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DI WILLIAM BLUM
Killing hope

Raccomando il nuovo documentario su Ralph Nader recentemente trasmesso sul canale televisivo PBS, “An Unreasonable Man”. Si focalizza in primo luogo sugli argomenti sostenuti da Nader per giustificare la sua candidature alle elezioni presidenziali nel 2000 e nel 2004 malgrado il danno che avrebbe arrecato ai candidati del partito democratico. Come ho scritto in precedenza: la scelta che aveva di fronte gente come me non era Ralph Nader o Albert Gore o John Kerry. La scelta per noi era Ralph Nader o non votare per niente. Se Nader non fosse stato sulla scheda saremmo rimasti a casa. È così semplice. Il documentario mostra lo spezzone di un telegiornale subito dopo le elezioni del 2000 in cui le star dei conduttori Katie Couric e Tom Brokaw stanno discutendo questa stessa questione, e con mia grande sorpresa arrivano entrambi alla mia stessa conclusione – Nader non è affatto costato molti voti ai democratici. Se non fosse stato in lizza, la gran massa dei suoi sostenitori NON avrebbe votato democratico.

Questo sfugge ai critici di Nader, come i due ospitati nel documentario, l’editorialista della rivista Nation, Eric Alterman, e l’autore e icona degli anni ‘60 Todd Gitlin. La NASA dovrebbe tenerli d’occhio – pronunciate solo “Ralph Nader” e vanno in orbita. Si abbandonano a un’orgia di insulti, chiamando Nader un egomaniaco, irrazionale… “purezza prefabbricata”… “al limite della malvagità”… responsabile della Guerra in Iraq e della distruzione dell’ambiente… Non mettono in discussione nulla di concreto fra le opinioni di Nader o dei suoi sostenitori. Non sono per niente impressionati da quello che trovo più eccitante – il fenomeno unico di una celebre personalità politica pubblica che assume costantemente posizioni di principio.
I critici di Nader non riescono ad ammettere che in tutto questo c’entrino i principi, per paura di rivelare la propria mancanza di una tale qualità, mentre si aggrappano a difendere l’indifendibile – l’idea che il partito democratico sia una forza per il cambiamento anche solo liberale, lasciamo stare progressista.

Il documentario dà spazio anche ad altri critici di Nader, fra questi Michael Moore, che ammiro più di gente come Alterman o Gitlin. Tuttavia fa vedere Moore che durante la campagna del 2000 parla a favore di Nader, dicendo all’uditorio di non aver paura di votare secondo coscienza; lo mostra poi nel 2004 che si prende gioco di chi vota secondo la propria coscienza – sì, l’ipocrisia è così sfacciata. Certo che Moore è uno strano animale politico. Fino a non molto tempo fa l’autore di “Fahrenheit 911” e “Sicko” era un appassionatissimo sostenitore di Hillary Clinton (ammettendo perfino un’infatuazione sessuale per lei), e ha appoggiato la candidatura alla presidenza del generale Wesley Clark, un vero criminale di guerra per il suo spietato bombardamento durato 78 giorni sulla Yugoslavia.

I difensori dei democratici ora chiedono: “Al Gore avrebbe invaso l’Iraq?” Forse no. Invece avrebbe potuto invadere l’Iran; sembra che quella fosse la prima scelta di Israele e della sua lobby americana. Ricordate che l’amministrazione Clinton-Gore impose al popolo iracheno otto anni di crudeli e inutili sanzioni, bombardandolo simultaneamente centinaia di volte, al costo della vita di più di un milione di persone, rovinando le vite di altri milioni. Al Gore aveva già invaso l’Iraq.

È una storia vecchia e dolorosa. Ideologicamente non ci si può fidare dei democratici, nemmeno che siano coerentemente liberali, e certamente non progressisti o radicali, per quanto vogliamo poterci fidare di loro, per quanto possano essere terribili i repubblicani. Nel 1968 il senatore democratico del Minnesota Eugene McCarthy era il beniamino della sinistra. Alle primarie democratiche per la presidenza si candidò con una piattaforma contro la guerra del Vietnam che entusiasmò un’intera generazione di giovani. La storia dice che colombe e hippy si tagliavano i capelli, si vestivano come americani per bene e rinunciavano alle canne, tutto per essere “puliti per Gene” e lavorare per la sua campagna. Eppure nel 1980 Gene McCarthy si espresse a favore di Ronald Reagan contro Jimmy Carter.[1]

Nella maggior parte dei casi è la politica estera che separa i liberali da chi è più a sinistra. Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale uno dei liberali americani più rispettati era il senatore Hubert Humphrey. Ma allo stesso tempo era un fanatico anticomunista. Nel 1954 introdusse un progetto di legge per rendere illegale il partito comunista perché era “una cospirazione illegale per rovesciare il governo degli Stati Uniti con la forza e la violenza e non un partito politico legittimo.” Quando nel 1965 divenne vicepresidente di Lyndon Johnson appoggiò la Guerra del Vietnam. Due anni più tardi fu spinto a dichiarare realmente alle truppe americane in Vietnam: “Credo che il Vietnam sarà ricordato come il luogo in cui la famiglia dell’uomo ha guadagnato il tempo che le serviva per passare finalmente a una nuova era di speranza e sviluppo umano e giustizia. Questa è la possibilità che abbiamo. Questa è la nostra grande avventura – ed è un’avventura meravigliosa.”[2]

Fu l’amministrazione del liberale Jimmy Carter a istigare l’intervento sovietico in Afghanistan nel 1979, portando al ruolo decisivo di Washington nel rovesciamento di un governo che, rispetto a quello che lo sostituì, era estremamente progressista.[3] Fu sempre Carter a dare all’Iraq l’OK all’invasione dell’Iran nel 1980, con conseguenze terribili per i due paesi.[4]

No, non so cosa dovremmo fare con i nostri leader. Il processo elettorale americano che in questo preciso momento stiamo tutti subendo, che sembra andare avanti non-stop per sempre, è pieno di continue grida dei principali candidati su qualche sorta di “cambiamento”. Qualunque cosa significhi? Non significa niente. E i media trattano tutto ciò come qualche sorta di corsa di cavalli, uno sport da spettatori. C’è al mondo qualche sistema elettorale mancante di discussione intellettuale, disperatamente corrotto dal denaro, e antidemocratico quanto quello di cui siamo dotati? In che altro posto al mondo il candidato con più voti non necessariamente è il vincitore? Se potessimo intervistare ciascun elettore americano per determinare esattamente perché ha votato per un particolare candidato, rispetto a quelli che sono i fatti reali relativi a tale candidato, e se i risultati venissero ampiamente pubblicizzati, sarebbe un tale imbarazzo nazionale che le prossime elezioni potrebbero essere sospese. Che altro significa vincere un’elezione se non che la campagna vendite ha avuto successo? Un’asta aperta per la presidenza sarebbe più efficiente, e più onesta.

Un’altra storia di un liberale

Gilbert Harrison, ex direttore ed editore dell’influente rivista di Washington The New Republic, ha lasciato questo mondo il 3 gennaio. Non l’ho mai conosciuto di persona, ma nel 1975, quando vivevo a Londra, presentai alla rivista una recensione dell’ultimo libro dell’ex agente della CIA Philip Agee, “Inside the Company: CIA Diary” [ed. italiana “Agente della CIA, Editori riuniti, 1975]. Il libro era sensazionale, fornendo più dettagli sulle operazioni segrete della CIA in America latina di ogni altro libro mai scritto, e rivelando i nomi di centinaia di funzionari, agenti e organizzazioni di facciata dell’agenzia. Il libro non era ancora uscito negli Stati Uniti e The New Republic era contenta di avere quella che sarebbe stata una delle prime recensioni. A quell’epoca la rivista era ancora saldamente nel campo liberale. Alla fine il mio curriculum avrebbe elencato qualcosa di diverso dalla stampa alternativa.

Un paio di settimane più tardi mi arrivò un’altra lettera dalla redattrice letteraria della rivista. Era spiacente di informarmi che il redattore capo, Gilbert Harrison, all’ultimo momento aveva messo il veto alla pubblicazione della mia recensione. L’articolo mi fu restituito, già redatto per la pubblicazione, perfino con sopra la data del numero. Alcuni anni più tardi finii per capire che Harrison era un tipico liberale anticomunista da Guerra fredda – per quanto progressiste le loro opinioni riguardo all’individuo e alla società, i presupposti, i principi e gli obiettivi fondamentali della politica estera americana erano sacrosanti. Nel 1961 The New Republic ottenne una descrizione completa dei preparativi della CIA per l’imminente invasione di Cuba. Harrison era amico del presidente Kennedy e sottopose debitamente alla Casa Bianca l’articolo in progetto per avere consigli. Qui abbiamo così un caso in cui gli Stati Uniti stanno per iniziare quello che a Norimberga il Tribunale militare internazionale chiamò “una guerra di aggressione […] non solo un crimine internazionale, è il crimine internazionale supremo.” E un giornalista americano non sapeva se doveva rivelarlo. Quando Kennedy chiese che la storia non venisse stampata, Harrison ubbidì.[5] La storia, se fosse stata pubblicata, avrebbe potuto portare alla cancellazione dell’invasione, e così a salvare qualche migliaio di vite dalle due parti.

Ironicamente, e tristemente, solo quattro giorni dopo la morte di Harrison è morto Philip Agee. Eravamo amici da quando lo avevo conosciuto in Inghilterra nel 1975, poco dopo l’uscita del suo libro. Phil era veramente un eroe. Abbandonò la sua carriera, la sua sicurezza finanziaria, una vita familiare normale e la sua stessa sicurezza personale per lavorare contro la CIA in un paese dopo l’altro, tutti minacciati dall’agenzia – Cuba, Giamaica, Grenada, Cile, Nicaragua, Venezuela. La CIA revocò il suo passaporto americano, diffuse ogni sorta di false storie su di lui (come che era sul libro paga del KGB), e lo braccò in Europa, facendolo espellere dal Regno Unito, dai Paesi Bassi, dall’Italia e dal altri paesi. L’agenzia lo tenne sotto sorveglianza per buona parte del resto della sua vita. La tensione estrema che questo gli causò potrebbe benissimo aver contribuito all’ulcera perforata che lo ha portato alla morte.
The CIA era, ed è ancora, una forza dedita a cose spaventose. Cosa poteva fare un uomo idealista e dotato di principi, con tanta conoscenza interna dei meccanismi dell’agenzia, se non dedicare la sua vita a combattere una forza del genere?

Oh, a proposito, in realtà gli iracheni non ci vogliono

L’avete mancata questa? Sarebbe dovuta essere la prima storia in ogni quotidiano e giornale radio e telegiornale d’America. Nel Washington Post era a pagina 14. Praticamente in tutti gli altri media era a pagina zero, canale zero, 0000 AM o 00.0 FM.
I militari USA in Iraq hanno incaricato alcune ditte di condurre focus group fra uno spaccato della popolazione. Il Post ha ottenuto un rapporto sommario sui risultati. Ecco alcuni dei punti salienti del rapporto come rivelato dal giornale:
− Fino all’occupazione americana del marzo 2003 sunniti e sciiti coesistevano pacificamente.
− Gli iracheni di tutti i gruppi confessionali ed etnici credono che l’invasione militare USA sia la radice primaria dei violenti disaccordi fra di loro.
− Dopo che gli Stati Uniti lasceranno l’Iraq la riconciliazione nazionale avverrà “naturalmente”.
− Un senso di “possibilità ottimistica permea tutti i focus groups […] e fra questi gruppi di iracheni apparentemente diversi si trovano molti più punti in comune che differenze.”
− Dividere l’Iraq in tre stati ostacolarebbe la riconciliazione nazionale. (Solo i curdi non rifiutano questa opzione.)
− La maggior parte descriverebbe gli elementi negativi della vita in Iraq come iniziati con l’occupazione americana.

Pochi hanno menzionato Saddam Hussein come una causa dei loro problemi, cosa che il rapporto ha descritto come un risultato importante, implicante che “l’attuale lotta in Iraq sembra aver totalmente eclissato qualsiasi strazio o motivo di risentimento che molti iracheni avrebbero avuto dal passato regime, che è durato quasi quattro decenni – rispetto al conflitto attuale, che dura da cinque anni.”
Il Washington Post ha aggiunto questa nota: “Oltre ai militari, alcuni dei sondaggi più estesi in Iraq sono stati condotti dalla D3 Systems, una società con sede in Virginia che mantiene uffici in ciascuna delle 18 province irachene. I suoi più recenti studi pubblicati, condotti in settembre per diverse organizzazioni giornalistiche, hanno mostrato la stessa diffusa convinzione irachena a cui i focus group dei militari hanno dato voce: che un ritiro degli USA migliorerebbe le cose. Nel settembre 2006 un sondaggio del Dipartimento di Stato ha registrato un risultato analogo.”[6]

Ultime notizie: gli USA hanno scoperto il modo perfetto di contrastare opinioni così sciocche del popolo iracheno. Il 10 gennaio l’Associated Press ha riferito: “Giovedì bombardieri e aviogetti da caccia USA hanno sganciato in 10 minuti 40.000 libbre [quasi 20 tonnellate, ndt] di esplosivi sulla periferia meridionale Baghdad in uno dei più grandi attacchi aerei della guerra, spianando quelli che i militari hanno chiamato rifugi sicuri per al-Qaida in Iraq.” Non è stato detto se gli aerei avevano anche lanciato volantini che dicevano: “Vi bombardiamo perché teniamo molto a voi.”
Il 20 dicembre il parlamento di Panama ha dichiarato che questa data diventi un giorno di “lutto nazionale” in memoria dell’invasione americana di quel giorno nel 1989. “Questo è un riconoscimento di coloro che caddero il 20 dicembre come risultato di un’invasione crudele e ingiusta da parte dell’esercito più potente del mondo,” ha detto il deputato Cesar Pardo, del partito di governo, il Partido Revolucionario Democrático, che ha la maggioranza in parlamento. I funzionari americani hanno minimizzato il problema. “Preferiamo guardare al futuro,” ha detto un portavoce dell’ambasciata USA. “Siamo molto soddisfatti di avere un amico e un partner come Panama, una nazione che è riuscita a sviluppare una democrazia matura.”[7] Come con il loro attacco all’Iraq il 19 marzo 2003 gli Stati Uniti, senza alcuna provocazione o legalità internazionale (sì, un’altra guerra di aggressione), prima bombardarono Panama, poi effettuarono un’invasione, uccidendo qualche migliaio di persone, senza offrire al contempo nessuna ragione credibile per il loro comportamento psicopatico.[8]
Un giorno vedremo in un Iraq libero e indipendente l’istituzione del 19 marzo come giorno di lutto nazionale?

Qualche ulteriore pensiero sul movimento per la verità sull’11 settembre

Quando dico, come ho fatto nel rapporto del mese scorso, che non credo che l’11 settembre sia stato un “inside job”, non è perché credo che uomini come Dick Cheney, George W. Bush, Donald Rumsfeld, e compagnia bella non siano moralmente abbastanza depravati da compiere un atto così mostruoso; a ciascuno di questi uomini manca un pezzo, un pezzo che ha la forma di una coscienza sociale; hanno consapevolmente e direttamente istigato gli attuali orrori iracheni e afgani che sono già costati molte più vite americane di quanto ne siano andate perdute l’11 settembre, per non parlare di più di un milione di iracheni e afgani che desideravano ardentemente restare fra i vivi. Nella guerra del Golfo del 1991 Cheney e altri leader americani distrussero appositamente centrali elettriche, sistemi di pompaggio idrico e fognature in Iraq, poi imposero al paese sanzioni che resero estremamente difficile la riparazione di queste infrastrutture. Quindi, dopo dodici anni, quando il popolo iracheno aveva compiuto l’eroica impresa di rimettere in funzione abbastanza bene questi sistemi, i bombardieri americani sono tornati per infliggere ancora una volta a tutti loro dei danni devastanti. I miei libri e molti altri documentano un grande crimine contro l’umanità dopo l’altro ad opera della nostra America un tempo tanto cara e amata.

Così non è la questione morale che mi fa dubitare dello scenario dell’“inside-job”. È la sua logistica – l’incredibile complessità di organizzare tutto in modo che funzionasse e non fosse totalmente e palesemente incredibile. Questo e l’enorme esagerazione – non avevano bisogno di distruggere o devastare TUTTI quegli edifici e aerei e persone. Una delle torri gemelle che avesse ucciso più di un migliaio di persone certamente sarebbe bastato a vendere la Guerra al terrore, il Patriot Act, e la Homeland Security. Gli americani non sono clienti tanto difficili. Desiderano davvero essere dei veri credenti. Guardate come strillano istericamente per Hillary e Obama.
Per convincere gente come me, quelli del Movimento per la verità sull’11 settembre devono presentare uno scenario che renda la logistica ragionevolmente plausibile. Potrebbero cominciare cercando di rispondere a domande come queste: Gli aerei hanno effettivamente colpito le torri e il Pentagono e il suolo della Pennsylvania? Erano gli stessi quattro aerei della United Airline e della American Airline che decollarono da Boston e Newark? Al momento della collisione, venivano pilotati da persone o erano telecomandati? Se erano persone, queste chi erano?
Inoltre perché l’edificio 7 è crollato? Se è stato demolito apposta – perché? Tutte le ragioni che ho letto finora non le trovo molto credibili. Quanto ai film delle torri e dell’edificio numero 7 che crollano, che li fanno sembrare come il risultato di demolizioni controllate – sono d’accordo, sembra effettivamente così. Ma che ne so? Non sono un esperto. Non è che abbia visto, in persona o su film, numerosi esempi di edifici che crollano a causa di demolizioni controllate e numerosi altri esempi di edifici che crollano a causa di aerei che ci si schiantano contro, in modo da poter fare una distinzione intelligente. Quelli del Movimento per la verità sull’11 settembre ci dicono che nessun edifico costruito come le torri è mai crollato per un incendi. Ma un incendio più un aereo carico in grandezza naturale che ci si schianta? Quanti esempi ne abbiamo?
Ma c’è un argomento usato contro gli scettici da chi appoggia la versione ufficiale che metterei in discussione. È l’argomento che se il governo avesse progettato l’operazione ci sarebbero molte persone coinvolte nel complotto, e certo ormai uno di loro avrebbe parlato e i media principali avrebbero riferito le loro storie. Ma in realtà numerosi pompieri, l’usciere degli edifici e altri hanno testimoniato di aver sentito molte esplosioni nelle torri un po’ prima che gli aerei si schiantassero, appoggiando la teoria di esplosivi già piazzati. Ma ben poco di questo è arrivato ai media. Analogamente in seguito all’assassinio di JFK almeno due persone si fecero avanti in seguito e si identificarono come uno dei tre “barboni” sulla collinetta erbosa a Dallas. E allora che accadde? I media principali li ignorarono entrambi. Li conosco solo perché la stampa scandalistica pubblicò le loro storie. Uno di loro era il padre dell’attore Woody Harrelson.

William Blum (The Anti-Empire Report – 54)
Fonte: http://members.aol.com
Link: http://members.aol.com/bblum6/aer53.htm
13.01.08

Traduzione a cura di LUCA TOMBOLESI

NOTE

[1] San Francisco Chronicle, 24 ottobre 1980, p.7
[2] United Press International (UPI) dispaccio da Saigon, 31 ottobre 1967
[3] Si veda l’intervista a Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale di Carter – http://members.aol.com/bblum6/brz.htm
[4] http://www.consortiumnews.com/archive/xfile5.html
[5] Victor Marchetti – John Marks, “The CIA and the Cult of Intelligence” (1975) [ed. italiana “CIA: culto e mistica del servizio segreto”, Garzanti editore, 1975], p.307; Peter Wyden, “Bay of Pigs: The Untold Story” (1979), pp. 142-3
[6] Washington Post, 19 dicembre 2007, articolo più trafiletto di accompagnamento; si veda anche l’Anti-Empire Report del 18 agosto 2006, ultima voce, per un altro articolo del Post che dimostrava la convinzione del popolo iracheno, come pure del personale militare americano, che le cose sarebbero migliori se gli USA lasciassero il paese.
[7] Associated Press, 20 dicembre 2007
[8] Per tutti i particolari vedi William Blum, “Killing Hope” [trad. italiana “Il libro nero degli Stati Uniti”, Fazi editore, 2003], capitolo 50.

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