Di Flores TOVO
Comedonchisciotte
Molti filosofi, a partire da Aristotele, ritengono che il principio per eccellenza della scienza logica, ossia il principio supremo superiore a tutti gli altri principi propri del nostro pensare, sia il principio di identità (1).
Comunemente tale principio viene espresso con la formula A=A. In realtà questa formula esprime il principio di uguaglianza, che è diverso da quello dell’identità. Infatti l’uguale viene enunciato se ci sono parecchie cose o enti logici (es. matematici) presenti. Invece l’identità implica la medesimezza, cioè la constatazione che uno può essere identico solo con se stesso e nient’altro con se stesso.
Il filosofo che più di ogni altro stabilì l’eccezionalità del principio di identità fu l’idealista Fichte sulla scorta del pensiero di Leibniz, il quale affermò che la supremazia di tale principio risiede nella sua mancanza di contenuto empirico. Ciò significa che esso è rivelazione di un pensiero puro, svincolato da qualsiasi condizionamento legato alla sensibilità. Che cosa scrisse Fichte a riguardo? Egli affermò che la proposizione d’uguaglianza A=A è certa, ma “non si pone che A sia”. Per cui la proposizione A è A non è per nulla equivalente ad A=A, poiché essa ci dice che se “ A è , allora A è”, e solo A è identico a se stesso in quanto lo stesso. Fichte aggiungerà poi, che a sua volta A, pur identico solo a se stesso, è tuttavia posto da altro, il quale altro invece non viene posto da nessuno, se non da se stesso: e solo questo altro è il fondamento incondizionato ed assoluto, poiché indipendente da tutto. Questo fondamento è l’Io che pone se stesso, per cui, proprio ponendosi, esso è puro pensiero che agisce. Il significato dell’idealismo scaturisce da qui, da un principio supremo, quello di identità appunto, che viene inteso come dinamico proprio perché l’Io incondizionato diventa Soggetto assoluto (lo Spirito), riconoscendo se stesso come lo stesso ponendosi (tesi), e con questo atto antepone anche al proprio interno l’antitesi ossia il Non-io (la natura) e la reciproca limitazione (sintesi) fra i due contrari (2).
Pur tuttavia non ci vogliamo inoltrare nelle tematiche dell’idealismo. Il nostro intento è invece quello di far comprendere quanto sia complesso e rilevante lo spiegare, o meglio il tentar di spiegare, il principio di identità.
Il primo filosofo che lo enunciò, sia pure in forma indiretta, fu senza dubbio Parmenide. Famosissimo, e assai commentato, è il frammento n. 6: “E’ necessario il dire e il pensare che l’essere sia: infatti l’essere è, il nulla non è…” (3). Pure il fr. 2 afferma che l’essere “…è e che non è possibile che non sia…”, seguita dall’altra affermazione che il non-essere “…non è, ed necessario che non sia…”. Questi due frammenti presuppongono la validità di due principi logici che saranno codificati da Platone e soprattutto da Aristotele: in primis il principio di identità per cui ogni cosa è se stessa e, in secundis, il suo corollario, ossia il principio di non contraddizione (che Aristotele definì di contraddizione) che sancisce che è impossibile che i contraddittori coesistano ad un tempo (A non è non-A). Bisogna sottolineare che la proposizione “l’essere è” implica la veduta dell’essere in senso sostantivato, cioè in senso esistenziale. Un essere che è inteso da Parmenide nel frammento n. 8 come ingenerato, eterno, immutabile, immobile, unico, omogeneo e sferico (ossia perfetto). E’ evidente con ciò che egli si riferiva a Dio, inteso come l’Essere supremo. In effetti molti studiosi considerano la visione parmenidea molto influenzata dall’Uno-Infinito di Anassimandro. Ma il punto non è questo: bisogna in verità porsi la domanda sul perché questi brevi frammenti riportati siano di importanza decisiva per capire il funzionamento del nostro pensiero. A prima vista l’affermazione “l’essere è” può sembrare una banale tautologia, una proposizione che ripete sul predicato nominale quanto è espresso nel soggetto. Ad esempio se consideriamo l’essere come principio della manifestazione, si dovrebbe dire che “l’essere manifesto è manifesto”. Se poi si considera invece l’essere come Dio, si dovrebbe dire che Dio è Dio. In verità il pensiero tautologico nasconde una profondità intrinseca, poiché esso non esprime una mera ripetizione, bensì un ritornare o meglio un riflettere su di sé. Il frammento 3 di Parmenide ci aiuta a comprendere meglio il discorso. Egli dice che “…Infatti lo stesso è pensare ed essere” . Heidegger lo interpretò come coappartenenza (zusammengörigkeit) (4) fra l’essere e l’essente pensante, cioè l’uomo inteso come esserci. Infatti l’uomo si distingue dagli animali perché pensa, e perciò è in grado di instaurare un rapporto diretto con l’essere stesso. L’essere però, nel caso della coappartenenza, non è più da intendersi come l’essere supremo (Dio) immobile ed immutabile, ma come l’essere che si manifesta agli essenti. Il filosofo Severino nel suo saggio “Ritornare a Parmenide” si rese conto che bisogna differenziare il termine essere, inteso come Dio, con quello di essere come essere degli enti. Infatti se intendiamo che solo l’uomo in questo pianeta si distingue da tutti gli animali, risulta chiara la coappartenenza fra pensiero ed essere che Heidegger rivelava. Proprio questa apertura all’essere inserisce l’esserci umano nell’essere stesso, da cui egli riceve il “dono” del pensare. La proposizione tautologica “il pensiero pensa” è assolutamente illuminante. Il pensiero pensando se stesso, sa, con ciò, di pensare; in questa brevissima sentenza c’è la nascita dell’autocoscienza umana. Un’autocoscienza, per dirla con Kierkegaard è “…un rapporto che si rapporta a se stesso; è, nel rapporto, l’orientamento interno di questo stesso rapporto. L’io (l’autocoscienza) non è un rapporto, è il ritorno su se stesso del rapporto” (5).
Qual è, a questo punto ci si chiede, la molla che produce la scintilla del pensare? Nessuno mai come Hegel, in tutta la storia della filosofia, ha cercato di spiegare con straordinaria profondità il come nasce e si dirama il pensiero che proviene dall’essere. Nella sua “Scienza della logica” egli definisce l’essere, che è indefinibile per la sua massima estensione concettuale, come immediatezza indeterminata (che è comunque vita) e che proprio per questo corrisponde al nulla (che è non-vita): “L’essere, l’indeterminato immediato, nel fatto è nulla, né più né meno che nulla” (6). Così pure il nulla che si contrappone all’essere è assenza di contenuto e determinazione. Eppure, sottolinea sempre Hegel, questo nulla lo si intuisce e lo si pensa, ed è differente dall’essere. Ed è proprio la sua differenza dall’essere che lo distingue, pur essendo esso stesso indeterminato. Ci si trova così in una dimensione di pensiero agli antipodi rispetto a quella di Parmenide. L’essere non è più considerato un immutabile, e così pure il nulla non è posto come un assoluto nulla, poiché esso, essendo pensato, è, pur non-essendo. Il principio di non-contraddizione, che fissava per sempre che solo l’essere è, e il nulla non è, viene qui superato. Del resto solo questa operazione filosofica profondissima, avvenuta dopo duemila anni di storia filosofica, è quella che consente di comprendere il vero significato del principio di identità.
Forse un esempio empirico può aiutare a capire meglio il discorso che si vuole impostare. Se un individuo va davanti ad uno specchio vede riflessa la propria figura. Per cui egli non è più soltanto un individuo in carne ed ossa, ma anche il proprio doppio che è appunto la propria immagine riflessa. Ora, è chiaro che il vero esistente è questo individuo, mentre il riflesso è solo l’immagine prodotta sullo specchio. Eppure se prendiamo quel singolo e gli si toglie la facoltà del pensare, egli si accorgerà di vedere solo un qualcosa di indeterminato sullo specchio, e non riconoscerà se stesso: egli continuerà a vivere come prima, ma non sarà mai consapevole della propria immagine. Un cane, un gatto, un uccello e così via, che proiettano la propria figura su di uno specchio potranno avvertire delle modificazioni nella propria percezione, ma non potranno mai dire: io sono quello lì; mentre un qualsiasi umano dotato di un minimo di ragione riconoscerà subito la propria immagine.
A questo punto occorre spiegare il significato del verbo riflettere che deriva dal latino reflectere e che viene comunemente tradotto come la facoltà di considerare con attenzione un qualcosa che ci interessa. Kant riteneva che questa capacità fosse in grado di giudicare sentimentalmente il gusto del bello e del sublime. Infatti con lo studio dei giudizi riflettenti sentimentali riuscì a costruire la sua grandissima opera ontologico-estetica “La critica del giudizio”. In realtà il significato originario del verbo è quello di ripiegare, di volgere indietro, di rimandare indietro: questo ci acconsente di capire cosa accade quando si vede la propria immagine sullo specchio. In pratica ci si rende conto che ci stiamo osservando. Hegel scriverà a riguardo che “la verità dell’essere è l’essenza”, intendendo per essenza la riflessione stessa. Cosa significa questo? Per la tradizione filosofico-metafisica, il piano dell’essenza è quello in cui il sapere, al vertice del processo cognitivo, perviene alla verità, ossia a cogliere le proprietà fondamentali, o essenziali dell’essere come le categorie e i principi logici primi: il sapere vero è perciò quello che attinge l’essenza dall’essere immediato. L’essere, sia che lo si intenda come principio della manifestazione, sia come ente vivente, proprio perché immediato, è indeterminato: l’immediatezza fa sì che sia “un morto essere”. L’ente che si specchia non riconoscendo se stesso, è identità morta dal punto di vista conoscitivo. Solo il riflesso riconosciuto, grazie alla riflessione, acconsente di comprendere che l’immagine proiettata appartiene all’ente. In altre parole, io sono io come ente pensante solo se rifletto consapevolmente su di me. Infatti l’identità dell’essere e di ogni ente in sé è astratta se non viene riflessa. Essa è come l’essere parmenideo immobile e immutabile: un essere che Nietzsche definiva simile ad un’enorme e liscia palla di ghiaccio, priva di vita. Il pensiero comune ritiene superficialmente che non vi sia nulla di contradditorio nella propria identità, poiché ciò che è identico a se stesso non si muove; non capendo, se così fosse, che non ci sarebbe né vitalità, né conoscenza. L’uomo, conseguentemente, non penserebbe, e diventerebbe come quel cane o quel gatto che vedrebbero il proprio riflesso sullo specchio senza sapere di essere quel cane o quel gatto. Quindi l’essere (e gli enti) per Hegel non è statico, ma è in sé contradditorio. L’essere immediato e indeterminato è uguale al nulla, pur essendo essere: come tale è solo parvenza. Tuttavia è proprio questa nullità che lo spinge ad agire. “Nella sfera dell’essere, all’essere come immediato, sorge il non essere, anch’esso come immediato…”(8). Ma la parvenza è la riflessione essenziale: è l’immagine dello specchio, che come tale non è, perché non è la vera vita, e che comunque esige di essere rappresentata. Il pensiero lo vuole: senza la riflessione, esso non penserebbe. Ogni ente vivente possiede in sé sia l’essere che il nulla (la non-vita), cioè reca con sé il negativo. “Omnis determinatio est negatio” diceva Spinoza. Una frase che colpì a fondo Hegel. Essa volle stabilire che ogni essere vivente, pur positivo perché esiste, porta con sé la propria negazione, che lo spinge ad affermarsi contro le tantissime altre determinazioni che incontra nella sua vita. Un uomo determinato porta con sé, quindi, la propria negazione: ciò lo induce a superare tale negatività. La riflessione sorge, si diceva, da questa negatività ed è però essa stessa negatività, in quanto la riflessione è un rimandare all’essere. Ciò significa che il pensiero nasce col negare una negatività, che però è essa stessa negatività. E’ la negazione della negazione. Ciò consentirà ad Hegel affermare che il principio di identità e il principio di non-contraddizione sono di natura sintetica (unità fra positivo e negativo) e non analitica (il semplice porre o questo o quello), poiché “il principio di identità contiene…il movimento della riflessione, l’identità come dileguarsi dell’essere altro” (9).
Con questo ci sentiamo di affermare che Hegel è il filosofo che ha compreso meglio di chiunque il senso del divenire. Credere erroneamente che il suo pensiero sia chiuso o escatologico, significa non averlo capito e studiato. Egli dirà spesso che l’inizio, il cominciamento logico, è “il resultato”, il rimandare indietro. Il suo pensiero è, come ben capì Heidegger, di struttura circolare.
Si può allora considerare, dopo la conclusione di questo breve saggio sul principio di identità, che codesto principio fondamentale esclude qualsiasi forma di immobilità sia dell’essere e sia degli enti che vivono su questa terra finita. Per cui ciò che oggi può sembrare definitivo, in realtà non lo sarà mai. La fine della storia ci sarà solo con l’estinzione dell’essere umano e del suo pensare. Anche la dittatura della tecnica moderna capitalistica, che è la più pervasiva di tutti i tempi in ogni suo aspetto, è destinata ad essere tolta. E poiché l’identità dell’essere è pur sempre identità universale che si esterna non solo nel singolo, ma in ogni comunità e popolo, essa si potrà certamente rivelare in molteplici e varie forme, che però saranno sempre conformi al destino di quei protagonisti della storia che sono riusciti ad imporre nel loro passato la fondazione permanente di una grande tradizione. Questo vuol dire che l’identità, pur cambiando, resta saldamente ancorata al suo principio.
Note:
- I principi logici fondamentali della nostra mente sono: 1) il principio di identità coi suoi due corollari che sono il principio di non-contraddizione e del terzo escluso, applicati soprattutto nella matematica e alla coerenza nei discorsi; essi furono codificati da Aristotele. A questi si può aggiungere il principio di identità degli indiscernibili, codificato da Leibniz. 2) Il principio della dialettica dei contrari, propria di Eraclito e stabilita da Hegel, applicabile nella comprensione storica; 3) Il principio di ragion sufficiente, che è una riforma del principio di causa nei suoi vari aspetti, anche in questo caso dimostrato con grande perizia da Leibniz, una riforma che è di uso universale.
- Si veda di J.G.FICHTE, La dottrina della scienza, ed. Laterza, Bari 1971, da p. 73 a p.87.
- I frammenti di Parmenide, ivi riportati, stanno in: PARMENIDE, Sulla natura, a cura di G. Reale, ed Rusconi, Milano 1998.
- HEIDEGGER, Identità e differenza, ed. Adelphi, Milano 2009. Un libretto celebre che raccoglie le meditazioni di Heidegger su Parmenide ed Hegel.
- KIERKEGAARD, La malattia mortale, sta in “Opere”, p.625, ed Sansoni Milano 1993.
- W.F. HEGEL, Scienza della logica, vol. I, p.70, ed. Laterza, Bari 1988.
- IDEM, vol. II, p. 433.
- IDEM, vol. II, p. 447.
- IDEM, vol. II, p. 463.
Flores TOVO
Novembre 2021
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