Di Franco Ferrè per ComeDonChisciotte.org
“Nema problema” (“nessun problema”) recita una delle frasi-simbolo più comuni dalle parti di Belgrado, icona inequivocabile di un atteggiamento di malcelata sufficienza, di superiorità ostentata rispetto a qualsivoglia problema della vita. La stessa indifferenza e superiorità che ostentavano gli abitanti del villaggio al confine tra Bosnia e Serbia raccontato da Ivo Andric ne “Il ponte sulla Drina”, che passano dai Turchi agli Austro-Ungarici senza mutare le loro antiche usanze. Un popolo, quello che abita la zona tra Lubiana e la Grecia, che ha dato allo sport mondiale un numero di campioni decisamente superiore a quanto il ridotto peso demografico e le condizioni di relativa prosperità economica di buona parte dei Paesi negli ultimi decenni sembravano poter permettere, e ciò proprio in virtù di una sicurezza (quasi una sicumera) di fondo di molti suoi campioni, acuita da una caratteristica dei balcanici in generale, in serbo detta “nadmudrivanje suparnika”, termine non traducibile che più o meno significa “essere più furbo dell’avversario”. “Nulla irrita di più qualcuno, da quelle parti, di perdere a un qualche tipo di gioco non perché l’avversario è più forte (scoccia, ma si può sopportare) ma perché l’altro si dimostra più furbo” così racconta il grande giornalista Sergio Tavcar (per una vita telecronista sportivo di TeleCapodistria, ma soprattutto uomo di grande intelligenza e cultura, anagraficamente italiano, ma profondo conoscitore delle profondità slave in tutte le sue sfaccettature) in uno dei suoi libri[1]. E’ quello che gli argentini chiamano “garra”, ma con l’ironia in più. Significativo è il fatto che questa “nadmudrivanje suparnika” sia sì una caratteristica balcanica, ma si presenti in modo più marcato in un popolo e in una cultura – quella Serba – che deriva buona parte della propria identità da una sconfitta, ovvero la sconfitta del principe Lazzaro di Serbia contro gli invasori Ottomani nella battaglia della Piana dei Merli, detta in lingua locale Kosovo Polje.
E’ fuori di dubbio che anche oggi il vero Hotspot, cioè il punto più “caldo” della zona sia quello che passa tra la Serbia ed il Kosovo. Kosovo Polje sta, appunto, in Kosovo. Nella battaglia che lì avvenne nel 1389 la Serbia, allora principato indipendente, perse la propria sovranità e non la riconquistò che cinque secoli dopo. Il Kosovo era il cuore del principato: per questo gli ottomani attaccarono proprio lì, quando vollero affondare il colpo per conquistarlo. Il Kosovo è la culla della lingua Serba e, nell’immaginario di molti serbi, è ancora il cuore dell’identità nazionale, un po’ come per noi italiani potrebbe esserlo la Toscana, o la stessa Roma. Alla luce di ciò è quantomeno comprensibile che, di fronte al tentativo di secessione della regione in corso dal 1999, ci possa essere stato un qualche tipo di reazione. Ed è anche comprensibile che, da allora, quando qualcuno si mette in testa di dar fastidio alla Serbia, magari – che so, facendo un esempio a caso – per cercare di convincerla a stare un po’ meno dalla parte del mondo russofono e di più dalla parte degli americani, provi a crearle problemi attraverso un qualche tipo di azione dalle parti di Pristina. Quale tipo di azione? Tralasciando, per motivi di brevità, l’analisi dei tragici eventi del 1999, originati proprio dal primo tentativo di distacco da parte degli abitanti di etnìa albanese e culminati con il bombardamento NATO su Belgrado, in tempi più recenti numerosi sono stati i fatti che hanno costituito una vera e propria “spina nel fianco” della Serbia, utilizzando ciò che per tutto il periodo delle guerre tra il 1991 ed il 1999 è stata la principale “arma di destabilizzazione di massa” dei Balcani, ovvero la posizione delle varie minoranze etniche all’interno delle diverse zone del paese: croati e serbi in Bosnia, serbi in Croazia e, appunto, serbi in Kosovo. Come dice Antonio Frate in un articolo di luglio sulla situazione in Kosovo,
“Quando nei Balcani vi è un momento di tensione tra Stati confinanti ricorrono spesso due elementi che lo denotano: il ruolo di Stati terzi e quello della minoranza nazionale la cui etnia è la stessa dello Stato confinante con cui si sta sviluppando la tensione”
Ecco, appunto questo è quanto è successo – a varie riprese e con vari livelli di intensità – anche in Kosovo dalla fine degli anni ‘90. Così, oggi lo status e le prerogative dei serbi del Kosovo sono messe sotto attacco ad intermittenza dalle autorità di Pristina nei modi più fastidiosi e – va detto – anche fantasiosi: ad esempio, non riconoscendo le targhe delle auto immatricolate in Serbia (misura rientrata dal primo gennaio di quest’anno) o, notizia più recente, vietando l’uso dei Dinari Serbi all’interno del paese, misura che ha suscitato un’ondata di proteste tra la popolazione di etnìa serba. Tutto ciò facendo da contraltare ad un accordo teoricamente concluso a marzo del 2023 (il così detto “Accordo di Ohrid”), del quale entrambe le parti non sembrano intenzionate a darne attuazione, così come lettera morta sembrano essere rimaste le varie “road maps” proposte nel corso del 2023, sia prima che dopo questi accordi. In tutto ciò, il Kosovo odierno ha da poco festeggiato in pompa magna – in barba alla Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU[2] – il diciottesimo anniversario dalla dichiarazione di indipendenza con tanto di auguri dalla Casa Bianca e registrando significativi passi avanti nel processo di progressiva legittimazione internazionale, anche se sono ancora molti i paesi che non hanno riconosciuto la nuova autorità nazionale di Pristina, tra cui – oltre che i prevedibili Serbia, Russia e Cina – anche ben cinque membri dell’Unione Europea (Spagna, Grecia, Romania, Cipro e Slovacchia). In generale, è impressione piuttosto chiara che la situazione in Kosovo sia usata scientemente da più parti per finalità varie, ma spesso riconducibili a modi più o meno indiretti di “dare fastidio a Putin”. Con il Kosovo Putin c’entra poco o nulla, ma la Russia c’entra molto con la Serbia, per motivi storici, culturali, religiosi e se qualcuno che ha legami con la Russia non li rinnega apertamente ed inequivocabilmente, secondo la visione dell’Anglosfera e dei suoi sudditi, è bene che passi dei guai in ogni modo possibile. Riguardo ai fatti del ’99, ad esempio, ci sono testimonianze dirette di protagonisti dell’epoca (ad esempio Strobe Talbott, a quel tempo numero due della politica estera USA) che ammettono apertamente come il bombardamento su Belgrado fosse stato più che altro un modo di “dare una lezione” a quei presuntuosi ancora troppo poco americanizzati, e non un intervento umanitario a favore dei poveri albanesi del Kosovo, come fu propagandato. Una “lezione” che ha permesso – sia detto en passant – agli statunitensi di aprire una bella base militare subito dopo – E ciò è vero a maggior ragione oggi che la polarizzazione pro e contro la Russia ha raggiunto quote parossistiche.
La Serbia ed il suo Presidente Alexsandar Vucic, infatti, resistono in vari modi sul fronte della non-opposizione verso Mosca, non applicando sanzioni, proseguendo a fornirsi di gas russo e non rinnegando i profondi storici legami verso la Russia. Orientamento, peraltro, largamente condiviso dai serbi, come testimoniano non solo il contestato (ma nettissimo) risultato delle elezioni, ma anche sondaggi ed indagini demoscopiche condotte nei mesi precedenti, che indicavano in due terzi la percentuale dei cittadini che consideravano la Russia “costretta” ad andare in guerra a causa del (innegabile) espansionismo NATO verso est, mentre sono oltre il 75% i serbi che non credono alla serietà dell’UE di accogliere al proprio interno il loro paese.[3]
Proprio questa potrebbe essere stata una delle ragioni che hanno spinto il Presidente Vucic a dimettersi nell’ultima parte del 2023 indicendo nuove elezioni politiche, in un contesto dove nulla sembrava renderle necessarie: ribadire con un largo successo elettorale che la sua linea politica di non-rottura con Mosca gode del sostegno della maggioranza della popolazione. In questa chiave è anche interpretabile il tentativo di spallata delle opposizioni filo-occidentali nell’immediatezza del post-voto, quando hanno inscenato violente proteste a seguito di presunti brogli nel processo elettorale e chiesto un annullamento dei risultati delle urne, che le avevano viste soccombenti con larghissimo margine al partito di Vucic. Un uno-due che ha chiaramente mostrato la sua natura di scontro aperto per la definizione dei rapporti di forza sul campo, scontro dal quale il presidente uscente è uscito chiaramente vincitore e pronto a proseguire nella sua linea poco gradita al complesso NATO-UE.
Il quale complesso, comunque, non smette di punzecchiare la Serbia e crearle problemi in ogni modo possibile: dall’aumento delle tariffe per il passaggio del gas attraverso il Turkish Stream, attuato nei mesi scorsi dalla Bulgaria (e che colpisce anche l’Ungheria di Orbàn, il che non guasta), alle dichiarazioni di altri “vicini di casa” come il Montenegro, già membro NATO, ma fino allo scorso novembre governato da forze non del tutto allineate con Bruxelles (anche per gli ingenti investimenti cinesi nel paese), ma oggi, dopo il cambio di governo avvenuto con le ultime elezioni, su posizioni ostentatamente filo-UE, con progetti di adesione in fase avanzata e date già stabilite per l’ingresso (2028).
Il nuovo presidente Spajic, infatti, dichiara apertamente
“Vogliamo che il finanziamento delle infrastrutture in futuro provenga quasi esclusivamente dai nostri alleati della regione, dell’Ue e della Nato. Stiamo finalmente regolando l’economia e la geopolitica nel modo giusto”
(per l’intervista completa, si veda QUI). Quindi, nella visione atlantica-UE, regolare la geopolitica nel modo giusto significa canalizzare in direzione NATO-UE i soldi, anzichè altrove. Alla fine, anche qui la questione di fondo sembra sempre il solito “follow the money”. E ancora, citando un ultimo esempio, la vicenda di luglio scorso della vendita dei droni turchi al costituendo “esercito” di Pristina, la quale, secondo gli accordi, non dovrebbe averne uno, ma intanto acquista armi dai membri NATO, suscitando prevedibili reazioni a Belgrado. Tutto fa, insomma, e in questo quadro si inseriscono anche le contro-esternazioni della premier serba Ana Brnabic di aperto gradimento dell’intervista di Tucker Carlson a Vladimir Putin, forse presagio di una analoga intervista con Vucic che ne sancirebbe, se realizzata, il ruolo di “pierino filo putiniano” nel cuore d’Europa.
Concludendo, il Kosovo e, più in generale, l’area Balcanica è sicuramente e storicamente uno dei principali (forse IL principale) Hotspot del centro Europa, oggi silente, ma solo all’apparenza. Il campo di forze evolve, si modifica, cambia di continuo e la direzione generale che le entità in esso localizzate (o con interessi nel quadrante) sembrano voler imprimere non è avviata verso un orizzonte di pace, quanto piuttosto il contrario. Come dice la chiosa del già citato l’articolo di “Affari Internazionali” del luglio scorso,
“ogni volta che i tempi sembrano maturi per un salto di qualità in questa direzione [della pace – NdR] c’è sempre puntuale l’imprevisto che, come nel Gioco dell’Oca, fa fare passi indietro o come in quello del Monopoli ti fa saltare il turno.”[4]
Ma forse – come anche gli eventi in Ucraina e Palestina dimostrano ampiamente e al di là di ogni ragionevole dubbio – la parola “imprevisti” non è il termine più corretto, quando si parla di Hotspot e dei relativi conflitti.
Di Franco Ferrè per ComeDonChisciotte.org
18.03.2024
NOTE
[1] Da Sergio Tavcar – “La Yugoslavia, il basket e un telecronista” – pagina 4
[2] La Risoluzione fissava l’obiettivo di dotare la regione di una “ampia autonomia”, ma riconoscendo l’integrità territoriale della ex Repubblica Federale di Jugoslavia, divenuta poi Repubblica di Serbia, Kosovo compreso; l’esplicito riferimento all’integrità della RFJ è contenuto sia nel preambolo che nell’articolo 10 della Risoluzione stessa. Si veda anche https://epistemes.org/2008/02/21/indipendenza-kosovo-e-diritto-internazionale/
[3] https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/La-Serbia-e-le-sanzioni-contro-la-Russia-228433
[4] https://www.affarinternazionali.it/il-kosovo-tensioni-piano-de-escalation/