Questioni di PIL

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DI GEA CAVOLI

comedonchisciotte.org

E’ sempre una questione di Pil, quando si parla di ricchezza delle nazioni.

Su questa premessa anche il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha basato e concluso il proprio discorso al festival ‘Economia Come’ che si è tenuto all’Auditorium Parco della Musica di Roma dal 17 al 19 novembre. “Nei prossimi due anni – dichiara Padoan – andremo sotto il 130% del Pil, poi da quel momento decelereremo rapidamente sotto il 120% del Pil. Penso che in questo periodo ci sarà una decisa discesa a condizione che l’inflazione non faccia brutti scherzi e se il Pil continuerà appunto a crescere intorno all’1,5%”.

L’indicatore Pil non è semplicemente numerale, ma sottende politiche ben precise. Smettiamola col mito che i calcoli economici siano il risultato di logiche inconfutabili: dietro ogni scelta economica ce n’è sempre una politica. Quando si scelgono misure di policy ci si sta riferendo ad un modello economico. I modelli sono figli delle politiche e per cambiare modelli bisogna cambiare politiche. E le scelte politiche odierne fanno parte del paradigma neoclassico. Ancora.

In effetti, le idee liberali e la visione monetarista hanno fatto sì che lo Stato perdesse la sua posizione regolatoria centrale – in quanto ostacolo all’economia – per essere sostituito dal libero mercato. La scissione dell’etica e della politica dall’economia sancita da un continuum dagli anni ‘70 fino ad oggi. Siamo negli anni della Tatcher e di Reagan.

“In questi ultimi 100 anni ci sono stati alcuni cambiamenti nel modo di fare sia politica sia teoria economica. In particolare alla fine del secondo conflitto mondiale, quando vennero introdotte politiche keynesiane, e poi negli anni ‘80 quando il pensiero liberista si introdusse al posto di quello keynesiano. Dalla crisi finanziaria del 2007 forse è oggi il momento storico in cui il vecchio modo di pensare l’economia e’ arrivato a fine corso. Oltre a non migliorare le condizioni le peggiora. Il sistema economico non genera più benessere per la famiglia media, ma incrementa le disuguaglianze. E distrugge l’ambiente. Perché il modo in cui il mercato e l’industria privata interagiscono non funziona”. Con queste parole Michael Jacobs – economista della London School of Economics ed ex consigliere del primo ministro inglese – ha aperto il dibattito Green Economy ovvero il Futuro Sostenibile tenutosi al suddetto Festival.

Ma perchè, allora, il calcolo del PIL non basta? Il benessere degli esseri umani è indubbiamente multidimensionale. Non dipende, cioè, da un singolo fattore come può essere il reddito o la produttività. Un buon indicatore si deve basare su un insieme di cose che contino e che abbiano valore per il singolo individuo e per la società. Una media statistica di produttività nazionale o di reddito pro capite non valuta certo i diversi fattori di conversione delle risorse, come le diversità personali – indubbiamente la diversità di genere e di capacità cognitiva influisce sulle possibilità personali -, ambientali, istituzionali, di relazioni sociali e di distribuzione di ricchezza anche all’interno della stessa famiglia.

Un problema rilevante quotidiano, è per esempio il gap della disuguaglianza che si acuisce progressivamente. Per calcolare la diseguaglianza, i governi si avvalgono in genere di dati facilmente reperibili, come i dati sui consumi, sul reddito o sulla proprietà. Negli ultimi decenni queste grandezze monetarie sono state messe in discussione per una serie di motivi. Ad esempio, non tengono conto né delle asimmetrie personali, né di quelle istituzionali, né delle invarianze alla rendita.

La relazione tra il reddito e le possibilità effettive di una persona di trasformarlo in beni materiali o immateriali non è lineare. Infatti, risente fortemente dell’età del soggetto, dei ruoli sessuali e sociali, della località, della situazione epidemiologica e di altri fattori che la singola persona non controlla affatto – o solo limitatamente.   Inoltre, i dati che vengono raccolti sul reddito non sono completi: ci sono molti evasori, economie sommerse e fonti di reddito informali. Questi errori portano ad una sovrastima o ad una sottostima del benessere reale delle persone e, di conseguenza, le politiche che si adottano potrebbero peggiorare la diseguaglianza.

Il filosofo, accademico e premio Nobel per l’economia nel 1998 Amartya Sen ha fatto di questi precetti una nuova scuola di pensiero politico ed economico. In un’intervista del 2009, venne rivolta a Sen la domanda “bisogna elaborare altri indicatori della crescita economica, oltre al PIL?”, alla quale egli rispose: “È assolutamente necessario. L’indicatore del Pil è molto limitato. Utilizzato da solo, è un disastro. Gli indici della produzione o del commercio non dicono granché sulla libertà e sul benessere, che dipendono dall’organizzazione della società. Né l’economia di mercato né la società sono processi che si autoregolano. Hanno bisogno dell’intervento razionale dell’essere umano. La democrazia è fatta per questo: per discutere del mondo che vogliamo, ivi compresi i termini di regolazione dei sistemi della sanità, dell’istruzione, delle tutele contro la disoccupazione… Il ruolo degli indicatori è di aiutare a portare il dibattito su questi temi nell’arena pubblica. È necessario per le decisioni democratiche”.

“I cambiamenti non avvengono per caso, né sorgono spontanei nelle epoche. Ma vengono studiati a tavolino”. E’ quanto suggerisce l’altro oratore del dibattito Green Economy ovvero il Futuro Sostenibile Enrico Giovannini – Chief Statistician dell’OCSE 2001-2009, Presidente dell’Istat 2009 2013, Ministro del lavoro e delle politiche sociali del governo Letta 2013-2014, fondatore Asvis – il quale afferma che “le disuguaglianze restano fortissime, il paradigma neoclassico non funziona, i miglioramenti in termini di Pil non si riflettono sul miglioramento della qualità di vita. Il sistema capitalistico non produce più benessere per la gente anche quando si registra una crescita economica”.

Secondo Jacobs, il nuovo paradigma da affermare richiederà un maggiore intervento da parte dei governi: “Per correggere questa situazione l’unico modo e’ l’intervento del governo. L’intervento dei governi è essenziale per direzionare tutti i soggetti del mercato. Ad esempio, le aziende oggi traggono profitto dalle energie rinnovabili anche per il fatto che i governi hanno incentivato questo cambiamento con sussidi e con politiche mirate. Le aziende volontariamente non fanno la cosa giusta, si devono incoraggiare a cercare sì un profitto, ma che non sia a scapito della società o dell’ambiente. Il compito del governo è quello di pilotare. Il vero cambio di paradigma e’ soprattutto antropologico”.

A questo proposito, sempre Giovannini dichiara che, a partire dal prossimo anno, il Documento di economia e finanza (DEF) – che delinea la strategia triennale di politica economico del Paese – andrà ‘oltre il PIL’ grazie ai nuovi indicatori BES (Benessere Equo e Sostenibile). Questi dodici indicatori misureranno l’efficacia delle politiche e ne valuteranno i relativi effetti sui cittadini in termini di benessere collettivo e sostenibilità.

Come ribadito dallo stesso Padoan l’Italia è all’avanguardia in questo campo, essendo il primo Paese dell’Unione Europea e nel G7 ad aver introdotto gli obiettivi di benessere nella politica economica. Il 15 febbraio di ogni anno, dunque, verrà presentata in Parlamento una relazione sull’evoluzione degli indicatori sottolineando gli effetti – qualitativi e quantitativi – determinati dalla legge di bilancio.

Dall’indice di diseguaglianza, al tasso di mancata partecipazione al lavoro, all’indice di efficienza della giustizia civile, speriamo non sarà sempre una questione di Pil quando si parla di ricchezza delle nazioni.

 

Gea Cavoli

Fonte: www.comedonchisciotte.org

21.11.2017

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