MONETE VECCHIE E NUOVE, I TERMINI DELLA QUESTIONE

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DI ANDREA CAVALLERI

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In un periodo di crisi, foriero di esperimenti e discussioni, imperversa il tema della moneta.

Poiché l’accento viene posto su aspetti particolari e disparati, si rischia sempre di perdere di vista il significato generale di ciò che si sta facendo, esponendosi in questo modo a errori e fraintendimenti.

In questo articolo cercherò di esporre alcuni punti fermi essenziali, da non dimenticare quando si valuta una moneta o una proposta di riforma monetaria.

Illustrerò certe caratteristiche monetarie tramite esempi possibilmente di attualità, che forniranno già dei giudizi impliciti su temi oggetto di ampie discussioni.

 

Monete elettroniche, cartacee, gold standard.

La storia ha visto succedersi monete di ogni aspetto fisico. Conchiglie, fagioli, dischi metallici di ferro, d’oro, argento, rame, legnetti, carta e impulsi magnetici. Ognuno di questi oggetti ha svolto la sua funzione abbastanza bene, e da questo fatto si può capire agevolmente che non è il supporto materiale, il cosiddetto “simbolo monetario” a determinare i risultati d’uso di una moneta, proprio perché la moneta non coincide con l’ente che la rappresenta.

La moneta è un mezzo di scambio che vale per convenzione entro la comunità dei soggetti che si impegnano ad accettarla in pagamento delle loro merci.

La forma più alta di convenzione è la legge, tipica di quella forma di comunità, la più alta e strutturata, che è lo Stato.

Pertanto si può dire che la moneta sia una fattispecie giuridica, in senso stretto o in senso lato.

In senso stretto quando la moneta è emessa e regolata dallo Stato che ne impone l’accettazione per legge. In senso lato quando circola in una comunità (ad esempio una comunità di produttori di merci e servizi, come accade col Sardex) in cui vige grazie ad accordi liberamente sottoscritti, e comunque garantiti dalla legge.

Alcuni diffidano delle monete a supporto volatile e sostengono un ritorno all’oro in quanto il metallo prezioso è indenne da crisi, “recando in sé il proprio valore”.

Questa prospettiva è particolarmente sciocca e superficiale e presuppone in chi la propugna una crassa confusione tra la moneta e il simbolo monetario. Ma c’è di più.

Il fatto che l’oro fosse usato come mezzo di scambio è sempre stata una mera convenzione, né più né meno di tutti gli altri simboli monetari (e non ha per nulla scongiurato le crisi).

L’unico beneficio che può vantare è di appoggiare la propria convenzione su di una lunga e consolidata tradizione.

Quanto al valore, nessuna teoria del valore dice nulla dei risultati economici, si tratta di una categoria di comodo, più fuorviante piuttosto che utile, che porta a profferire le massime sciocchezze.

Il valore è un apprezzamento soggettivo (o meglio, intersoggettivo, mediato nel rapporto tra domanda e offerta), utilizzato per quantificare i corrispettivi negli scambi e ha alcune notevoli caratteristiche.

  • E’ transeunte (ciò che oggi vale x, domani vale y, oppure ciò che qui vale x altrove vale z).
  • E’ simmetrico: se io faccio un affare vendendo bene un mio prodotto posso dire che “ho dato valore al mio lavoro”; ma questo significa che chi ha comprato “ha sottratto valore al suo lavoro” in quanto il potere d’acquisto del suo stipendio si è abbassato rispetto al mio. E viceversa.
  • Infine che una moneta abbia “più o meno valore” non dice nulla sul funzionamento di detta moneta. Esistono monete che “valgono poco” che funzionano benissimo e altre che “valgono molto” che hanno condotto il loro Paese al disastro.

Quindi l’idea che sulla terra una moneta o qualche altra merce possa avere un “valore intrinseco” è un’enorme sciocchezza. L’unico bene che possa vantare un valore intrinseco è la vita umana, che per definizione non può essere oggetto di mercimonio.

In conclusione si deve classificare il gold standard quale obsolescenza storica, tanto più che l’oro ha un costo (questo sì), del tutto inutile quando è possibile utilizzare al suo posto altri simboli monetari ben più economici.

Inoltre è abbastanza raro, cioè mantiene l’economia, che lo adotta come moneta, sotto la spada di Damocle di una crisi deflattiva.

A cosa serve la moneta.

Ciò che determina la prosperità sono l’organizzazione della società e l’approntamento di efficaci mezzi di produzione, situazione che si riassume con l’allocuzione “divisione del lavoro”.

La divisione del lavoro fa sì che tutti i cittadini dipendano dagli altri per approvvigionarsi del necessario per vivere, scambiandosi l’un l’altro i prodotti del proprio lavoro.

Ciò che rende agevole ed efficace questo scambio è il denaro.

Se il denaro non viene speso, le merci ammuffiscono nei depositi e, ovviamente, non se ne producono di nuove. Invece quando viene speso, il denaro esercita una domanda che stimola l’offerta, e quindi la produzione, di merci.

Meno produzione significa disoccupazione, più produzione significa piena occupazione.

Disoccupazione significa povertà per molti e crisi per tutti, piena occupazione significa più ricchezza disponibile per tutti.

Anche solo da queste scarne note si comprende che il denaro non è fatto per essere accumulato, ma per circolare. E il denaro non ha finalità autoreferenziali (cioè usato per ottenere altro denaro) ma va sempre riferito al lavoro e alle merci, in ordine di generare prosperità. Altrimenti al posto di un agile e geniale supporto all’economia si traduce in un freno e in un vero e proprio cappio strangolatore.

Così si era espresso J.M.Keynes ne “Il problema degli squilibri finanziari globali….” (1941) a proposito del miracolo economico della Germania degli anni ’30: Il dottor Schacht (ministro delle finanze di Hitler NdA) è inciampato per disperazione in… un buon accorgimento tecnico. L’accorgimento consisteva nel risolvere il problema eliminando l’uso di una moneta con valore internazionale e sostituendola con qualcosa che risultava un baratto, non però tra individui, bensì tra diverse unità economiche. In tal modo riuscì a tornare al carattere essenziale e allo scopo originario del commercio, sopprimendo l’apparato che avrebbe dovuto facilitarlo, ma che di fatto lo stava strangolando.

Del resto l’idea di spendere meno di ciò che si guadagna, per tenere soldi da parte, è un’idea che localmente sembra furba, ma considerata globalmente è cretina.

Un banale esperimento lo dimostra: si prendano dieci persone e si diano dieci dobloni a testa mandandoli a vivere per un mese su di un’isola. Se nove di queste persone riescono a guadagnare più di ciò che spendono, a fine mese avranno undici dobloni a testa. Undici per nove novantanove; dieci per dieci cento (i dobloni totali sull’isola). Quindi il decimo personaggio è rimasto in possesso di un solo doblone, perché evidentemente il guadagno di uno è la spesa di un altro!

Il modello del risparmio monetario evidentemente non è applicabile universalmente e si fonda sull’equivoco che il denaro coincida con la ricchezza.

Invece la ricchezza dipende dalla qualità e dalla quantità del lavoro. Infatti, sempre a parità di cento dobloni presenti sull’isola, i dieci residenti potrebbero tornare a fine mese laceri e affamati, oppure pasciuti e abbronzati: non è dipeso dal denaro ma dal livello di merci e servizi che sono stati in grado di approntare e scambiarsi con quel denaro.

Quindi giudicare la bontà di una moneta basandosi sul fatto che si presti o meno all’accumulo è una prospettiva stupida e fuorviante; come giudicare i cavoli in base a quanto si adattino alla merenda.

Investimento e risparmio.

L’investimento è l’azione di una comunità che destina delle risorse a un lavoro che non offre ritorni immediati. Attenzione al fatto che l’investimento non è praticamente mai un’azione individuale, ma sempre comunitaria. Lo spiego con un esempio.

C’era un gruppo di uomini delle caverne che passavano metà del loro tempo a cacciare i cervi con la clava e l’altra metà a scappare dalle tigri. Finché tutto il loro tempo era occupato in questo modo e avevano appena il cibo bastante a ciascuno, non poterono fare nessun investimento.

Quando divennero bravi e organizzati con la clava e agili e furbi a scappare e nascondersi dalle tigri, si ritrovarono con più carne di cervo del necessario. Allora dissero: siamo in dieci, ma il cibo per dieci lo procacciamo in nove. Continuiamo a lavorare in nove con la clava e mandiamo il decimo a trovare il fuoco, così poi saremo più sicuri e vivremo tutti meglio.

Questo fu il primo investimento e i risultati furono così buoni che il cibo bastante per tutti riuscivano a procacciarlo in otto con meno sforzo di prima in nove. Allora investirono su altri due cavernicoli per inventare la ruota e così via.

La morale che si ricava dalla storiella è articolata in alcuni punti.

Primo: che l’investimento si può fare grazie a un surplus che esiste già, adesso quando avvio il progetto.

Secondo: il surplus è collettivo, non è necessario che il cercatore di fuoco avvii la sua ricerca solo quando lui stesso ha messo da parte scorte di cibo per tutto il periodo dell’investimento. Potrebbe non bastargli una vita per essere pronto.

Terzo: anche i benefici dell’investimento hanno effetti collettivi.

In merito al terzo punto bisogna notare che, quando la comunità diventa numerosa, e quando i risultati degli investimenti non possono essere goduti da tutti, coloro che forniscono il surplus iniziale pretendono garanzie di poter beneficiare dei risultati. E’ una questione di giustizia (non certo di efficienza) assolutamente ragionevole.

Pertanto si misura, tramite denaro, l’apporto al surplus iniziale per sostenere l’investimento e si stabiliscono dei diritti proporzionali sui risultati.

Sempre per questioni inerenti i diritti, i prestatori si sono rapidamente accorti di due cose: che  potevano bloccare l’operazione in partenza evitando di fornire il surplus e quindi avevano il coltello dalla parte del manico; in secondo luogo che non sempre le nuove imprese avevano successo.

Per questa ragione, anziché partecipare all’impresa come soci, preferirono sovragarantire le loro proprietà (che non usavano, altrimenti non le avrebbero potute prestare) chiedendo il rimborso obbligatorio della quota investita, maggiorata di un guadagno annuale e così nacque l’interesse, imposto col ricatto.

Non è qui il caso di discutere l’argomento, noto solo che l’efficienza non c’entra nulla con l’interesse, che nasce invece dall’attitudine all’avarizia e all’avidità mascherate da pseudomoralismo, come se l’investitore si togliesse il pane di bocca per il prestito. Mentre, di norma, l’investimento non è fatto di drammatiche privazioni, anzi, oggidì non è fatto neppure dal proprietario del capitale (che in termini monetari viene creato dal nulla), ma da un gestore la cui remunerazione si può quantificare sicuramente come “eccessiva”.

Ho introdotto l’argomento degli interessi perché sono l’accorgimento tramite cui ci siamo convinti che l’investimento sia un fatto individuale e grazie a cui ci hanno persuaso che i surplus attuali non sono impegnati bene se non garantiscono un incremento di proprietà al prestatore.

Idee entrambe errate.

In base a queste convinzioni si preferisce far marcire le scorte piuttosto che impegnarle a vantaggio generale e inevitabilmente, per la legge della domanda e dell’offerta, si lesinano gli investimenti.

Se infatti, come accade in una società ricca, la disponibilità di capitale fosse abbondante e facile da ottenere, la sua remunerazione cadrebbe rovinosamente. Ecco che allora si crea un’artificiale scarsità finanziaria per non rinunciare al profitto collegato ai prestiti.

Questi concetti sono stati illustrati da Keynes in un periodo che andrebbe mandato a memoria:

Il secolo XIX aveva esagerato sino alla stravaganza quel criterio che si può chiamare brevemente dei risultati finanziari, quale segno della opportunità di una azione qualsiasi, di iniziativa privata o collettiva. Tutta la condotta della vita era stata ridotta a una specie di parodia dell’incubo di un contabile.

Invece di usare le loro moltiplicate riserve materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, gli uomini dell’ottocento costruirono dei sobborghi di catapecchie; ed erano d’opinione che fosse giusto ed opportuno di costruire delle catapecchie perché le catapecchie, alla prova dell’iniziativa privata, “rendevano”, mentre la città delle meraviglie, pensavano, sarebbe stata una folle stravaganza che, per esprimerci nell’idioma imbecille della moda finanziaria, avrebbe “ipotecato il futuro”, sebbene non si riesca a vedere, a meno che non si abbia la mente obnubilata da false analogie tratte da una inapplicabile contabilità, come la costruzione oggi di opere grandiose e magnifiche possa impoverire il futuro.

[…] la nazione nel suo insieme sarebbe senza dubbio più ricca se gli uomini e le macchine disoccupate fossero adoperate per costruire le case di cui si ha tanto bisogno, che non se essi fossero mantenuti nell’ozio.

[…] Noi dobbiamo restare poveri perché essere ricchi non “rende”. Noi dobbiamo vivere in tuguri, non perché non possiamo costruire dei palazzi, ma perché non ce li possiamo “permettere”.

(John Maynard Keynes, da “National Self-Sufficiency,” The Yale Review, Vol. 22, n. 4 -June 1933)

Il discorso sul risparmio sarebbe lungo, ma mi preme evidenziare il suo aspetto collegato all’investimento e, di riflesso, alla moneta.

Si risparmia soprattutto per due ragioni: per fronteggiare le crisi e per sostentarsi in vecchiaia.

L’investimento, se è autentico, promuove la piena occupazione e previene le crisi rendendo inutili le scorte monetarie di emergenza. Cosa intendo con investimento autentico? Intendo riferirmi a un impiego reale e concreto delle risorse, per costruire strade, fabbriche, ospedali e astronavi all’elio. Ora quando una società fa tutto questo, chiunque cerchi lavoro lo trova. E se non si dà l’evenienza di restare disoccupati, le scorte per i periodi bui diventano inutili. Ovviamente non è un investimento autentico continuare a comprare e rivendere le stesse case già costruite, le stesse azioni già collocate in borsa, o altri pezzi di carta su cui sono stilati fantasiosi contratti.

Per quanto riguarda la vecchiaia bisogna dire, per prima cosa, che in una società che raggiunge la piena occupazione i figli avranno un reddito con cui soccorrere gli anziani genitori, o pagheranno tasse con cui finanzieranno le pensioni dei genitori. Mentre una gioventù disoccupata rende drammatico il problema dell’aiuto alla vecchiaia.

In secondo luogo bisogna ricordarsi che se i soldi garantiscono di poter acquistare in futuro quei beni che ci serviranno, non garantiscono però che quei beni esisteranno. Ed è molto più facile che esistano centri di assistenza a cinque stelle per anziani, o altri raffinati servizi, in una società che produce astronavi all’elio, piuttosto che in un’economia depressa con molti disoccupati.

Bisogna quindi convincersi che l’investimento è la prima e più sicura forma di risparmio, purché l’investimento sia reale e non la presa in giro a base di castelli di carte che va tanto di moda oggi.

E’ interessante che la costituzione italiana esprimesse già concetti simili nell’articolo 47, che recita così: La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.

Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.

Come si nota, il secondo periodo specifica il primo ed esemplifica le forme di investimento, tutte orientate alla realtà concreta. Ma per mettersi al riparo da malintesi, sarebbe stato ancora meglio aggiungere due parole alla prima frase: La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme non monetarie.

Monete, beni rifugio, sicurezza per il futuro.

Tutto il lungo discorso che ho fatto su investimento e risparmio mirava a fornire uno strumento di giudizio per valutare certe prospettive che emergono parlando di monete indicate come possibili beni-rifugio, o come possibili investimenti.

Secondo la terminologia che ho usato sopra, comprare monete non è un investimento, al massimo è una forma di speculazione. E per speculazione si intendono quelle attività che non accrescono la ricchezza totale (anzi spesso la diminuiscono), ma sono orientate a impadronirsi di percentuali sempre maggiori della ricchezza già esistente. Insomma attività parassitarie e predatorie.

A questo punto, qualcuno si potrebbe chiedere costernato se questo modo di porre le cose non sia troppo limitativo per la finanza.

Per chi non l’avesse ancora capito rispondo in modo esaustivo e definitivo con sole quattro chiarissime parole: al diavolo la finanza (volendo si può aggiungere un punto esclamativo).

Se il lettore, il cittadino, il lavoratore, non hanno ancora capito che fare gli interessi della finanza significa distruggere i propri, allora che comprino bitcoin, che spendano in derivati, che consegnino i loro risparmi a qualche hedge fund. Poi non si lamentino se trovano solo lavori sottopagati, se lo Stato taglia loro le pensioni e se i figli, disoccupati, per racimolare un tozzo di pane saranno costretti ad arruolarsi come mercenari, andando a morire in qualche Paese all’altro capo del mondo alle cui vicende sono (e siete)  totalmente estranei.

Qualunque azione tipica della finanza (speculativa) è il contrario della sicurezza per il proprio futuro: è la distruzione del futuro. Perciò non perdete mai di vista la bussola e ricordate: al diavolo la finanza! Questo è il nord della prosperità.

Bisogna boicottare la speculazione, disprezzare la speculazione e sostenere quei politici che promuovono una severa repressione finanziaria.

Chi cede alla tentazione di pensare che “quando sarà il momento si introdurranno regole limitative alla finanza, ma nel frattempo ci faccio qualche guadagno” è un vile stolto.

E’ come un drogato che pensa che “domani farò qualcosa per la mia salute, ma intanto oggi prendo la mia dose” (per rifare lo stesso l’indomani).

E’ come un architetto che si è accorto che le fondamenta del suo palazzo sono troppo fragili, “ma intanto ci costruisco sopra un altro piano”.

E’ fare la stessa orribile cosa che fanno i grandi speculatori e usurai internazionali, contro cui magari lanciamo invettive tutti i giorni, solo in scala più piccola, perché queste sono le possibilità.

Ma allora che sicurezze si possono costruire per il futuro?

Alcune azioni economiche di buon senso possono aiutare a garantirsi un futuro decente: scorte alimentari, ridondanza dei sistemi critici, organizzazione e, per quanto possibile, autosufficienza.

Tuttavia la verità è che il futuro è imprevedibile e non potremo mai sapere davvero oggi cosa convenga fare per il domani.

Quindi l’unica certezza per il futuro non è di natura economica, ma politica: se a qualunque bisogno o emergenza di domani risponderemo insieme, lo faremo meglio che da soli.

Il vero valore e bene rifugio in vista del futuro è la coesione sociale.

Quando una popolazione sviluppa il senso del dovere verso l’aiuto reciproco, stipula la miglior polizza sul futuro che possa ottenere. Un filosofo aveva chiamato questo atteggiamento: “senso della comunità di destino”.

In questa prospettiva i cittadini assumono la disposizione a collaborare e soccorrersi a vicenda.

Non è facile perché la storia mostra molti esempi di popolazioni divise, in cui i vicini aspettano solo il momento propizio per fregare il prossimo e godere delle disgrazie altrui: è un misto di invidia, di avidità e furbizia di bassa lega. Questi però sono appunto furbetti che per qualche meschina soddisfazione di oggi rovinano il domani, o per qualche vantaggio nel loro giardinetto rovinano il Paese. Quelli veramente intelligenti sono gli altri, che diffondono fiducia anziché sospetto, amicizia anziché prevaricazione e che sanno che per avere bisogna anche dare.

La morale è che la moneta non è e non può essere un bene rifugio e non è certo un sistema monetario a garantirci il futuro.

Tanto più che essendo la moneta un ente giuridico lo si può cambiare come si vuole a seconda delle necessità. La moneta è una convenzione, non una grandezza fisica dipendente da qualche legge cosmologica. Le soluzioni tecniche si troveranno sempre a piacere, invece la coesione sociale va conquistata con un serio lavoro, a cominciare dall’educazione.

Emissione.

Il metodo con cui una moneta convenzionale viene introdotta in circolazione determina degli effetti sensibili. Le possibilità sono sostanzialmente tre: la moneta viene spesa dall’ente emettitore, la moneta viene emessa e prestata, la moneta viene emessa e regalata.

In tutti e tre i casi, con effetti e beneficiari diversi, l’atto di emissione di nuova moneta crea un reddito detto di “signoraggio” che corrisponde alla differenza tra il costo del simbolo monetario e il valore della moneta sul mercato. Se, ad esempio, una banconota da 100€ costa in stampa 0,20€, il suo reddito da signoraggio è di 99,80€ .

Se la moneta viene creata e spesa (come fanno i falsari), l’emettitore può acquistare merci e servizi senza offrirne in contropartita. La comodità di un simile gesto è enorme e se fosse permesso farlo a chiunque, tutti batterebbero moneta invece di lavorare. Pertanto di solito è lo Stato che si riserva il diritto di farlo, acquistando beni e servizi di utilità generale. In questo modo il processo è equo perché il reddito da emissione monetaria lo incamera lo Stato a nome di tutti i cittadini e lo spende in beni e servizi utili alla popolazione; dal loro canto i cittadini acquistano una sola volta il denaro emesso, pagandolo in merci e servizi forniti da loro stessi, e poi se lo scambiano tra loro.

Un esempio di grande successo nell’uso di questo metodo risale alla Germania degli anni ’30, che fece un boom economico (unico Paese al mondo) nel periodo della grande depressione, dando lavoro a sei milioni di disoccupati in due anni. Il suo massimo dirigente (che come lord Voldemort nella saga di Harry Potter è “colui che non si può nominare”) aveva chiaro il concetto di cosa stava facendo, come risulta dalle sue parole: non eravamo così stupidi da cercare di usare una moneta basata sull’oro, di cui non ne avevamo, invece per ogni marco che emettevamo richiedevamo l’equivalente di un marco di lavoro o di beni prodotti…e ridevamo dei finanzieri che sostengono che il valore di una moneta dipende dal suo contenuto d’oro e da riserve di valuta che risiedono nelle casseforti di una banca centrale.

Se, come da seconda opzione, la moneta viene emessa e prestata, insorgono dei problemi piuttosto spinosi. Infatti un prestito di moneta presuppone una restituzione di moneta. Ma se l’ente emettitore è monopolista (e deve per forza esserlo per ragioni di ordine pubblico) e quindi nessun altro può fabbricare moneta, la popolazione ha solo due alternative: o indebitarsi o rinunciare all’uso del denaro.

Infatti i cittadini possono produrre qualunque tipo di merce tranne la moneta, ma la Banca Centrale (o più precisamente il sistema bancario nel suo insieme) che la emette, non accetta in pagamento né alimentari, né vestiari, né gadget elettronici e neppure (somma ingiustizia!) astronavi all’elio; vuole indietro  quell’unica cosa che i cittadini non possono procurarsi in altro modo che facendosela prestare dall’ente emettitore.

Per questo si parla di denaro-debito, perché la quantità di moneta in circolazione è direttamente proporzionale al debito.

Direttamente proporzionale, e non uguale al debito, perché ci sono gli interessi. Cioè, la banca presta 100 e richiede in restituzione 105, cosa impossibile ( fosse anche meno, es 100,0000001 sarebbe ugualmente impossibile perché 100 è il totale emesso). La presenza di interessi, per quanto piccoli rende il debito inestinguibile (dopo un solo giorno dall’emissione) e aritmeticamente crescente, in quanto per pagare gli interessi la popolazione deve indebitarsi per cifre progressivamente maggiori di quelle precedenti.

Se a questa situazione, già anomala, si aggiunge la posta al passivo del circolante da parte dell’ente emettitore (che elimina dal bilancio il reddito da signoraggio) ci ritroviamo in un’economia fondata sul debito in cui i passivi, ancorché artificiali e immotivati, superano gli attivi, rendendo il sistema instabile e soggetto a periodiche crisi di assestamento.

Poiché, evidentemente, questo è il sistema più astruso, illogico e disfunzionale, è anche il sistema più praticato al mondo. Come esponente esemplare di questo metodo si può indicare l’euro, che tanto bene ha fatto ai popoli europei, soprattutto ai Greci.

Contrariamente a quanto si possa pensare, esiste anche il caso di monete emesse e regalate.

Il bitcoin infatti si genera automaticamente nei processi di gestione della sua rete di pagamenti. Dato che la gestione della rete è volontaria e gratuita il sistema regala i nuovi bitcoin  con una probabilità proporzionale al lavoro di rete (come una lotteria in cui chi ha più biglietti ha più possibilità di vincere). Tuttavia si tratta di una moneta puramente finanziaria, non legata a nessun processo di produzione e consumo e progettata come bene rifugio per il risparmio.

Quanto ho già scritto sopra, riguardo alla finanza e alla sicurezza per il futuro, permette di giudicare questo esperimento.

Più interessante il metodo del Sardex, che è una camera di compensazione. In tale sistema la moneta è un’unità di conto puramente virtuale, priva di reddito da signoraggio, viene emessa solo all’atto della transazione e nel momento in cui si raggiunge il saldo zero svanisce. Tra i molti vantaggi che presenta c’è quello di avere una massa monetaria totale assolutamente perfetta, né inflattiva né deflattiva, in quanto è esattamente proporzionata alle capacità produttive e alla domanda aggregata dei soggetti che compongono il sistema. E’ anche la moneta più democratica esistente, in quanto insorge per libera associazione dei lavoratori (imprenditori e liberi professionisti) e il sistema di gestione di rete non ha effetti sugli affari (come invece per il bitcoin).

Ha l’unico limite di essere poco adatta a remunerare il lavoro dipendente.

Convertibilità.

Una moneta funziona tanto meglio quanti più sono i soggetti che l’accettano. Non tanto per la comodità d’uso, quanto perché maggiore è il numero delle imprese che accettano una certa moneta, più è probabile che chi la detiene possa acquistare tutto ciò che gli serve.

E poiché è raro che un unico Stato sia economicamente autosufficiente, una moneta accettata internazionalmente consente di procurarsi qualunque merce.

Ma cosa determina la convertibilità di una moneta?

In teoria chi accetta la moneta dello Stato Tizio, potrà comprare merci prodotte in quello Stato.

Se dunque la Nazione tizia produce una gran quantità di merci, o merci di qualità, o merci di cui ha l’esclusiva, qualunque Nazione caia o sempronia sarà lieta di accettare la moneta tizia perché sicuramente potrà spenderla per procacciarsi articoli utili.

In pratica la cosa va in un modo un po’ diverso.

Se una moneta è accettata da tutti, chi la emette può stamparne un quantitativo molto superiore alle capacità produttive della propria Nazione e, attraverso la moneta convertibile, acquistare all’estero beni e servizi senza contropartita (gli altri Stati non potranno comprare merci dell’emettitore perché questi non ne produce abbastanza), rifilando ai partner carta straccia.

Insomma chi emette moneta convertibile rischia (lui sì!) di vivere al di sopra dei propri mezzi.

E’ quanto hanno fatto gli USA negli ultimi cinquant’anni, sfruttando l’esclusiva del dollaro per trattare il petrolio, e quanto ha fatto e fa tutt’ora la Francia col franco coloniale (CFA).

I Paesi privi di moneta convertibile risultano subalterni o colonizzati finanziariamente dagli Stati che la emettono, e questo crea tensioni politiche.

In particolare è accaduto in un passato anche molto recente che quegli Stati, che hanno provato a sollevarsi dal giogo monetario estero, fossero attaccati con tutti i mezzi: ricatti, attentati, rivoluzioni politiche e, se non basta, guerra aperta, come è accaduto con l’IRAQ e con la Libia.

Insomma la storia ha dimostrato che il vero presupposto di ultima istanza per la convertibilità della moneta è la forza militare e violenta.

Questo dovrebbe portare quelle istituzioni desiderose di stabilire una convivenza pacifica sulla terra a rinunziare alle monete convertibili, per sostituirle con le camere di compensazione internazionali.

La dimensione internazionale infatti è quella ideale per la camera di compensazione (per via della completezza dell’offerta), che mantiene automaticamente uno scambio paritetico e complementare fra tutti i soggetti che vi aderiscono, orientandoli alla cooperazione piuttosto che alla competizione.

Conclusione.

Termino qui questo pro memoria, che ha esaminato alcune delle caratteristiche salienti della moneta, sperando di aiutare chi discute del tema a non focalizzarsi solo sui particolari, ma a mantenere la consapevolezza del significato generale dell’argomento.

Come ultima sintesi ricordo a tutti che il denaro non si mangia.

Dunque quando la moneta viene strutturata al servizio dell’economia reale il pranzo è assicurato, quando invece si pretende (per una mostruosità logica) di alterare l’economia reale per il bene della moneta (di solito si usano frasi come “per la stabilità della moneta”, “per salvaguardare il valore della moneta” e simili amenità) la fame e la carestia sono alle porte.

 

Andrea Cavalleri

Fonte: comedonchisciotte.org

13.12.2017

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