Di Matteo Parigi per ComeDonChisciotte.org
Lungi dall’essere sparita nel Tartaro di uno scientismo disincantato, la questione sull’esistenza dell’anima e le riflessioni intorno ad essa rimangono, o meglio ritornano sul tavolo dei temi fondamentali sui quali la scienza e la filosofia sono tenute a fare ricerca. Di più, è proprio la scienza stessa a dimostrare che la realtà va ben al di là dell’universo osservabile. La fisica quantistica sorta sulle fondamenta innestate da Heisenberg, Lorenz ed Einstein afferma che la materia è quantisticamente influenzata dall’osservatore. Il principio di indeterminazione annulla qualsivoglia tentativo determinista di comprendere appieno e prevedere la totalità dei fenomeni, soprattutto quelli al di là dell’universo spazio-temporale. Il meccanicismo e la fisica classica newtoniana non valgono più a spiegare la realtà se non in contesti molto limitati. Altri fisici come Bohr e Planck sostenevano rispettivamente che «quando si arriva all’atomo, il linguaggio può essere solo quello poetico», mentre il secondo, fervente religioso, giunse a identificare l’ordine universale con l’opera di Dio. Tornando a tempi odierni, il nostro Federico Faggin, fisico illustre della Olivetti, inventore del primo microprocessore al mondo, spiega che è proprio l’anima – e non la ragione o altre facoltà – ciò che ci differenzia da altre intelligenze, compresa quella artificiale:
«L’anima è una realtà della fisica quantistica. I computer, che sono parte di una realtà che rientra nella fisica classica, quindi degli oggetti macroscopici immersi nello spazio-tempo, non la possiedono e non l’avranno mai […] La nostra interiorità promana da una parte di noi che esiste come campo quantistico e dunque va al di là del corpo.»[1]
Non ha quindi alcun senso – anzi, denota letteralmente ignoranza rispetto allo stato della scienza – deplorare ciò che è invisibile, intangibile, non sperimentabile e nemmeno osservabile (a maggior ragione nel ridottissimo senso della mera visibilità visiva e tangibilità tattile); ciò che è inerente all’assoluto, come lo chiamava Planck, la metafisica che, ricordiamo, già con Aristotele era definita «scienza prima»[2].
Parlando dell’anima umana, è in questa sede utilizzato un approccio classico a metà tra il metafisico e quel poetico di cui parlava Bohr, senza alcuna pretesa né di analisi scientifica né di paper filosofico ufficiale, che non sono idonei in questa sede. Bensì vi saranno solo cenni di alcuni elementi argomentativi sulla scia del metodo dialettico-mitologico rintracciabile nei contributi degli “scopritori dell’anima” Socrate e Platone[3], nonché alcuni elementi metafisi e organici come individuati da Aristotele.
Cenni storici
La scoperta dell’anima come un’essenza dell’uomo che persiste dopo la morte del corpo è di per sé indefinitamente ancestrale e universale, esente da una certa appropriazione etnico-locale. Tuttavia, la moderna concezione occidentale risale ai greci: la nozione di psyché (ψυχή), termine con il quale veniva indicata l’anima, ricorre già frequentemente nelle opere omeriche, indicando tuttavia non la coscienza umana o facoltà simili, bensì l’entità che nel momento della morte esce dal corpo, come un’ombra-fantasma. Era questa, infatti, la concezione standard che il popolo greco, insieme ad altre culture coeve, aveva dello spirito oltre il corpo. Gli stessi Presocratici rimasero nell’alveo omerico per quanto riguarda l’anima umana (con le eccezioni di Eraclito e i pitagorici), mentre portarono a compimento speculazioni intorno all’anima del mondo nel suo complesso (φύσις, ἀρχή). I pionieri di una rinnovata cultura della ψυχή furono i seguaci dell’Orfismo, che intuirono la presenza di un’entità spirituale che vive come prigioniera nel corpo per tutta la vita in attesa di essere liberata. Ma si dovette attendere l’intercessione di Socrate e dei suoi epigoni per rivoluzionare completamente gli schemi tradizionali ed assistere al fondamento della moderna filosofia morale occidentale.
L’anima come unità dell’essere umano
L’anima è innanzitutto l’Unità dell’essere umano, il principio di sé stesso in quanto persona in sé. È l’attore vero e proprio nell’interazione tra l’individuo vivo e la realtà, che sia il mondo esterno o la coscienza interiore. Ogni interazione avviene nei confronti dell’anima e questa è condizione di attuazione dell’interazione. Nel momento in cui si sta interagendo con un’altra persona, questa non si rivolge ad una particolare parte del corpo, bensì a noi in quanto soggetto unitario dotato di personalità distinta rispetto alle singole parti del corpo, nonché unico, irripetibile, inalienabile rispetto agli altri individui. Ogni mattina ci alziamo coscienti di essere sempre e ininterrottamente noi stessi, sebbene in termini materiali biologici le cellule del corpo mutano drasticamente nel loro complesso. Il corpo invecchia, muta, può anche cessare le sue funzioni vitali, ma l’anima come principio di sé stessi rimane costante. Una dimostrazione semplice ma chiara si ha laddove un essere vivente subisce un’amputazione, senza per questo cessare di essere ciò e colui che è.
Rimanendo un momento sul piano biologico-cognitivo, a niente varrebbe la rozza osservazione che i neuroni, a differenza delle altre cellule, rimangono stabili senza partecipare alla mitosi. In primo luogo, ciò non consentirebbe comunque di spiegare la ragione per cui, indipendentemente dallo stato di salute del cervello, ciascuno rimane sempre e comunque sé stesso. In altre parole, non si spiega come non sia mai capitato che qualcuno scambiasse la coscienza di sé stesso con quella di qualcun altro. Nei casi di perdita di coscienza, inoltre, ciò che avviene è sempre una interruzione dell’attività di tale coscienza; non v’è la morte o scambio di essa nelle forme che le sono peculiari e nelle esperienze che essa ha assunto come proprie in quanto facenti parte di quella determinata persona. Inoltre, tutto ciò rimane valido anche alla luce dei nuovi progressi in neurologia che riguardano effettivi o comunque possibili fenomeni o interventi neurogenerativi; come le cellule staminali, ad esempio, che potrebbero confutare l’immobilismo neuronale. In tal caso rimarrebbe infatti valida la presenza di un’anima che persiste al mutamento e al rinnovamento neuronale.
Tornando al ragionamento strettamente filosofico, affinché vi sia la possibilità di interazione, contatto, comunicazione tra soggetti è necessaria un’unità ontologica di essi, altrimenti colui che ci parla dovrebbe farlo alle nostre orecchie, o nel guardarci potrebbe avere solamente contezza degli occhi, della bocca o di qualsivoglia elemento del corpo come interlocutore materiale immediato. Lo stesso vale per le sensazioni: ogni organo è in grado di recepire solo le sensazioni inerenti al proprio senso: gli occhi possono vedere, ma non annusare o ascoltare. Pertanto, ogni senso è responsabile solamente della propria sensazione. Tuttavia, noi siamo capaci di riunire tutte le sensazioni ed attribuire la loro origine ad un unico oggetto: vedo il fiore e ne sento il profumo; la vista trasmette soltanto l’immagine del fiore e il naso il profumo; ma io non percepisco le due sensazioni in universi separati, bensì sono in grado, rimanendo io, di ricevere due sensazioni separate e allo stesso tempo collegarle ad un medesimo oggetto. In assenza di un ricevente unitario che sia responsabile della capacità di ricevere sensazioni indirizzate a parti diverse del corpo non sarebbe possibile sentire alcunché rimanendo noi stessi, ma saremo per assurdo in un tempo le orecchie, in un altro momento le mani e così via.
Sostanzialità e partecipazione all’Essere
Ora, l’anima risulta non soltanto l’entità che invera l’esistenza umana (o dei viventi in generale), ma dimostra possedere, per forza di cose, una natura al di sopra di quella materiale. O meglio, l’anima ha una propria peculiare sostanza (οὐσία), ma tale sostanza non è soggetta alle leggi della natura fisica, per lo meno non nell’universo materiale. Dicendo che l’anima è una sostanza non significa attribuirle una materialità o corporeità di cui evidentemente è difettiva (per lo meno nel senso usuale con il quale si intende ciò che ha materia), significa invece che l’anima non è qualcosa di inesistente, di cui si ha semplicemente un nome. Essa è un “qualcosa” soggetto a delle affezioni che lo riguardano (interazione, sensazione, pensiero ecc.); la capacità (δύναμις)[4] di ricevere ed avere efficacia concreta è l’indice della sua partecipazione all’Essere (τὸ ὄν), indipendentemente dal tipo di ilemorfismo o razionalismo. Infatti, per fare un esempio, anche un pensiero astratto è sempre un qualcosa di cui è possibile avere pensiero, opinione, giudizio, immagine. Se così non fosse, non sarebbero possibili le opere creative che, per così dire, innovano la realtà esistente.
Vita in atto e differenza rispetto al corpo
Se la natura dell’anima è quella di essere il principio dell’unità dei viventi, o per dirla con Aristotele «l’atto di un corpo naturale che ha la vita in potenza»[5] essa allora soggiace e supera la vita del corpo, in quanto sottoposto al divenire perenne. Ogni corpo fisico, infatti, è in tal senso di due generi: animato e inanimato. Il secondo giace nella quiete totale senza impeto vitale (conatus)[6] proprio, come nello stato di morte. Quindi, negli esseri animati, l’anima è l’atto, ossia il momento della vita che agisce ed esiste nel corpo. Un corpo è in potenza sia in salute sia in malattia, ma in un determinato momento reale è per forza o in salute o malato. L’anima è quindi condizione necessaria e sufficiente della vita in atto del corpo e già in questo significato gli è superiore.
Inoltre essa è un’entità a sé sufficiente: non può derivare da alcun organo, né dal collegamento o funzionamento sistemico di alcuni tra essi; se infatti servisse una sorta di combinazione armonica per far scaturire l’anima, questa verrebbe dopo l’assemblamento di altre parti, e quindi sarebbe successiva al corpo che abita; se poi le parti del corpo cessassero di essere collegate, l’anima scomparirebbe, oppure ad absurdum riapparirebbe ad intermittenza ogniqualvolta le parti si ricolleghino nella loro armonia. E non cambia che siano organi o connessioni sinaptiche cerebrali, perché in quale/i di queste risiederebbe l’anima? Anche in quest’ultimo caso l’anima risulterebbe il risultato di scariche elettro-creberali eterogenee per localizzazione, funzione, origine, forma e così via; equivale a ritenere che l’anima appare/scompare come un interruttore a seconda delle connessioni cerebrali. In casi di questo tipo, l’anima sarebbe dipendente dalle membra e dagli organi da cui ricava l’unità delle sensazioni: il ché, tra l’altro, varrebbe a dire che è il profumo del fiore che passa dalle narici a produrre l’anima[7] (e solo nella sua specifica forma “olfattiva-aeriforme”). In conclusione, risulta che l’anima è a sé sufficiente e non può far dipendere la sua esistenza dalle affezioni del corpo o dal cervello. Essa è sostanza semplice (non composta) e per questo ha la funzione di principio; infatti se fosse generata da altro non sarebbe per definizione un principio; lo sarebbe invece ciò che le è precedente e la genera.
Parti dell’anima: vegetativa e sensitiva
L’immutabilità dell’anima non significa tuttavia assenza di modificazioni intellettive, né totale impermeabilità alle affezioni. Non è un caso che la più fortunata definizione della struttura dell’anima sia quella aristotelica, rimasta insuperata per tutta la tradizione occidentale, tripartita in anima vegetativa, sensibile ed intellettiva: la prima (detta anche nutritiva) è comune a tutti ed è la causa stessa degli esseri viventi (soffio vitale, funzionamento biologico); la seconda, l’anima capace di ricevere sensazioni («essere mossi e subire alterazioni»[8]), è diversa a seconda dei generi animali; la terza è propria dell’umano in quanto è la sede di pensiero, intelligenza, immaginazione e memoria. L’anima che corrisponde alle due funzioni vegetativa e sensitiva, dal momento che entrambe sono sede di interazione passiva-ricettiva con l’ambiente naturale, è essa stessa una sostanza soggetta al contatto e quindi al mutamento del proprio senso, o più precisamente della propria capacità di senso. In altre parole questa parte dell’anima è come un metro vitale, una cassa di risonanza che riceve ed elabora impulsi sotto forma di sensazioni; queste si differenziano all’interno dell stessa specie in base all’intensità delle vibrazioni ricevute (esempio: 432 Hz < 440 Hz) ma per valutare l’intensità delle sensazioni che riceve appunto deve essere dotata l’anima stessa di una sua peculiare risonanza: infatti ciò che essa sente non sono le sensazioni in sé: non percepiamo il caldo in assoluto, il liscio in assoluto, ma le gradazioni di questi, percepite e misurate a seconda della nostra sensibilità. In altre parole, percepiamo non le sensazioni assolute ma gli eccessi di esse:
«Il senso è una specie di medietà delle opposizioni […] il medio infatti ha la capacità distinguere divenendo, rispetto a ciascun estremo, il suo opposto» [10]
È importante specificare questo punto, affinché sia chiara la partecipazione al divenire sensibile dell’anima nonostante la sua natura essenziale immutabile: è proprio l’anima, infatti, che rende possibile l’esistenza delle sensazioni e quindi della vita. L’anima ha la funzione di essere la condizione di possibilità cosciente delle cose in quanto ogni accadimento (sia intellettivo che sensitivo) avviene nel luogo in cui accade e ad opera dell’agente che lo causa (actio est in patiente et non in agente). Va precisato che parlare come è stato fatto finora di parti dell’anima non significa cadere in quella fallacia sopracitata, ossia attribuire all’anima una natura composta di parti meccanicamente interdipendenti. È vero che l’anima intellettiva, nella misura in cui presenta caratteristiche molto diverse e sovradimensionali rispetto alle altre due, può essere considerata un «genere diverso di anima»[11]; ma non si tratta di separazione ontologica, bensì «distinzione logica»[12]. Si tratta della stessa ragione per cui il baricentro del triangolo presenta diverse derivazioni logiche (es: il punto intersecato dalla retta AP, o dal segmento RB, e ugualmente la retta CQ; in tutti i casi rimane lo stesso punto, ma derivabile tramite diverse vie).
Immutabilità e perfezione
L’anima nel suo complesso rimane un’entità immobile, superiore al corpo e responsabile della vita di questo. Essa è immobile nella misura in cui il suo contrario, il movimento, è per definizione una traslazione spaziale oppure un peggioramento entropico di condizione. Se l’anima partecipasse di un tale movimento, potrebbe in ogni momento spostarsi dal corpo di cui è la vita o andare a risiedere in una localizzazione particolare di esso; inoltre, sarebbe suscettibile di degradazione strutturale, cadendo così nella dinamica di mutamento degenerativo, in aperta contraddizione alla sua effettiva essenza; in questo senso vi sarebbero viventi che passerebbero progressivamente da uno stato di maggiore “animità” iniziale verso quello di corpi-che-si-muovono con “sempre meno anima”.
Anima intellettiva
Finora sono state accennate le due distinzioni logiche dell’anima vegetativa e sensitiva. L’anima intellettiva è la sede del pensiero e di ogni facoltà nel campo dell’intelligibile. È l’anima dell’uomo per antonomasia. Essa similmente al Dio-motore immobile[12], muove senza essere mossa e lo fa non fisicamente, perché in tal caso sarebbe mescolata al corpo con le sue qualità, ma mediante «un proponimento ed un pensiero»[13]. In altre parole, poniamo che vi siano due specie di alterazione di un corpo vivo: quello materiale, ossia il mutamento nella qualità dell’ente materiale, e quello intellettivo, detto altrimenti un accrescimento di conoscenza o consapevolezza. Ora, il primo tipo di mutamento è rappresentabile come un movimento da un momento spazio-temporale A verso un altro B; questo movimento è quindi lineare e irreversibile, motivo per cui, ad esempio, il corpo invecchia e mai ringiovanisce. L’accrescimento intellettivo invece è una crescita di conoscenza verso sé stessi, la realizzazione di sé stessi; chi pensa non subisce un’alterazione e non si ha un passaggio di materia o qualcosa da un punto A ad uno B (B ≠ A). Non è facile da spiegare a parole, ma metaforicamente è come una specie di purificazione dell’ente che diventa, o più precisamente, si concepisce meglio come ciò che è; una sorta di movimento perfetto di una circonferenza, nella quale un punto qualsiasi è allo stesso tempo l’origine e la fine.
L’anima intellettiva è quindi la facoltà conoscitiva e riflessiva. Considerando la prospettiva analoga a quella dei sensi, anche l’anima partecipa della capacità di recepire le apprensioni intellettive (pensieri, immagini, idee ecc.)[14]. Ma a differenza degli altri sensi, l’anima intellettiva non può essere immanente a nessuna parte del corpo, perché in tal caso assumerebbe le caratteristiche di questo, configurandosi con la sua struttura ed il suo funzionamento, mentre il pensiero è una attività che si riferisce alle forme universali, ai sentimenti ed alle immagini della fantasia. Inoltre, i sensi sono soggetti al danneggiamento provocato da sensazioni estreme (una luce troppo intensa può accecare), mentre l’entità degli intelligibili non ha in questo senso alcun effetto sulla mente.
Immortalità e dominio sul corpo
Pure Platone sottolineava che i mali dell’anima per quanto gravi e dannosi per la sua realizzazione vera, non possono distruggere l’anima, a sostegno della sua natura immortale e divina:
«Forse che uno di questi mali la dissolve e la porta alla morte? E stai bene attento a non cadere in errore, pensando che l’uomo disonesto e privo di senno, per il fatto stesso di essere sorpreso in flagrante delitto, muoia per effetto della sua stessa ingiustizia, che è appunto il male dell’anima […] quando una cosa non muore per effetto di alcun male, né del suo specifico né di quello di altri, evidentemente, è necessario che sempre sia: e se è sempre, è immortale»[15].
L’uomo è una cosa diversa da ciò di cui fa uso: l’uomo che parla non è la bocca di cui fa uso per parlare. Analogamente ad un calzolaio che non si identifica con gli strumenti, e nemmeno le mani, che utilizza per trincerare le calzature. E come il calzolaio controlla i suoi strumenti, l’anima domina sul corpo di cui fa uso e altrimenti non potrebbe essere: infatti non può in alcun modo il corpo comandare su sé stesso, se non in aperta contraddizione: niente comanda su sé medesima nella misura in cui la facoltà di comandare è tale solo laddove vi sia un soggetto che comanda su un altro:
«Perciò, nella misura in cui una cosa è un’unità naturale, non può patire nulla ad opera di sé medesima, perché essa è una e non diversa da sé»[16]
Il dominio di sé stessi è permesso soltanto a coloro i quali concepiscono la persona di sé stessi riflessa. Sarebbe impossibile per un ente avere coercizione sulla sua stessa sostanza. Equivarrebbe a quella fallacia che commisero coloro che accusarono Gesù di scacciare i demoni per mezzo dei demoni[17]. Per avere controllo su di sé il corpo dovrebbe essere “altro da sé stesso”. Quindi solo l’anima può avere le redini del corpo.
La metafora più suggestiva a riguardo ce l’ha data Platone: l’anima è come un auriga che guida una biga alata, trainata da due cavalli: l’uno puro, simile al divino, dotato di armonia e virtù; l’altro al contrario indisciplinato, rozzo, schiavo della concupiscenza. Il primo cavallo si sforza di elevare tutta la biga verso il bene maggiore ed eterno situato nei regni celesti; l’altro al contrario si oppone e spinge verso i piaceri più bassi. L’auriga che tiene le redini di entrambi deve quindi decidere quale cavallo seguire, o meglio ancora riuscire a dominare entrambi nel modo più equilibrato e nobile possibile.
In questo mito è contenuta l’intera tradizione morale dell’anima, in aggiunta alla teoria platonica della tripartizione dell’anima umana in tre diverse forme o parti (ἕκαστος): concupiscibile (ἐπιθυμητικόν), irascibile (Θυμοιτάδαι) e razionale (λογιστικός), la cui prevalenza di una tra esse in ciascuno corrisponde per Platone ad una specifica appartenenza di classe nella città ideale: la prima è caratteristica della classe dei lavoratori, la seconda dei guardiani, la terza dei filosofi-governanti.
La filosofia come cura dell’anima
La cura dell’anima è l’inizio e lo scopo della filosofia. Così come il medico cura i corpi, il compito di curare l’anima spetta al filosofo. Ma come il medico per poter svolgere il suo lavoro deve aver studiato e conoscere il corpo umano, allo stesso modo il medico dell’anima deve prima conoscere quest’ultima. Tuttavia, nonostante anche l’arte dei corpi consista nel saper conoscere le differenze tra le vite che gli capitano, il corpo biologico rimane lo stesso in tutti gli umani. Invece ogni anima in quanto unità personale dell’individuo risulta necessariamente eterogenea a seconda appunto delle persone. Fu Socrate lo scopritore dell’anima come sede della personalità morale, dell’intelligenza e della coscienza. E tra i suoi insegnamenti vi è quello per cui non ha alcun senso prendersi cura delle anime altrui se prima non si conosce la propria. Si tratta della grandiosa eredità lasciataci da Socrate, il quale fece dell’ordine impartito dall’Oracolo di Delfi, il «conosci te stesso (γνῶθι σεαυτόν)» lo scopo di tutta la sua vita[18], tanto da ritenere che una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta[19].
Non v’è infatti bene maggiore per l’uomo che questo: solo cercando di conoscere maggiormente sé stessi è possibile raggiungere la felicità, collegata alla consapevolezza della natura e del destino che a ciascuno spetta. Infatti, noi nasciamo su questa terra al grado zero di sapienza e commettiamo errori in quantità direttamente proporzionale al livello di saggezza posseduta. Ma soprattutto è il peggior male dell’uomo quello di pensare di avere sapienza, senza effettivamente averla. Ogni grande male, infatti, è tale in quanto v’è ignoranza delle cose, ma soprattutto di sé stessi: nessuno, infatti, peccherebbe spontaneamente se non in quanto non è consapevole del vero bene. È esattamente in vista di realizzare il maggior bene possibile che ciascun essere vive e nessuno potrebbe volere con coscienza il male per la propria anima.
La conoscenza dell’anima
Il Bene è il fine ultimo verso cui tutto tende. Ciascun animale lo persegue a seconda della propria natura e come osservava Pico della Mirandola nel De hominis dignitate: i pesci sanno che il loro scopo è quello di nuotare, gli uccelli quello di volare, mentre gli uomini nascono senza avere alcuna indicazione sul loro vero destino. Molto probabilmente, come Socrate suggeriva, lo scopo dell’essere umano è proprio quello di ricercare il suo fine, che è sempre una conoscenza di sé stessi. E per farlo deve riscoprire la sua origine. Non a caso Platone utilizza il termine anamnesi (ἀνάμνησις) per raccontare il procedimento ri-conoscitivo che l’anima affronta nella ricerca della conoscenza: «l’apprendere non è che un ricordare»[20]. Perché la conoscenza non è che un riconoscere come vero qualcosa; ma per poterlo fare è necessario aver già conosciuto in precedenza: chi non sa niente non sa nemmeno cosa cercare, mentre chi sa già non ha bisogno di cercare ciò che già possiede. L’uomo, quindi, può solo ricercare ciò di cui ha un ricordo sfocato o velato di qualcosa che aveva visto.
La vita, continua Platone, viene dalla morte, nella misura in cui la morte viene dalla vita e ciascuna cosa deriva dal suo contrario (ogni cosa possiede in potenza i contrari[21]): ciò che è caldo viene da un precedente più freddo; il “più grande” è tale in riferimento ad un “più piccolo” e così via. Se il processo vita-morte fosse univoco (il che lo è per la teoria dell’universo spazio-temporale entropico, che tuttavia non tiene conto di ulteriori realtà quantistiche o metafisiche) non sarebbe possibile la ri-nascita della vita e non avremmo, per esempio, nuovi fiori che sbocciano, ossia il ciclo ecologico. L’anima essendo immortale e connaturata alla vita – essendo di essa l’atto, che non ammette per non-contraddizione il suo contrario, ossia la morte in contemporanea alla vita – non può mai perire. Deve quindi avere un’origine precedente alla vita del mondo terreno.
Da ciò deriva la dottrina platonica delle Idee (εἶδος): tutto ciò che esiste, ed è possibile conoscere, altro non è che una manifestazione o copia meno perfetta di idee pure oltre la realtà sensibile. Tutto «è», metafisicamente parlando, perché partecipa dell’idea di Essere, che è l’idea pura di tutto ciò che è qualcosa, ed allo stesso tempo non essendo altre cose partecipa del Diverso. Inoltre, le cose partecipano del Simile e Dissimile: vedendo il campo di grano alla volpe torna in mente il colore dei capelli biondi del piccolo principe; analogamente ogni ente sensibile conosciuto rimanda al collegamento con idee pregresse o innate. Quindi, le Idee pure sono conferme dell’appartenenza dell’anima ad un altro regno: vedendo due gigli scorgo immediatamente l’uguaglianza tra essi e ciò senza che qualcuno mi insegni cosa l’uguaglianza sia. L’anamnesi ci ricorda la pura idea di Uguaglianza, che corrisponde all’ente più puro in termini di uguaglianza, come i punti della circonferenza. È interessante citare il filosofo cinese Mencio, quasi coevo a Platone, il quale affermò lo stesso identico concetto di anamnesi: «Lo scopo dell’apprendere non è altro che la ricerca del cuore che si è smarrito»[22].
La ricerca dell’anima condiziona – consapevolmente o no – l’interezza della vita umana, ma ancor di più il filosofo, ossia l’amante del sapere, che si appropria consapevolmente di tale scopo. Egli, infatti, desidera il Bene maggiore, che consiste nella Giustizia e la Sapienza, condizioni entrambe di ogni altro bene: perché nell’ingiustizia non v’è possibilità di pace e quindi di rapporti umani; né senza la sapienza o la ricerca di essa l’uomo pensa e agisce nel miglior modo e non può arrivare al bene. E una volta capito pur in modo parziale questo, una volta vista la luce che irradia al di fuori dell’oscurità, l’anima filosofica aspira a continuare la contemplazione della meraviglia (θαυμάζειν) di ciò che le è più simile, anche a costo di vivere «al servizio di un altro uomo senza ricchezze[23] [piuttosto che] ritornare ad avere quelle opinioni e vivere in quel modo».
Se quindi la vita filosofica dell’anima è un ritorno all’origine, si tratta di un ritorno di essa alla sua natura più piena. Come il mito della statua di Glauco le cui sembianze appaiono irriconoscibili dopo aver trascorso molti anni sul fondale del lago nel quale era affondata; ragion per cui, una volta ripescata, appare irriconoscibile, piena di alghe e corrosa dalle intemperie, e non aspetta altro che venire ripulita e riportata al suo antico splendore.
Desiderio, maieutica e amore
Il desiderio di immortalità che in un certo senso giustifica sia l’istinto di sopravvivenza che la ricerca di gloria e memoria di sé negli altri trova spiegazione in questo desiderio dell’anima di ricercare (sehnsucht) la propria patria (heimat) divina. L’uomo si rende immortale in questo mondo attraverso la pratica del partorire, che si divide in due specie: il parto biologico riproduttivo, quindi la continuazione del genere umano, oppure attraverso il parto dell’anima a cui Socrate collegava la filosofia in quanto arte ostetrica dell’anima (maieutica; μαιευτική). Molti uomini essendo gravidi nel corpo, lasciano l’immortalità di sé grazie alla continuazione della specie, mentre altri gravidi nell’anima figliano:
«La saggezza e le altre virtù, delle quali sono genitori tutti i poeti e quelli fra gli artefici che vengono chiamati inventori. Ma saggezza di gran lunga più grande e bellissima è quella che riguarda l’ordinamento delle Città e delle case, e si chiama temperanza e giustizia»[24]
L’uomo partecipa in questo senso a due forme d’amore (φιλία): quella per i corpi degli altri simili e quella per le anime che si sovrappone all’amore per la conoscenza (φιλοσοφία), ma entrambe sono due forme dello stesso amore per il Bello. Essa, come il corpo, partorisce in seno al bello (nessuno vuole generare il e mediante il brutto). Anche l’anima, quindi, nonostante sia ontologicamente immobile partecipa della ri-generazione: essa cambia idee, opinioni, pensieri. L’anima filosofica è amante e come ogni amante lo è di ciò che gli manca. Eros è figlio di Penìa (πενία) che vuol dire «penuria, mancanza» e di Poros (Πόρος) divinità difficilmente traducibile, reso spesso con la definizione di «espediente». Quindi, l’anima amante è colei che desidera senza avere; è figlia della mancanza, ma allo stesso tempo della divinità: è il ponte di mezzo tra i mortali e il divino, tra il niente e l’infinito. Per questo, l’amore è il Dio che unisce tutto, l’attitudine per cui ogni cosa si muove verso l’oggetto amato, desiderato; è «l’Amor che move il sole e l’altre stelle» o per dirlo con Tommaso d’Aquino:
«Il nome di spirito nelle cose corporee sembra significare un certo movimento o impulso giacché chiamiamo spirito il respiro ed il vento. Ma è proprio dell’Amore di muovere e di spingere la volontà dell’amante verso l’amato. E poiché la divina persona procede per via dell’Amore col quale Dio è convenientemente amato, essa si chiama Spirito Santo»[25]
Lo specchio dell’anima e la felicità
L’anima scorge non solo sé stessa contemplando, per quanto le è possibile, le idee migliori che più le somigliano: prima di tutto essa scova sé stessa specchiandosi con le altre anime che incontra. Perché l’anima è anche e soprattutto sentimento, che non significa emo-tività: l’anima è qualcosa che (si) sente, dà valore alle esperienze vissute, ai rapporti umani. Si è amanti veri quando si ama le anime, perché i corpi sfioriscono, ma ciò che rimane è l’essenza dell’amato, e ciò che è amato è eterno e sacro[26]. Simile al divino è chi scorge quell’ amore incomunicabile che è dato alle anime più autentiche. Come guardando negli occhi che ci fissano scorgiamo il riflesso della nostra sagoma (κόρη) racchiusa nel firmamento dell’iride (gli occhi specchio dell’anima)[27], l’anima specchia sé stessa guardando a ciò che è simile a lei (anime simili) e nella facoltà che le è più connaturata, quella intellettiva e della purezza di spirito:
«Ben somiglia alla divina natura questa parte dell’anima; e chi la contempla e conosce tutto ciò che è divino, Dio e l’Intelligenza, giunge a conoscere il più possibile anche sé stesso»[28]
Essa scorge meglio sé stessa nell’intelligenza e nelle anime pure. La via del «conosci te stesso» segue il rispecchiamento di sé negli altri che ci stanno vicini, è innanzitutto una norma sociale, è necessità della politica. Non si è davvero felici senza che la coscienza possa pensare felice anche il prossimo. L’amicizia è una manifestazione della φιλία (amore), è la conditio sine qua non della vera felicità e allo stesso tempo è la cartina di tornasole di quel summum bonum che si manifesta nella giustizia e nella sapienza. Non essendo Dio non può e non deve mai l’uomo oltrepassare, negare la sua natura, il suo limite (μέτρον), tentare quella tirannica tracotanza (ὕβϱις) di pensare di provare a raggiungere la trasfigurazione egoistica, superba verso lo scimmiottamento del D-Io, se non nella proporzione più umana possibile, per quanto è concesso all’anima. Inoltre è vero che la realizzazione più somma consiste in quella contemplazione del Bene vero, a cui tutti gli altri beni sono debitori, ma anche laddove nella propria vita si riesca ad uscire da tutte le falsità, a ripulirsi di tutto ciò che è ostacolo al meglio di noi stessi, riuscendo a scorgere finalmente la Bellezza finale e superiore, non cesserebbe l’impeto dell’animo senza che non si senta come desiderio umano il voler raccontare o condividere il bene con un amico o con qualcuno a cui teniamo affettuosamente. Una volta fuori dalla caverna, il vero filosofo non ha ancora raggiunto il suo fine, perché meglio sarebbe riuscire a realizzare quella felicità condivisa nel modo più vasto possibile. Impossibile essere veramente felici nell’ingiustizia o nella coscienza di essa, perché se la giustizia non è che un accordo tra le persone, senza di essa non può esservi alcuna amicizia, né con gli altri, né con sé stessi.
Di Matteo Parigi per ComeDonChisciotte.org
10.07.2023
NOTE
[1] https://comedonchisciotte.org/luomo-non-sara-dominato-dai-robot-lanima-esiste-ed-e-dimostrabile-parola-di-faggin-padre-della-rivoluzione-digitale/
[2] Aristotele, Metafisica 982a- 983b; 1069a 18-b 35.
[3] Per una spiegazione del metodo dialettico e mitologico nei dialoghi platonici v. G. Reale, Saggio introduttivo alla Repubblica di Platone, pp. 82-97, op.cit. in Platone, Repubblica, Bompiani 2019.
[4] Cfr. Platone, Sofista 247e 1-5; Aristotele, Metafisica 1017b 10-25.
[5] Aristotele, L’anima 412a.
[6] Cfr. T.Hobbes De Corpore XV, 2; B.Spinoza Etica, IV, 22.
[7] Vale la pena notare un interessante – e ironico se considerato alla luce di quanto detto sopra – riferimento biblico a riguardo: Genesi 2,7.
[8] Aristotele, L’anima, 416b 30-35.
[9] Ivi 413b 25-30.
[10] Ivi 424a 6-7.
[11] Ibidem. Un’altra importante distinzione dell’uomo spirituale è citata nella Bibbia, nella quale si distingue tra anima (ψυχή) e spirito (πνεῦμα).
[12] Aristotele, Metafisica, 1071b-1073a 14.
[13] Aristotele, L’anima, 406b 25.
[14] Ivi 429a 14-17.
[15] Platone, Repubblica 609c-d; 611a.
[16] Aristotele, Metafisica 1046a 28-30
[17] Luca 11, 14-19.
[18] Platone, Apologia di Socrate 33c.
[19] Ivi 37a-38c
[20] Platone, Fedone 72e-78b.
[21] Aristotele, Metafisica 1050b 9-10.
[22] Tratto dagli scritti di Confucio su Mengzi (孟子).
[23] Platone, Repubblica 516d; citazione tratta dall’Odissea di Omero, XII, 489.
[24] Platone, Simposio 209a.
[25] Tommaso d’Aquino, Summa Theologia I q36.
[26] Platone, Eutifrone 10a-e.
[27] Platone, Alcibiade primo 132d-133a.
[28] Ivi 133c.