Ammuina britannica e altre questioni continentali

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DI FEDERICO DEZZANI

federicodezzani.altervista.org

Il Parlamento inglese ha inflitto una sonora sconfitta a Theresa May, affossando l’accordo Regno Unito-Unione Europea faticosamente redatto sin dalla primavera del 2017. La bocciatura dell’accordo era una condizione necessaria, ma non sufficiente, per arrivare alla No Deal Brexit, che Londra persegue segretamente sin dall’esito del referendum: tocca ora ai partiti paralizzare il Parlamento inglese sino al 29 marzo. Lo choc della No Deal Brexit infliggerà un durissimo colpo alla già debilitata Unione Europea, sempre più vicina alla recessione. Altri interessanti avvenimenti suggeriscono una politica angloamericana dall’inconfondibile sapore anti-continentale.

72 giorni alla No Deal Brexit

Buon anno nuovo, innanzitutto, ai lettori del blog: che anno sarà il 2019? Beh, l’unica certezza riguarda le proprie nostre azioni future. È nostra intenzione seguire gli avvenimenti dei prossimi dodici mesi con pochi articoli, che si dipaneranno partendo dalla nostra analisi di lungo periodo redatta lo scorso dicembre.

Partiamo con la clamorosa sconfitta di Theresa May al Parlamento inglese che, con 432 voti contrari e 202 favorevoli, ha sonoramente bocciato l’accordo per l’uscita ordinata del Regno Unito dall’Inghilterra: si trattava del frutto di lunghi e faticosi negoziati, avviati nella primavera del 2017, quando la stessa Theresa May aveva attivato l’articolo 50 del Trattato di Lisbona. Correva allora il 29 marzo 2017 ed erano previsti due anni per raggiungere una qualche forma di intesa: ne deriva che, sic rebus stantibus, l’Inghilterra uscirà comunque dall’Unione Europea il 29 marzo 2019. Con o senza accordo.

Come avevamo evidenziato nella nostra analisi di lungo periodo, l’obiettivo segretamente perseguito dall’Inghilterra sin dal referendum è proprio un’uscita senza accordo, un caotico divorzio del Continente che massimizzi i danni economici-finanziari e destabilizzi ulteriormente la già fragile e malconcia Unione Europea. Sul perché di tale strategia abbiamo già scritto e detto, ma è probabilmente opportuno rinfrescare la memoria del lettore: le potenze marittime angloamericane, con la svolta “populista-sovranista” del 2017, hanno dichiarato guerra alla loro ex-creatura, l’Unione Europea, nel timore che l’intera Europa centro-occidentale si integrasse con la Russia e la Cina, spostando definitivamente il fulcro del mondo dagli Oceani all’Eurasia. Per l’Unione Europea, perciò, è in serbo un futuro di caos, disgregazione, rigurgito di nazionalismi e (senza alcuna esagerazione), conflitti militari. Quando il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, asserisce che è interesse della Russia un’Unione Europea forte ed indipendente, non mente1: a Mosca sanno benissimo cosa significa la risurrezione dei nazionalismi appoggiati dagli angloamericani, avendolo prima sperimentato in Jugoslavia e poi in Ucraina.

Torniamo al voto sulla Brexit. Sin dalla Rivoluzione Inglese, la politica estera di Londra è sempre stata una e soltanto una: contro il continente. Il regime parlamentare permette di perseguire tale strategia in modo subdolo ed ingannevole: tory e whigh, imperialisti e liberali, conservatori e laburisti, pacifisti e guerrafondai, francofili e francofobi, germanofili e germanofobi, russofili e russofobi. Tutti costoro si alternano, litigano, strepitano, promettono, fanno e disfano. Ma la politica estera è sempre e soltanto una: contro il continente.

Nel caso in esame, tutto l’arco parlamentare mira segretamente alla No Deal Brexit, ma la vuole ottenere in modo quasi “accidentale”, cosicché la drammatiche conseguenze economiche e finanziarie sembrino il frutto non di un disegno lucido e preciso, ma del “caso”. Così, prima il voto sull’accordo è stato spostato dall’11 dicembre 2018 al 14 gennaio 2019, per ridurre di un mese il lasso di tempo per approntare una risposta. All’indomani della bocciatura dell’accordo UE-Brexit, la malconcia May, poco più che un cadavere politico, è stata mantenuta a Downing Street, sopravvivendo ad un voto di sfiducia (325 voti contro 306), ostaggio dell’ala più oltranzista del partito conservatore, quella che apertamente invoca il No Deal. Per i laburisti di Corbyn (che già si sente primo ministro), non ci può essere alcun negoziato finché i conservatori non rinunceranno all’opzione “No Deal”: ne scaturisce un insieme di veti incrociati che porterà il Regno Unito ad una rovinosa uscita dalla UE il 29 marzo, dopo un “facite ammuina” al Parlamento inglese lungo una settantina di giorni.

Il No Deal Brexit si abbatterà così sull’Unione Europea alle prese con:

  • una recessione economica alle porte, con conseguenze esplosive per la tenuta del sistema bancario dell’europeriferia e della stessa eurozona;
  • una Francia in balia della rivoluzione colorata dei gilet jaunes;
  • governi populisti in Italia e Polonia, pilotati a piacimento dagli angloamericani.

L’effetto di questa molteplicità di crisi sulla sovrastruttura europea è facilmente immaginabile.

Il rapporto Italia e Polonia merita un piccolo approfondimento. Nel mese di dicembre, il vicepremier Matteo Salvini stupì molti proponendo un asse Roma-Berlino: il senso dell’operazione era tentare di rompere l’asse franco-tedesco, sfruttando la palese debolezza di Macron, ed infliggere il colpo di grazia alla UE. Non ci può essere Unione Europea, infatti, senza collaborazione tra Parigi e Berlino. I tedeschi hanno ovviamente rifiutato, obbligando così il vicepremier a ripiegare sulla Polonia nazionalista di Diritto e Giustizia. Si tratta della stessa Polonia che, insieme ai Paesi Baltici ed all’Ucraina, guida il fronte del “no al Nord Stream 2”, sotto l’ala protettiva degli angloamericani. La vicenda del gasdotto che dovrebbe unire Russia e Germania ha risvegliato le più profonde fobie delle potenze marittime, che vedono in questa infrastruttura la concretizzazione di un’alleanza (franco)tedesca-russa, giù aborrita da Sir Halford Mackinder. L’ambasciatore americano a Berlino, Richard Grenell, è addirittura arrivato a minacciare l’imposizione di sanzioni economiche contro le società tedesche coinvolte nell’opera2, ultimo passo di un’escalation tedesco-americana iniziata col Dieselgate.

L’UE quindi deve essere smontata, la potenza economica tedesca indebolita il più possibile e, tra Polonia e Romania, deve risorgere un “vallo” che separi le capitali dell’Europa occidentale da Mosca (e, in prospettiva, da Pechino): è notizia di questi giorni che gli USA si ritireranno dal Trattato sui missili nucleari a medio raggio entro i primi di febbraio3. Difficilmente i missili tattici saranno ricollocati in Germania, che si sta molto agitando in merito, ma è facile che trovino ospitalità presso qualche Stato “sovranista e nazionalista” dell’Est Europeo.

Il Nuovo Ordine Mondiale annunciato nel 1991, basato su UE/NATO (l’ipotesi di un’uscita degli USA dall’Alleanza Nord Atlantica non deve affatto essere considerata un’idea estemporanea di Donald Trump4 che, lungi dall’avvantaggiare i russi, sposterebbe il focus americano sui singoli nazionalismi), giunge quindi rapidamente al termine. Ma c’è poco da rallegrarsi, perché lo scontro tra potenze marittime e potenze continentali sta per entrare nel vivo.

 

1 http://tass.com/politics/1040290

https://www.reuters.com/article/us-germany-usa-russia-pipeline-idUSKCN1P70FR

3 https://www.aljazeera.com/news/2019/01/rejects-russia-offer-save-key-missile-treaty-190117061720076.html

4 https://www.lastampa.it/2019/01/15/esteri/nato-il-presidente-trump-ha-pensato-di-ritirarsi-dallalleanza-atlantica-IKJ81oGyrECFLLYN9DSb2K/pagina.html

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