Alastair Crooke – Strategic Culture – 2 febbraio 2024
“Gli iraniani hanno una strategia e noi no“, ha dichiarato ad Al-Monitor un ex alto funzionario del Dipartimento della Difesa statunitense: “Ci stiamo impantanando in questioni tattiche – su chi colpire e come – e nessuno pensa in modo strategico“.
L’ex diplomatico indiano M.K. Bhadrakumar ha coniato il termine “swarming” (letteralmente, “sciamare”, N.d.T.) per descrivere questo processo di attori non statali che impantanano gli Stati Uniti nel logorio tattico – dal Levante al Golfo Persico.
Lo “swarming” è stato associato più di recente a un’evoluzione radicale della guerra moderna (più evidente in Ucraina) in cui, grazie all’uso di droni autonomi che comunicano continuamente tra loro tramite l’intelligenza artificiale, è possibile selezionare e dirigere l’attacco verso obiettivi identificati dallo sciame.
In Ucraina centrale e orientale la Russia ha perseguito un paziente e calibrato logoramento per cacciare gli ultranazionalisti della destra dura dal campo di battaglia, insieme ai loro facilitatori occidentali della NATO.
I tentativi di deterrenza della NATO nei confronti della Russia (che di recente sono sfociati in attacchi “terroristici” all’interno della Russia, ad esempio a Belgorod) non hanno prodotto risultati. Piuttosto, l’abbraccio stretto di Biden a Kiev lo ha lasciato esposto politicamente, mentre lo zelo statunitense ed europeo per il progetto implode. La guerra ha impantanato gli Stati Uniti, senza una via d’uscita accettabile dal punto di vista elettorale – e tutti se ne rendono conto. Mosca ha coinvolto Biden in un’elaborata rete di attentati. Dovrebbe “sganciarsi” in fretta, ma la campagna del 2024 lo vincola.
L’Iran ha quindi messo in atto una strategia molto simile in tutto il Golfo, forse prendendo spunto dal conflitto in Ucraina.
A meno di un giorno dall’attacco alla Torre 22, la base militare ambiguamente arroccata sul sottile confine tra la Giordania e la base illegale statunitense di al-Tanaf in Siria, Biden ha promesso che gli Stati Uniti forniranno una risposta rapida e determinata agli attacchi contro di loro in Iraq e in Siria (da parte di quelle che definisce milizie “collegate all’Iran“).
Contemporaneamente, però, il portavoce della Casa Bianca per la Sicurezza Nazionale John Kirby ha dichiarato che gli Stati Uniti non vogliono espandere le operazioni militari contro l’Iran. Proprio come in Ucraina, dove la Casa Bianca è stata restia a provocare Mosca in una guerra totale contro la NATO, anche nella regione Biden è (giustamente) diffidente nei confronti di una guerra vera e propria con l’Iran.
Le considerazioni politiche di Biden in questo anno elettorale saranno al primo posto. E questo, almeno in parte, dipenderà dalla calibrazione fine da parte del Pentagono di quanto siano esposte agli attacchi missilistici e dei droni le forze statunitensi in Iraq e Siria.
Le basi laggiù sono “bersagli facili”; un fatto del genere sarebbe un’ammissione imbarazzante. Ma un’evacuazione frettolosa (che richiamasse alla mente gli ultimi voli da Kabul) sarebbe peggiore; potrebbe essere elettoralmente disastrosa.
Gli Stati Uniti sembrano voler trovare un modo per danneggiare le forze iraniane e della Resistenza quel tanto che basta per far vedere che Biden è “molto arrabbiato“, senza però provocare danni reali: si tratta cioè di una forma di “psicoterapia militarizzata“, piuttosto che di politica dura.
I rischi rimangono: un eccesso di bombardamenti alzerebbe ulteriormente il livello della già ampia guerra regionale. Ma bombardamenti “timidi” farebbero sì che lo sciame continui ad avanzare e a “bombardare” gli Stati Uniti su più fronti, fino a quando non cederanno e usciranno definitivamente dal Levante.
Biden si ritrova così in un’estenuante e continua guerra secondaria con gruppi e milizie piuttosto che con gli Stati (che l’Asse cerca di proteggere). Nonostante il suo carattere miliziano, tuttavia, la guerra sta causando gravi danni alle economie degli Stati della regione. Essi hanno capito che la deterrenza americana non ha dato risultati (ad esempio, con Ansarallah nel Mar Rosso).
Alcuni di questi Paesi, tra cui l’Egitto, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, hanno avviato iniziative “private” non coordinate con gli Stati Uniti, non solo parlando con queste milizie e movimenti, ma anche direttamente con l’Iran.
La strategia di “sciamare” sugli gli Stati Uniti su più fronti è stata chiaramente dichiarata al recente incontro ” Astana Format” tra Russia, Iran e Turchia del 24-25 gennaio. Quest’ultimo triumvirato è impegnato a preparare la partita finale in Siria (e, in ultima analisi, nell’intera regione).
Nella dichiarazione congiunta rilasciata dopo l’incontro in Kazakistan, M.K. Bhadrakumar ha osservato:
“È un documento notevole, quasi interamente incentrato sulla fine dell’occupazione statunitense della Siria. Il documento esorta indirettamente Washington a rinunciare al sostegno ai gruppi terroristici e dei loro affiliati “che operano sotto nomi diversi in varie parti della Siria” come parte dei tentativi di creare nuove realtà sul terreno, comprese iniziative illegittime di autogoverno con il pretesto di “combattere il terrorismo”. Chiede la fine del sequestro e del trasferimento illegale da parte degli Stati Uniti delle risorse petrolifere ‘che dovrebbero appartenere alla Siria’”.
La dichiarazione definisce quindi gli obiettivi in modo netto. In sintesi, la pazienza si è esaurita per il fatto che gli Stati Uniti hanno armato i curdi e tentato di rivitalizzare l’ISIS al fine di interrompere i piani tripartiti per un accordo sulla Siria. Il trio vuole che gli Stati Uniti se ne vadano.
È con questi obiettivi – insistere affinché Washington rinunci a sostenere i gruppi terroristici e i loro affiliati nell’ambito dei tentativi di creare nuove realtà sul terreno, comprese iniziative di autogoverno illegittime con il pretesto di “combattere il terrorismo” – che la strategia russa e iraniana di Astana per la Siria trova un terreno comune con quella della Resistenza.
Quest’ultima può riflettere una strategia iraniana nel suo complesso, ma la dichiarazione di Astana mostra che i principi di fondo sono anche quelli della Russia.
Nella sua prima dichiarazione sostanziale dopo il 7 ottobre, Seyed Nasrallah (parlando a nome dell’Asse della Resistenza nel suo complesso) ha indicato un perno strategico della Resistenza: mentre il conflitto innescato dagli eventi di Gaza era collegato in modo centrale a Israele, Seyed Nasrallah ha anche sottolineato che lo sfondo del comportamento dirompente di Israele era costituito dalle “guerre per sempre” dell’America che divide e governa a sostegno di Israele.
In breve, ha legato la causalità delle numerose guerre regionali dell’America agli interessi di Israele.
Arriviamo così al terzo filone dello “sciame” di Biden.
Solo che non sono gli attori regionali a cercare di incastrare Biden, bensì il suo stesso protetto: il Primo Ministro Netanyahu.
Netanyahu e Israele sono l’obiettivo principale del più grande “sciame” regionale, ma Biden si è lasciato coinvolgere da esso. Sembra che non riesca a dire “no”. Ecco quindi che Biden si ritrova incastrato dalla Russia in Ucraina, incastrato da Netanyahu in Siria e in Iraq e incastrato da un Israele che teme che cali il sipario sul suo progetto sionista.
È probabile che Biden non riesca a trovare un punto di equilibrio elettorale tra un coinvolgimento dell’America in una guerra totale in Medio Oriente, impopolare e disastrosa dal punto di vista elettorale, e il “via libera” all’enorme scommessa di Israele di vincere la guerra contro Hizbullah.
È improbabile che agli americani sfugga il parallelismo tra il fallimento della manovra ucraina per indebolire la Russia e la rischiosa manovra per la guerra di Israele contro Hizbullah.
Anche Netanyahu si trova tra l’incudine e il martello. Sa che una “vittoria” che si riduca al solo rilascio degli ostaggi e a misure di fiducia per la creazione di uno Stato palestinese non ripristinerebbe la deterrenza israeliana, né all’interno né all’esterno dello Stato. Al contrario, la eroderebbe. Sarebbe “una sconfitta” – e senza una chiara vittoria nel sud (su Hamas), una vittoria nel nord sarebbe richiesta da molti israeliani, compresi i membri chiave del suo stesso gabinetto.
Ricordiamo l’umore all’interno di Israele: L’ultimo sondaggio Peace Index mostra che il 94% degli ebrei israeliani pensa che Israele abbia usato la giusta quantità di potenza di fuoco a Gaza – o non abbastanza (43%). E tre quarti degli israeliani pensano che il numero di palestinesi feriti da ottobre sia giustificato.
Se Netanyahu è incastrato, lo è anche Biden.
Martedì, Netanyahu ha dichiarato:
“Non termineremo questa guerra con niente di meno che il raggiungimento di tutti i suoi obiettivi… Non ritireremo l’IDF dalla Striscia di Gaza e non rilasceremo migliaia di terroristi. Non succederà nulla di tutto ciò. Cosa succederà? La vittoria totale”.
“Netanyahu è in grado di virare fortemente a sinistra… entrando in un processo storico che porrà fine alla guerra a Gaza e porterà a uno Stato palestinese – insieme a uno storico accordo di pace con l’Arabia Saudita? Probabilmente no. Netanyahu ha calciato molti altri secchi simili prima che fossero riempiti“, ha commentato il veterano Ben Caspit su Ma’ariv (in ebraico).
Biden sta facendo una grossa scommessa. Meglio aspettare le risposte di Hamas e della Resistenza di Gaza alla proposta degli ostaggi. I presagi, tuttavia, non sembrano positivi per Biden.
Alti funzionari di Hamas e della Jihad islamica hanno risposto ieri all’ultima proposta:
“La proposta di Parigi non è diversa dalle precedenti proposte presentate dall’Egitto… [La proposta] non porta a un cessate il fuoco. Vogliamo garanzie per porre fine alla guerra genocida contro il nostro popolo. La resistenza non è debole. Non accetterà alcuna condizione” (Ali Abu Shahin, membro dell’ufficio politico del Jihad islamico).
“La nostra posizione è un cessate il fuoco, l’apertura del valico di Rafah, garanzie internazionali e arabe per il ripristino della Striscia di Gaza, il ritiro delle forze di occupazione da Gaza, la ricerca di una soluzione abitativa per gli sfollati e il rilascio dei prigionieri secondo il principio del tutti per tutti… Sono fiducioso che ci stiamo dirigendo verso la vittoria. La pazienza dell’amministrazione americana si sta esaurendo perché Netanyahu non sta portando risultati” (Alli Baraka, alto funzionario di Hamas).
Alastair Crooke CMG, ex diplomatico britannico, è fondatore e direttore del Conflicts Forum di Beirut, un’organizzazione che sostiene l’impegno tra l’Islam politico e l’Occidente. In precedenza è stato una figura di spicco dell’intelligence britannica (MI6) e della diplomazia dell’Unione Europea.
Link: https://strategic-culture.su/news/2024/02/02/the-three-strands-to-the-swarming-of-biden/
Scelto e tradotto (IMC) da CptHook per ComeDonChisciotte