United Colors of Benetton

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DI ROSANNA SPADINI

comedonchisciotte.org

C’è effettivamente qualcosa di osceno nell’arroganza con cui Autostrade per l’Italia si è preoccupata di contratti e penali prima di chiedere scusa per il disastro annunciato. Ma vista la tragedia di cui è responsabile, forse avrebbe dovuto preoccuparsi della propria sopravvivenza, cercando di trovare un accordo con il nuovo governo, che ha deciso di toglierle la concessione statale con cui era stata miracolata. Oppure potrebbe farsi una ragione della necessaria revoca, pretesa anche dal popolo italiano, che ha pagato col sangue quel contratto schifoso.

Molto spesso le storie vergognose della famiglia Benetton sono sparite dai radar dei media, perché troppo potenti e ricchi i concessionari dello Stato e troppo importanti i loro investimenti pubblicitari. Nemmeno i patetici tentativi di prendersela con i No gronda (contrari a un’opera progettata per il 2030, che quindi non avrebbe portato alla chiusura del ponte), hanno potuto esorcizzare lo sdegno nazionale che si è levato dagli increduli spettatori della vergognosa tragedia. Basti dire che era dal 2015 che dal ponte cascavano pezzi di ferro e calcinacci, che le segnalazioni ad Autostrade erano rimaste senza seguito, che le interrogazioni parlamentari all’ex ministro Delrio erano rimaste senza risposta, e che solo pochi mesi fa, con procedura d’urgenza, era stata indetta una gara per le riparazioni di piloni e tiranti. Questo basta per far comprendere chi sono i responsabili per le morti di Genova.

A fine 2017 il 30,25% di #Atlantia, la società che controlla Autostrade per l’Italia con una partecipazione dell’88,06%, rappresentava più della metà del patrimonio di #Edizione, la cassaforte che custodisce l’impero della famiglia Benetton. Che, oltre alle infrastrutture (aeroportuali oltre che stradali, sia in Italia che all’estero), ha interessi di ogni genere: storico abbigliamento dei maglioncini, concessione della ristorazione negli Autogrill, agricoltura, mattone e investimenti finanziari.

Certo è che Atlantia macina utili semplicemente abnormi e al di fuori di qualsiasi parametro. Però l’entità degli investimenti per la manutenzione di strade e ponti decresce a favore di utili, capitale e redditività. Un Servizio Pubblico Essenziale Costituzionalmente garantito (articolo 43 della Costituzione) è sottoposto al più bieco interesse economico.

La Privatizzazione delle Autostrade (governo D’Alema, al Tesoro Draghi), è stata concepita come un enorme generatore di tangenti e mazzette, visto che i politici hanno regalato un’enorme  rendita di tipo feudale ai Benetton, principi di quel capitalismo finanziario, che si ciba di diritti lavorativi, giustizia sindacale, rispetto per i diritti umani, con il consenso di tutti i compagni di sinistra.  Manca lo ius primae nonctis, ma c’è quello della pena di morte per i prolet, che non hanno alcun potere né privilegio, se non quello di morire casualmente in un giorno d’agosto, mentre stanno andando al mare.

Per anni ci siamo sentiti dire sulle tv di B. e della Rai che “privato” è bello mentre “pubblico” è brutto, dove sono tutti fannulloni, furbetti del cartellino etc etc… Ed ora ci ritroviamo le autostrade più care d’Europa, con ponti che crollano e provocano decine di vittime.  Inoltre in Europa non c’è nessun segreto di Stato sulle concessioni, la Francia ad esempio pubblica online i contratti.

Ma la tragica vicenda del ponte Morandi non è che l’ultima in serie di tempo, perché la storia del gruppo è costellata di numerosi episodi di questo tipo. Infatti Benetton Group ha sistematicamente sfruttato la vita degli esseri umani, trattandoli come sudditi o peggio schiavi veri e propri. Per esempio derivando parte dei suoi prodotti da terzisti localizzati in Cina, paese che vieta ogni libertà sindacale. Inoltre ha sfruttato collegamenti produttivi con Argentina, India, Lituania, Turchia, Ucraina, Ungheria, paesi che ostacolano fortemente le libertà sindacali.

Proprio il 16 aprile 2003 si era concluso il processo promosso da Benetton contro Riccardo Orizio, giornalista del “Corriere della Sera” che nell’ottobre 1998 aveva pubblicato un servizio sulla presenza di lavoro minorile alla Bermuda e alla Gorkem Spor Giyim, due fabbriche turche che producevano abbigliamento a marchio Benetton. Di professione terziste, non lavoravano direttamente per Benetton Group, ma per il suo referente turco Bogazici Hazir Giyim.

Il servizio però era ben fornito di documentazione (nomi, cognomi e foto), quindi si meritava una querela da parte del gruppo, che doveva difendere il proprio onore di rispettabilità nella difesa dei diritti umani. Al tempo l’articolo di Orizio aveva imbarazzato fortemente i Benetton, anche perché aveva riportato una dichiarazione sconcertante dell’imprenditore della Bermuda: “I rapporti tra noi e l’azienda italiana sono amichevoli e di intensa collaborazione. Loro sono i miei principali clienti.

L’articolo affermava inoltre che i capi di vestiario prodotti alla Gorkem recavano l’etichetta “Made in Italy”. Per difendere la propria immagine, Benetton querelò Riccardo Orizio per diffamazione. In base alla documentazione presentata dal Corsera e a dichiarazioni rese dai testimoni, il Tribunale poi sentenziò che: “L’utilizzo, nelle aziende subfornitrici del licenziatario turco di Benetton, di lavoratori-bambíni” è “circostanza risultata sostanzialmente provata“. Tuttavia ha condannato Orizio a 800 euro di multa, perché avrebbe sbagliato nell’”affermare in modo perentorio che in una di queste aziende venissero prodotti capi con il marchio made in Italy per conto dell’azienda italiana“. Un colpo al cerchio e uno alla botte quindi.

Altro tragico crollo fu quello della periferia di Dhaka, in Bangladesh, nell’aprile 2013, dove un palazzo di otto piani si sbriciolò e morirono almeno 381 operai, che lavoravano in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza e producevano capi per conto di multinazionali tra cui anche l’azienda di Treviso.

Dalle macerie del Rana Plaza una camicia di colore scuro, sporca di polvere, fu fotografata tra le macerie, con l’inconfondibile etichetta verde acceso: United Colors of Benetton. Le fabbriche tessili che avevano sede nel palazzo, e i cui dipendenti lavoravano in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza, producevano capi di abbigliamento per conto di multinazionali occidentali.

Inoltre l’agenzia France Press aveva comunicato che aveva ricevuto dalla Federazione operai tessili del Bangladesh documenti contenenti un ordine da circa 30mila pezzi fatto nel settembre 2012 da Benetton alla New Wave Bottoms Ltd, una delle manifatture ingoiate dal crollo. La dicitura “Benetton” appariva anche sul sito internet dell’azienda, all’indirizzo   www.newwavebd.com, ma fin dalle ore successive al crollo la pagina non fu più accessibile e in rete ne rimase solo una copia cache. “Main buyers” (clienti principali), si legge in alto a sinistra, più in basso, sotto la dicitura “Camicie uomo-donna”, l’elenco degli acquirenti: tra questi, numero 16 della lista, figura “Benetton Asia Pacific Ltd, Honk Kong”.

 

In un primo momento l’azienda veneta aveva negato legami con i laboratori venuti giù nel crollo, ma poi dopo la pubblicazione delle foto, su Twitter era arrivata una prima ammissione: “Per quanto riguarda il tragico incidente a Dhaka, in Bangladesh, desideriamo confermare che nessuna delle società coinvolte è un fornitore di nessuno dei nostri marchi. Oltre a questo, un ordine di una volta è stato completato e spedito da uno dei produttori coinvolti diverse settimane prima dell’incidente. Da allora, questo subappaltatore è stato rimosso dalla nostra lista dei fornitori.”

E ancora, sempre nel 2013, ai media italiani sfuggì completamente la notizia delle violenze subite  in Patagonia dalla Comunità Mapuche. Ma il perché i media dovrebbero occuparsi dei Mapuche, una popolazione indigena che attualmente vive divisa fra Cile e Argentina, di cui non interessa una mazza a nessuno, è questione raffinata. Quelli non facevano male a nessuno, se ne stavano tranquilli nelle loro tane finché non arrivarono prima gli occidentali (specie spagnoli) a massacrarli, a costruire dighe, autostrade e realizzare piantagioni invasive.  Poi nel 1991 il capitalismo arrivò sotto gli united colors della famiglia Benetton, che acquistò per 50 milioni di dollari 900.000 ettari di terre dalla compagnia Tierras De Sur Argentino, principale proprietaria della Patagonia argentina. Quindi acquisite le terre, la Benetton procedette allo sfollamento dei Mapuche, per allevare capi di bestiame, tra pecore e montoni, utili alla produzione della lana che serviva per la lavorazione dei maglioni.

Ma i Mapuche sono una popolazione piuttosto cocciuta, così riuscirono a ri-occupare una parte delle terre loro sottratte, finché intervenne la gendarmeria argentina, che usò metodi brutali per sedare la resistenza di quel popolo fiero. Amnesty International Argentina ed altre ong denunciarono con forza l’ennesima violazione dei diritti umani.

Oggi l’impero della famiglia possiede in Argentina 280.000 pecore, che producono 1.300.000 chili di lana all’anno. Lo sfruttamento delle terre della Compagnia si è aggiunto a quello minerario di giacimenti situati nella provincia di San Juan, attraverso di Min Sud (Minera Sud Argentina S.A.), che ha sede centrale in Canada.

Per molti anni i Benetton hanno portato via le risorse nazionali senza pagare tasse e senza registrare i lussuosi edifici che realizzavano sulle loro terre.

Ma i Benetton non erano quelli della United Colors, dei bimbi di ogni razza che sorridevano felici dalle vetrine del franchising, della globalizzazione multicolor del vestiario, della pubblicistica spregiudicata di Oliviero Toscani che voleva denunciare la discriminazione contro i diversi e i diseredati del mondo? «Il conformismo è il peggior nemico della creatività. Chiunque sia incapace di prendersi dei rischi non può essere creativo» diceva il compagno, che ultimamente ha manifestato contro il governo fasciorazzista, indossando una maglietta rossa.

Perché allora qualcuno dovrebbe morire per colpa di questa “multinazionale della felicità” globalizzata? Perché i Benetton, con il loro seguito di zerbinaggio politico, dovrebbero trattare gli italiani alla pari dei poveri Mapuche? Ma soprattutto perché nel nuovo mondo dei prolet, la condizione degli sfruttati del terzo mondo sta diventando comune agli abitanti del primo mondo, che credevano di avere ancora qualche diritto, sociale e civile, in particolare quello di vivere serenamente la propria vita?

Ce lo chiede la globalizzazione, direbbero quelli della sedicente sinistra, quelli che difendono i Benetton e le privatizzazioni.

#sciacalli #fateschifo

 

Rosanna Spadini

Fonte: www.comedonchisciotte.org

18.08.2018

 

 

 

 

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