Dov’è finita la filosofia italiana?

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Ma che fine ha fatto la filosofia italiana? A dirlo sembra di evocare un doppio fantasma: la filosofia, che va sparendo dall’occidente in cui nacque, e il pensiero italiano, giacché si è stabilito che la filosofia non ha patria né terra o confini, dunque non può avere legami col pensiero nazionale. Eppure ancora nel secondo novecento si parlava di filosofia italiana. Eugenio Garin scriveva le cronache della filosofia italiana, Michele Federico Sciacca dedicava corposi volumi alla filosofia italiana, Augusto del Noce ne rilevava le linee originali che ne facevano un laboratorio mondiale e Norberto Bobbio scriveva il suo Profilo ideologico del Novecento italiano (a cui feci il controcanto, ne La rivoluzione conservatrice in Italia in tema di Ideologia italiana). Se ne occuparono Pietro Rossi e Augusto Viano che scrisse un pamphlet, Va’ pensiero sul carattere della filosofia italiana e Jader Jacobelli raccolse i pensatori nostrani in un volume, Dove va la filosofia italiana. L’ultimo ad occuparsene è stato Roberto Esposito in un prezioso saggio, Il pensiero vivente (espressione mazziniana), sull’origine e l’attualità della filosofia italiana, scritto da un autore tutt’altro che nazional-conservatore. Poi il tema è sparito. Eppure il filo rosso del pensiero italiano, con la sua peculiare originalità passava da Dante a Machiavelli, da Marsilio Ficino a Tommaso Campanella e Giordano Bruno, da Vico a Rosmini, Mazzini e Gioberti, da Benedetto Croce e Giovanni Gentile, fino ad Antonio Gramsci e le riviste fiorentine di Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini col loro idealismo pragmatico e militante.

L’unica volta in cui conversai con Giorgio Napolitano fu al Vittoriano, in occasione della mostra da lui inaugurata e da me ideata sulle radici dell’identità nazionale per i 150 anni della nascita dello Stato italiano. Gli mostrai la prima edizione del De antiquissima italorum sapientia di Giambattista Vico e gli dissi che per il suo conterraneo napoletano Vico, la sapienza italica era addirittura più antica del pensiero greco, sorgeva in quella che sarebbe stata la Magna Grecia, da Pitagora a Parmenide, dalla scuola italica alla scuola eleatica. Era in quell’opera del primo settecento la matrice antica del pensiero italiano.

Dire filosofia italiana significa fare i conti con i dioscuri del pensiero italiano, Croce e Gentile, i due filosofi amici e poi rivali che si contesero la guida del pensiero italiano; l’uno da ministro della pubblica istruzione e da fondatore dell’Enciclopedia Treccani e l’altro (anch’egli brevemente ministro della scuola) da papa laico della cultura italiana, come lo battezzò Gramsci. Croce si occupava di filosofia italiana ma con un occhio alla filosofia europea, sulla scia del pensiero del suo pro-zio, Bertrando Spaventa. Gentile, invece, era proteso a dimostrare una linea originale italiana, sulla scia del primato morale e civile italiano di Gioberti. E’ significativo sottolineare la divaricazione netta tra Croce e Gentile sul tema filosofico italiano, a proposito di quattro autori: Dante, Vico, Leopardi e perfino Marx. Per Gentile Dante era stato un pensatore prima che un poeta, mentre per Croce era solo un poeta, un letterato. E la stessa divergenza si ripetè su Leopardi che Gentile, come poi Emanuele Severino, considerò filosofo. Vico per Croce era poi il fondatore dello storicismo, ovvero del pensiero storico, mentre per Gentile Vico era un filosofo platonico e neoplatonico.

Così Gentile considerava Marx un filosofo e così lo confutava (es. nel suo saggio giovanile La filosofia di Marx). Croce invece riteneva che il contributo di Marx fosse stato nel pensiero politico ed economico. Per dirla in breve, e schematizzando, Croce separava gli ambiti, coerente con la sua filosofia dei distinti; Gentile invece era filosofo dell’identità e coglieva l’unità dell’agire e del pensare, anche tramite il poetare. Da ciò discendevano conseguenze opposte. A loro si abbevera, pur criticandoli, Gramsci: il debito verso Croce è palese, ed è una rilettura critica e ideologica delle sue opere e le sue scoperte sul piano storico-letterario-filosofico. Più nascosto ma più profondo è il debito di Gramsci verso Gentile, indagato acutamente da Del Noce: è un legame all’insegna del comune interventismo culturale, del nesso mazziniano tra pensiero e azione che rivive nell’attualismo di Gentile come nella filosofia della prassi di Gramsci; un ripensamento nazional-popolare del pensiero italiano e del progetto di un’egemonia culturale che Gramsci trae da Lenin ma in Italia ha l’esempio della politica culturale di Gentile e di Bottai nel regime fascista. Anche il suo internazionalismo comunista ricerca una via nazionale che ha come sottinteso la linea filosofica italiana.

Il richiamo al pensiero nazionale perdura malconcio dopo la seconda guerra mondiale, resiste nel tempo in cui la cultura italiana si scopre gramsciana, e tende via via a sparire dopo gli anni ottanta, man mano che l’americanizzazione assume le vesti della globalizzazione, e le filosofie analitiche, individualiste e scientiste di provenienza atlantica assumono l’egemonia; si spengono intanto gli ultimi sussulti d’interesse per la memoria storica, per il pensiero filosofico, la visione spiritualista che fu tenace filo sommerso della tradizione filosofica italiana. Alla fine l’idea stessa di nazione cede il posto all’unione europea e al dominio della tecnoscienza.
Eppure il formarsi dell’umanesimo e del rinascimento, della modernità e del risorgimento, dell’unificazione nazionale e della cultura allargata tramite le scuole, al popolo italiano, è avvenuto all’ombra del pensiero italiano e dei suoi protagonisti prima citati.
Curioso infine pensare che al pensiero italiano e alla nostra tradizione culturale, da Dante a Vico, mi abbiano chiesto di dedicare una conversazione a San Marino. Quasi a rimarcare l’extra territorialità del pensiero italiano, anche con un governo nazional-sovranista… Naturalmente, è solo un piccolo e irrilevante caso, però ha il sapore beffardo del paradosso.

La Verità – 4 ottobre 2023

Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone.
Proviene da studi filosofici. Ha fondato e diretto riviste tra cui L’Italia Settimanale e Lo Stato. Ha scritto su vari quotidiani e settimanali: dal Corriere della Sera a La Repubblica,  La Stampa, Libero, Il Messaggero, Panorama. Ha scritto a lungo su Il Giornale, chiamato da Montanelli e poi da Feltri, dove ha tenuto per anni la rubrica in prima pagina Cucù. È commentatore della Rai.

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