Fulvio Scaglione
Comedonchisciotte.org
La guerra tra Azerbaigian e Armenia per il controllo del Nagorno Karabakh gode di poca attenzione dalle nostre parti. Ed è un errore, perché dietro questo conflitto si nascondono temi che stiamo rimuovendo e che, al contrario, dovremmo affrontare. Chi volesse andare alle origini del conflitto dovrebbe risalire almeno al 1921, quando per volere del già potente Stalin la provincia, allora popolata al 98% da armeni, venne assegnata alla giurisdizione della Repubblica dell’Azerbaigian. Uno dei tanti assurdi compiuti in nome del “divide et impera” così caro al futuro dittatore.
Un assurdo, però, che gli armeni non hanno mai accettato. Tanto che settant’anni dopo, nel 1991, al momento della dissoluzione dell’Urss, sono stati pronti a rovesciare la situazione, dichiarando l’indipendenza del Nagorno Karabakh (il Giardino nero sulle montagne, se volessimo tentare una traduzione) e affrontando poi una guerra con l’Azerbaigian che fece 30 mila morti e centinaia di migliaia di sfollati e rifugiati prima del cessate il fuoco firmato nel 1994. L’Artsakh (appunto la Repubblica autonoma così nata) è stata riconosciuta solo dall’Armenia e da allora non sono mai mancate scaramucce e fiammate di guerra. Come nel 2016, con 110 morti. Mai, però, si era arrivati a una mobilitazione totale come in questi giorni.
Come si diceva, dietro questo rigurgito bellico si possono leggere tante cose. L’ambizione neo-ottomana della Turchia, aggressiva su tutti i fronti (dalla Libia al Mediterraneo Orientale al Caucaso) e da sempre desiderosa, attraverso l’alleanza strategica con l’Azerbaigian, di giocare un ruolo negli equilibri del Caucaso e dell’Asia Centrale. La prudenza della Russia, la cui mediazione è comunque stata decisiva per arrivare agli accordi che nel 1994 e nel 2016 hanno interrotto i combattimenti. Il Cremlino ha rapporti più stretti con la cristiana Armenia, che ospita una base militare russa e che, senza le armi russe, sarebbe facilmente sopraffatta dal più ricco Azerbaigian. Mosca, però, non ha interrotto i rapporti con il musulmano Azerbaigian, con cui intrattiene interessanti scambi commerciali. Anche in queste ore Vladimir Putin evita di schierarsi e, al contrario, si propone come un possibile pacificatore.
Se l’Occidente fosse meno ipocrita, infine, prenderebbe le parti dell’Armenia. Europa e Usa non sono forse paladini della democrazia e della libertà? Allora non ci possono essere dubbi: l’Armenia è un Paese democratico che, tra l’altro, nel 2018 ha vissuto una “rivoluzione di velluto” che ha portato al potere Nikol Pashinyan, l’attuale primo ministro che si è detto “pronto a morire” piuttosto che cedere all’Azerbaigian. Il quale, al contrario dell’Armenia, non è una democrazia ma un possedimento di stampo feudale della famiglia Aliev, arrivata al potere nel 1993 con Heidar Aliev (già capo del Kgb della Repubblica sovietica) e tuttora in sella con Ilham, figlio di Heidar, giunto al quarto mandato presidenziale. Il corollario è quello solito: oppositori in carcere, grande ricchezze da petrolio e gas, copertura politica da parte degli Usa che cercano da anni di imporre l’Azerbaigian come fornitore per l’Europa alternativo alla Russia.
A costo di sembrare un pò strambi, però, pensiamo che tutto questo sia il meno. Ciò a cui dovremmo sul serio badare, invece, è che la fine dell’Unione Sovietica non finisce mai. Si sa, Vladimir Putin l’ha definita “… la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo: un dramma per decine di milioni di connazionali abbandonati fuori dai confini della Russia”. E molti hanno pensato che il vecchio agente del Kgb mostrasse così tutta la sua nostalgia per il vecchio regime. Può anche darsi che a Vova spunti la lacrimuccia quando pensa ai cari vecchi tempi. Ma se ci guardiamo intorno, scopriamo che il suo ragionamento qualche buona ragione ce l’ha.
Il fatto è che l’Urss continua a finire anche ai nostri giorni. Quanto è successo in Ucraina dal 2014 in poi non può essere considerato un capitolo della fine dell’Urss? Dopo tutto, la Crimea, “regalata” da Krusciov all’Ucraina nel 1954, non è che un Nagorno Karabakh più tardo. E il Donbass popolato in grande maggioranza di russi etnici, con tutte le conseguenze del caso tra cui la spaccatura in due della Repubblica prima e del Paese poi, è solo uno dei tanti esempi dell’imperialismo grande russo che caratterizzò i decenni del potere sovietico e che tanto contribuì a tracciare linee di faglia decisive per i successivi terremoti.
Per non parlare della Bielorussia, da decenni divisa tra desiderio di autonomia e dipendenza economica dalla Russia, fino alla tentazione latente di ri-confluire in una specie di federazione. Un Paese dove i bielorussi etnici sono grande maggioranza ma dove il russo è parlato ovunque e volentieri. Una nazione che ha costruito un modello sociale particolare e, fino a qualche tempo fa, di successo usando come elemento di coesione il passato sovietico e il mito della Grande Guerra Patriottica.
Nel quadro andrebbero inseriti anche il neo-protagonismo dei Paesi Baltici e, all’opposto, la conservazione all’ombra di satrapie di stampo orientale calata sulle ex-Repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale. Nell’uno come nell’altro caso, un evidente ritorno ai modi e alle abitudini che il bolscevismo e l’imperialismo grande-russo credevano di aver cancellato. E con loro la Transdnistria, l’Ossetia del Sud, l’Abkhazia con le relative tensioni tra Russia e Georgia, sfociate nella mini-guerra del 2008.
È questo il quadro, assai più ampio di quello del conflitto tra Armenia e Azerbaigian, che dovremmo tenere sotto osservazione. Un quadro che è già passato per guerre sanguinosissime (due nella sola Cecenia, per fare un esempio), rivoluzioni sociali drammatiche e di cui fa parte, a voler ben vedere, anche il ritiro sovietico dall’Afghanistan. L’analisi ilare e superficiale di cui l’Occidente si è finora contentato (fine del socialismo reale, vittoria della democrazia liberale) è stata ed è del tutto insufficiente rispetto a un fenomeno tanto complesso da coinvolgere centinaia di milioni di persone e decine di popoli. Ed è stata l’ottusità dei vincitori a impedirci di capire le radici profonde di certe crisi (Ucraina e Bielorussia comprese) e di certi nazionalismi.
Fulvio Scaglione