essere mutilati e smembrati. Questa nozione del profondo istinto di morte maschera la realtà e attenua di conseguenza la colpa: permette alle persone di riconoscere una forma discreta di sofferenza animale e allo stesso tempo di dissociarsi dalle terribili disavventure dell’animale – in breve, la responsabilità viene spostata dagli umani alla sofferenza dell’animale stesso. Visto da questa prospettiva, il problema non è tanto il nostro desiderio di consumare animali, quanto invece il loro desiderio di vivere.

L’idea di un istinto di morte da parte di forme di vita inferiori, chiamate anche animali da cibo, ricorda l’idea prevalente tra molti psichiatri a metà del diciannovesimo secolo – uomini come il dottor Samuel Cartwright, che osservarono l’esplosione di una condizione curiosa tra gli schiavi di colore: l’impulso di essere liberi. Avendo inventato una diagnosi (soprannominata ‘drapetomania’), per questa malattia mentale – una malattia con caratteristiche cliniche che includeva un persistente desiderio di libertà, un’infelicità crescente o persino malumore occasionale – Cartwright inventò una cura: il dolore. Raccomandò che lo schiavo afflitto fosse frustato fino a che sulla sua schiena non si vedesse la carne viva, seguito poi dall’applicazione sulle ferite di una sostanza irritante per intensificare l’agonia. Ha portato il risultato desiderato: questo legame mentale non ha curato la condizione, ma ha aiutato a controllare quest’ondata, riducendo notevolmente l’impulso da parte degli schiavi a separarsi dai loro padroni.

Come rivelato da ricercatori come Gail Eisnitz, una sorta di logica simile predomina nei macelli, dove bastoni o martelli sono usati per rompere le gambe o la spina dorsale agli animali irrequieti per farli calmare, e vengono versate lacrime di agonia poiché gli vengono tagliate le corde vocali – specialmente quando vengono catturati nel cancello e sono costretti, da vivi, a farsi tagliare le gambe o la testa per accelerare la lavorazione. E l’accelerazione è oggi il meccanismo del macello, dato che sono stati compiuti sforzi maggiori per soddisfare l’aumento del tutto irrealistico e non necessario nella domanda globale di carne – un aumento che richiede un’intensificazione di risorse, nonché dannoso per l’ambiente e uno dei maggiori contribuenti del cambiamento climatico. Se non per motivi di salute personale, etica o semplicemente disgusto, le prove suggeriscono che diventare vegani è uno dei modi più immediati ed efficaci per un individuo di ridurre le emissioni nocive che influenzano il cambiamento climatico. La ricerca di Peter Scarborough presso l’Università di Oxford ha scoperto che il passaggio a una dieta vegana – a seconda delle scelte fatte per la sostituzione della carne – era un’opzione più realistica per la maggior parte delle persone al fine di ridurre le emissioni di carbonio, rispetto ai tentativi di riduzione delle stesse nell’area dei trasporti, come l’utilizzo di auto o di aerei. La dieta vegana, secondo la ricerca, riduce del 60% l’impatto di carbonio legato al cibo, risparmiando l’equivalente di 1,5 tonnellate di biossido di carbonio all’anno.

La macellazione degli animali ha un impatto negativo sul clima, sulla qualità della vita nella società e sulla nostra identità. La misura in cui siamo disposti ad accettare lo sfruttamento degli animali e a tollerarne le crudeltà su di essi – che è vista sempre di più come chiave della macellazione a ritmo industriale – ha una certa influenza su come vediamo noi stessi e gli altri. Ad esempio, a un certo punto, vi sono chiare indicazioni per la quale la crudeltà sugli animali sia da considerare un presagio della violenza e della criminalità umana. I pericoli a questo riguardo sono stati sollevati sul Counterpunch Magazine dalla giornalista investigativa della sanità, Martha Rosenberg, che ha scoperto che i criminologi e le forze dell’ordine stavano finalmente iniziando a riconoscere ciò che l’antropologa, Margaret Mead, aveva dichiarato nel 1964: “Una delle cose più pericolose che possa accadere a un bambino è uccidere o torturare un animale e farla franca”.

Rosenberg menziona prove che mostrano la relazione tra crudeltà verso gli animali e modelli di comportamento violento, che vanno dalla violenza domestica, agli omicidi e alle uccisioni di massa. Secondo Rosenberg, cosa hanno in comune Ted Bundy, John Wayne Gacy, Jeffrey Dahmer, Devin Kelley (l’assassino della chiesa del Texas), Anders Breivik (che ha ucciso 77 persone in Norvegia nel 2011) e una schiera di altri è quella di aver torturato animali e erano felici del dolore inflitto. Ci si potrebbe ragionevolmente chiedere se la nostra tacita accettazione della crudeltà nei confronti degli animali, del massacro che serve semplicemente a soddisfare i nostri gusti, alla fine ci desensibilizza – anche se in misura diversa – alla sofferenza degli altri.

Molti ritengono che semplicemente prendere la vita di un animale sia un atto di crudeltà, e che anche questo non sia privo di conseguenze per la natura delle relazioni sociali – sia a livello sociale che individuale. La preferenza per il consumo di carne è stata di per sé oggetto di studio per quanto riguarda le conseguenze sociali, in cui sono stati stabiliti legami tra consumo di carne e nozioni di prestigio, potere, gerarchia e patriarcato, e di forza, superiorità, dominio e oppressione. In The Sexual Politics of Meat, tesi di Carol J. Adams, il focus centrale è sulla connessione tra il consumo di carne e l’oppressione delle donne. Per oltre quattro decenni il suo lavoro ha ispirato la ricerca internazionale che mira ad accertare empiricamente il legame tra consumo di carne, virilità e violenza e ad esplorare il funzionamento di un’industria che promuove il degrado di donne e animali.

Adams sviluppa il concetto di “referente assente”, l’idea che ci sia un’assenza dietro ogni pasto a base di carne – vale a dire, la carne che prende il posto della morte dell’animale. Questo separa il mangiatore di carne dal referente e quindi consente l’abbandono morale dell’essere vivente. Inoltre, il referente assente fa sì che venga mascherata la violenza utilizzata per uccidere: l’animale è venduto a pezzi, proteggendo così il mangiatore di carne da qualsiasi difficoltà morale che potrebbe derivare dal collegare una forma di vita al prodotto finale. Se il modo in cui la carne viene presentata desensibilizzasse il mangiatore di carne per l’uccisione di un essere vivente, qualcosa di simile avverrebbe per via della desensibilizzazione verso le donne per come viene pubblicizzata la carne. Le pubblicità del prodotto carne sono spesso femminilizzati e sessualizzati usando parti del corpo femminili, con conseguente oggettivazione e degradazione degli animali sia umani che non umani. Come dice Adams, consumiamo letteralmente gli animali e visivamente le donne. Alla fine, entrambi hanno poco o nessun significato oltre la loro funzione a livello puramente fisico. Il fatto che alcuni uomini abbiano fatto sesso con le mucche nel mattatoio di Calton – una depravazione non sconosciuta in altri macelli – forse non è del tutto lontano dal tipo di abuso di potere e di degrado a cui allude Adams.

L’idea di esseri viventi come referenti assenti e il legame tra virilità e consumo di carne è presente in molti testi, dai libri per bambini e letteratura classica, alle campagne pubblicitarie – quelli che Adams chiama “i testi di carne” – e tutti servono l’imperativo di fondo della massimizzazione del profitto e del potere patriarcale. Per Adams, sia il corpo femminile che quello animale sono mercificati come mezzo di produzione e riproduzione, o schiavitù riproduttiva; sono entrambi visti come disponibili e controllabili, nonché entrambi considerati bestiame. Adams fornisce numerosi esempi in tutto il suo lavoro per illustrare i modi in cui il linguaggio oggettivante della misoginia, le immagini o le associazioni delle parti del corpo e la desensibilizzazione verso gli animali e le donne, sono utilizzati all’interno della pubblicità della carne: “sei un uomo che preferisce il petto o le cosce? ‘- e conclude che è così radicato nella nostra cultura da non essere notato. Di conseguenza, sostiene Adams, il veganismo rappresenta di per sé una sfida al patriarcato, perché il patriarcato è un sistema di genere implicito nelle relazioni umane e non umane.

Gli studi sulle caratteristiche della personalità mostrano che i principi alla base dei “testi di carne” possono servire a rafforzare i pregiudizi esistenti. La ricerca degli psicologi, Dhont e Hodson, ha rilevato che coloro che considerano naturale e inevitabile la disuguaglianza e il dominio sociale, e che attribuiscono grande importanza al potere e all’autorità, sono più propensi a mangiare carne e ad essere sopra la media in termini di consumo di carne. Il loro studio ha trovato forti correlazioni tra alti livelli di consumo di carne e concetto di esagerata mascolinità, una forte convinzione nel determinismo evolutivo e l’autoritarismo di destra.

È quasi corretto dire che la maggior parte delle persone non si propone di essere crudele con gli animali, e che pochi apprezzerebbero l’opportunità di ucciderli. A giudicare dall’elevato tasso di proprietà degli animali domestici nella maggior parte della società, sembrerebbe che le persone amino gli animali, ma amano anche la carne – una relazione contraddittoria da parte di molti onnivori che gli psicologi Steve Loughnan, Brock Bastian e Nick Haslam, tra gli altri, lo intendono come “il paradosso della carne” – un fenomeno spiegato in parte dal concetto di dissonanza cognitiva. Negli anni ’50, Festinger descrisse la dissonanza cognitiva come lo stress mentale che le persone subiscono quando hanno idee o valori contraddittori e affermano che cercano di ridurre o risolvere il conflitto scegliendo una credenza che gli si addice. Nel caso degli onnivori, alcuni gruppi di animali sono classificati come intelligenti, emotivi e adatti come animali domestici, mentre altri sono classificati come privi di queste capacità e quindi adatti al cibo. Numerosi esperimenti di psicologia sociale hanno dimostrato che per ridurre le preoccupazioni sul loro benessere e per resistere al desiderio di entrare in empatia con loro, le persone in genere negano che gli animali abbiano una mente: capacità di ragionamento, emozioni e qualità morali.

La domanda posta per sapere se si crede che gli animali abbiano una mente e emozioni, non è nuova. In The Emotional Lives of Animals, Marc Bekoff attribuisce a Charles Darwin il ruolo di primo scienziato che prestò seria attenzione allo studio delle emozioni degli animali e alla convinzione che vi sia continuità tra gli umani e gli altri animali – sia emotivamente che cognitivamente. In linea con l’esperienza di Jane Goodall – che ha scritto su Flint, uno scimpanzé morto di dolore – la ricerca di Bekoff ha rivelato una serie di emozioni da parte degli animali: amore, dolore, disperazione, paura, gioia, gelosia, imbarazzo e vergogna. È probabile che la maggior parte delle persone sappia questo istintivamente, ma per ridurre la loro dissonanza cognitiva e quindi superare il paradosso della carne, la maggioranza interrompe mentalmente il legame tra carne e animali. L’industria della carne e dei latticini aiutano molto in questo: l’uccisione è ingannevolmente formulata come elaborata, i maiali diventano maiale, le mucche diventano carne di manzo o lombata, gli animali sfruttati sono descritti come animali da cibo e la crudele realtà del macello e del processo di pre-imballaggio è mantenuta nascosta. Siamo educati alla supremazia della carne, non alle sue alternative.

Si potrebbe immaginare una condanna diffusa della carne e dei prodotti caseari se più persone assistessero al massacro di maiali, mucche e polli – un brutale sistema di uccisione industrializzato, descritto un po’ meno duramente come il processo di pre-confezionamento per pancetta, hamburger e petto. Se il proprio cane o gatto venisse portato da un veterinario per essere soppresso, ci si spaventerebbe nel sapere che venga inviato al macello – cosa che è considerata umana per un qualsiasi “animale da cibo” – ma del tutto impensabile nell’accostamento all’uomo o all’animale domestico. Ignorare la crudeltà di routine verso gli animali ha la sua equivalenza nella tolleranza della tortura, della tratta di esseri umani e della selezione etnica – una follia morale. Il veganismo offre un’alternativa immediata e logica alla realtà del macello, ma ha anche un ruolo chiave da svolgere nel porre fine alla fame nel mondo, nel miglioramento della salute umana e nella riduzione dei cambiamenti climatici. Il veganismo, secondo Carol Adams, è una condizione del femminismo, e semplicemente diventando vegano si gioca una parte fondamentale nella campagna contro il patriarcato. Questa impollinazione incrociata libera alla consapevolezza della tendenza psicologica verso la disumanizzazione e verso la desensibilizzazione alla sofferenza di tutti gli esseri viventi. Di conseguenza, il veganismo è anche una condizione della moralità socialista, poiché il socialismo è l’antitesi dello sfruttamento, fondato sui principi fondamentali di equità e gentilezza. Dopo tutto, cos’altro potrebbe essere?

Ripercorrendo parallelamente il massacro in quei luoghi oscuri durante la mia infanzia, ci fu il massacro della guerra del Vietnam, e prestai particolare attenzione al suo sviluppo perché mio cugino di New York, un capitano della US Air Force, era lì. Una volta in congedo, venne a farci visita nella nostra casa a Glasgow Cross – un appartamento in affitto che ha definito un “appartamento di acqua fredda” – e durante una delle nostre numerose conversazioni ho sollevato la questione del massacro di My Lai, che aveva fatto da poco notizia. Rispose in modo tagliente e caloroso, dichiarando che tutti erano nemici in Vietnam, anche se avevano sei anni: “Quei bastardi hanno messo il vetro a brandelli nella tua Coca-Cola.” Il nemico, anche i bambini, divennero “musi gialli”: esseri inferiori – animali. In linea con le razionalizzazioni dei mangiatori di carne, che consideravano gli animali da cibo privi di mente e capacità morali, la disumanizzazione divenne una strategia di difesa psicologica, un mezzo di disimpegno morale.

Durante una delle nostre escursioni nei dintorni di Glasgow, abbiamo camminato lungo Argyll Street oltrepassando un’enorme quantità di lavori verso la Kelvingrove Art Gallery. “Proprio come New York”, ha detto, “sempre strappando le cose e scavando le cose”. Non ho scavato le cose, non gli ho chiesto cosa ha visto o cosa ha fatto, ma nel profondo ho temuto il peggio. Le persone erano sempre più consapevoli di quello che stava succedendo in guerra: le notizie trasmesse costantemente riguardavano il bombardamento a tappeto e la guerra chimica in Vietnam, Laos e Cambogia, e occasionalmente qualche eccesso di brutalità veniva rivelata o accennata. Mi è sembrato allora, come ora, che non c’è niente che gli esseri umani non facciano l’un l’altro finché riusciamo a trovare gli interruttori giusti per disattivare i protocolli di moralità. È la stessa razionalità che sta alla base degli orrori dei campi di sterminio e le brutalità dei campi di tortura carceraria come Abu Ghraib, la stessa base di quello che facciamo agli animali semplicemente per mettere la carne nei nostri piatti.

Uccidere è sempre stato il modo naturale delle cose, rappresentando una sorta di progresso e l’eliminazione della speranza. Uccidiamo per conto degli altri, per le cosiddette cause giuste e per amore. Nella misura in cui abbiamo una scelta – e molti direbbero che abbiamo sempre una scelta – uccidere, e tutta la responsabilità morale che ne consegue, è personale. È qui che inizia e finisce. Il cambiamento deve iniziare in se stessi: viene guidato dal basso verso l’alto e dalla strategia del rifiuto. Questo rifiuto può iniziare con ciò che scegliamo di mangiare, cambiando il mondo a piccoli morsi.

 

Fonte: https://www.counterpunch.org

Link: https://www.counterpunch.org/2018/01/15/killing-floor-the-business-of-animal-slaughter/

15.01.2018

 

Traduzione per  comedonchisciotte.org a cura di MARIARITA MORI

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