La spiaggia di Mykonos

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di Stefano Vespo
comedonchisciotte.org

“Gioventù giammai vissuta,
chi a sognarti tornerebbe”
Machado

Un’immagine riecheggia da qualche giorno sulle pagine di alcune riviste scolastiche. La fotografia ritrae un gruppo di ragazzi seduti intorno al tavolo di un bar all’aperto. Gli articoli spiegano, tutti con uguale entusiasmo per il loro senso di responsabilità, che si tratta di studenti di una quinta classe, i quali, per realizzare il sogno di andare insieme in gita a Mykonos dopo gli esami di maturità, hanno deciso di vaccinarsi tutti. Anche i titubanti, spiegano i giornalisti, alla fine hanno ceduto, spinti da senso pratico. Segue una foto della spiaggia agognata, che ha già il sapore del ricordo incancellabile e mitico del primo viaggio compiuto da adulti, del primo passo in un mondo nel quale i ragazzi scopriranno se stessi, della malinconia e del brivido di trovarsi per la prima volta da soli a dover decidere della propria vita.

Non occorre che io esponga nessuna premessa: sia per chi è favorevole sia per chi è contrario alla vaccinazione di massa dei giovani, è evidente l’assurdità del messaggio dell’articolo. Ma ancora più evidente dovrebbe essere l’irrazionalità del comportamento collettivo di tutti i ragazzi italiani, sul quale il messaggio è stato costruito e sul quale si giustifica. Quei ragazzi, che vediamo correre ad ammassarsi nei centri vaccinali. Assurdo, perché non è affatto la paura della Sars cov 2 che li spinge, o il desiderio di sfuggire al pericolo di ammalarsi: nessuno di loro si vaccina per proteggere la propria salute. Del resto, hanno ragione: il virus li ha quasi ignorati. Li guida invece un desiderio del tutto uguale a quello evocato dalla fotografia della spiaggia di Mykonos. Un desiderio che, gli ripetono ogni giorno giornalisti e scienziati, si può realizzare solo dopo la vaccinazione.

Lo sconcerto di fronte a questo comportamento collettivo è un sentimento ormai appena percepibile per i più: ci siamo ridotti a doverlo rintracciare in noi stessi, a dovercelo ricostruire, tanto ovvio e naturale comincia ad apparire l’atteggiamento dei ragazzi; al punto che l’informazione stessa lo mostra apertamente come un fatto positivo, un atteggiamento encomiabile.

Sconcerto, senso di scandalo. Sentimenti che si possono vivere solo dopo aver constatato che tutta l’irrazionalità, tutto il primitivismo che emerge da esso con una franchezza e chiarezza spudorate, è la stessa irrazionalità, lo stesso arcaismo, che caratterizza la condizione psicologica di tutti noi.

Dal momento che non è la paura della morte causata dal virus che condiziona i giovani, ci dev’essere qualcosa che essi considerano più importante della loro stessa vita. Si tratta infatti di un altro tipo di morte: la morte sociale. Il pensiero stesso di non potere accedere alle discoteche, di non poter salire su voli diretti verso fantastiche destinazioni, di dover guardare da lontano, e rimasti da soli, gli amici, i compagni felici che invece possono fare tutto questo, li sgomenta, li atterrisce. Si sentirebbero annientati interiormente se ciò dovesse accadere. Il bisogno di far parte del gruppo viene prima di ogni altra cosa; anche della stessa vita. Tanto più in un clima sociale in cui il bisogno di sentirsi parte di una massa, di costituire una massa, è fortissimo. Così come la paura di sentirsene esclusi, radiati, per non condividere gli stessi rituali, gli stessi dogmi.

Se il pericolo costituito dal virus non li tocca, dovrebbe toccarli invece il pericolo costituito dalla vaccinazione. Da recenti statistiche il vaccino sembra causare tra i giovani molte più vittime di quanto ne abbia finora causato il virus stesso. Bisogna però pensare che il rapporto con la morte ha per i giovani degli aspetti molto particolari. È come se l’esperienza del rischio, del pericolo mortale, e del suo superamento, costituissero ancora oggi un necessario rito di passaggio verso l’età adulta. Tutti i riti di passaggio in tal senso sono stati rischiosi, in ogni cultura e in ogni tempo. La coscienza di aver affrontato un passo mortale spezza dentro la psiche dei giovani la membrana dell’infanzia e li sbalza fuori, verso il mondo adulto; un mondo che hanno adesso il pieno diritto di occupare, dal momento che è stato l’aver affrontato la morte che li ha resi meritevoli di accedervi, forse con più legittimità degli adulti stessi.

Ma la strada che percorriamo verso la comprensione del loro gesto collettivo, e verso lo scandalo che dovrebbe costituire per tutti noi, conduce ancora più in profondità, verso due grandi archetipi che nei secoli le ricorrenti epidemie di peste hanno radicato nella psicologia collettiva. J. Delumeau nei suoi studi dedicati a quei flagelli collettivi tra Medioevo e età Moderna, ha messo in luce come su di essi la Chiesa abbia costruito la propria particolare narrazione teologica e politica, facendo penetrare la paura e la colpa nella mentalità collettiva: la malattia veniva letta come punizione per i peccati e il singolo credente, atterrito dalle immagini di dannazione eterna evocate dai predicatori, era spinto alle continue espiazioni e penitenze. La Chiesa diveniva così il tramite per accedere alla speranza della salvazione, diveniva l’assoluta dominatrice delle anime dei credenti. I due pilastri di questa imponente struttura sono la colpevolizzazione e la speranza. Concetti che, anche se scissi dai presupposti teologici che li giustificavano, anche se sfigurati dalla laicità del nostro tempo, riemergono dal fondo della psiche collettiva, attraverso l’opera di consapevoli artigiani dell’immaginario capaci di risvegliarli. Per mesi e mesi giovani e adolescenti sono stati additati come gli irresponsabili veicoli di contagio, gli untori inconsapevoli, causa della sofferenza e della morte di numerosi anziani. Tutto questo, contro ogni evidenza scientifica, dal momento che i numerosi tamponi di massa a cui gli studenti si sono sottoposti periodicamente hanno riportato numeri bassissimi di contagiati. Ma la loro fragile personalità adesso desidera ardentemente di liberarsi da questo stigma, da questa colpa. Eccoli così correre verso il nuovo rito penitenziale imposto da una nuova chiesa laica, molto più brutale e cieca. Lo scopo è sempre moralistico, nulla ha di scientifico: mostrarsi sensibili e altruisti, per proteggere gli adulti, gli anziani, verso i quali si sentono costantemente colpevoli. A nulla vale far notare che gli stessi adulti e anziani sono vaccinati, quindi protetti essi stessi dal contagio.

E la speranza? La privazione della libertà nel corso dei continui confinamenti ha pesato soprattutto su di loro, costretti a rinunciare alla scuola, per loro il luogo di socializzazione più importante, il luogo di costruzione di altri legami al di fuori della famiglia. È naturale che la speranza della libertà agisca su di loro con una forza irresistibile. Il miraggio pubblicitario della spiaggia di Mykonos: ma cosa troveranno su quella spiaggia se non la consapevolezza di essere più schiavi di prima. Si renderanno conto che avranno dovuto pagare un biglietto per quella libertà. Ma una libertà che esige un prezzo non è libertà: è una forma più raffinata di asservimento. Il premio per lo schiavo che si è ben comportato.

Altri arcaismi, altri tratti di barbarie. Le torme di ragazzi robusti e perfettamente sani, che corrono nonostante tutto a inocularsi un farmaco, hanno qualcosa di paradossale. Ma è l’esempio più chiaro di come oggi percepiamo il nostro rapporto con la scienza e con la salute. La medicina non si rifà più all’equilibrio naturale come a un modello per definire lo stato di salute. La natura, le risorse degli organismi, sono guardate con diffidenza. Non assicurano la vera salute. È invece il farmaco che ci dà la certezza scientifica di essere sani. È il farmaco che, potenziando l’organismo, instaura la vera salute. Ma si tratta di un’illusione: la realtà è invece una condizione di dipendenza, peggio, di completa ignoranza scientifica. Ortega y Gasset nel saggio Primitivismo e tecnica denuncia questo aspetto paradossale dell’uomo-massa: la cieca fiducia nella tecnologia e la totale ignoranza dei procedimenti della scienza e del suo faticoso, fragile procedere. Una fiducia che non fa che pretendere da essa benessere e comodità, che dà per scontati i suoi benefici e non sospetta che della tecnica si possa fare uno strumento di asservimento, di controllo. Che il grande albero della scienza, come si esprime Debord, possa essere abbattuto e sfrondato per farne un manganello. Una dipendenza dalla tecnica, verso la quale abbiamo lo stesso atteggiamento di incosciente fiducia del bambino verso l’onnipotenza e l’infallibilità insondabile dei genitori.

Ecco lo scandalo. Nell’immagine di quei ragazzi carichi di speranza ed entusiasmo emergono, cresciuti a dismisura, i nostri stessi errori. Gli errori accumulati lungo tutto un secolo caratterizzato dall’affermarsi della società di massa. Gli errori che i nostri figli, come sempre hanno fatto i figli in ogni generazione, portano all’eccesso, con ferrea consequenzialità, sbattendoli in faccia a noi, i loro sconfortati genitori.

Stefano Vespo
Pubblicato da Tommesh per Comedonchisciotte.org

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