Sulla sostanzialità del male

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DI Flores TOVO

Comedonchisciotte

Negli ultimi anni si è discusso molto attorno alla questione del male, citando o facendo riferimento soprattutto alla filosofa ebraico-tedesca Hannah Arendt.  Ella, dopo aver assistito al famoso processo celebrato a Gerusalemme nel 1961 contro Adolf Eichmann, che fu giudicato e poi impiccato come criminale di guerra nazista, scrisse un famosissimo reportage intitolato “Sulla banalità del male”, che divenne un testo basilare sull’etica. In tale scritto la filosofa affermò che il male radicale, così definito da Kant (1), in realtà non esiste,  poiché esso non possiede né una profondità né una dimensione demoniaca (2).  La Arendt spiegò questo suo concetto sostenendo che il male, per quanto estremo, non è capace di raggiungere la profondità del pensiero, cioè di andare alle radici, in quanto, pensando ad un suo eventuale fondamento,  non si trova nulla. Infatti Eichmann era un uomo comune, come tanti criminali nazisti. Uomini banali, appunto.  Inutile aggiungere che tutta la comunità ebraica mondiale la criticò in modo pesante, poiché ritenne che essa sottovalutava la drammaticità dell’orrore nazista compiuto contro di essa. Il noto filosofo Karl Jaspers ebbe con lei scambi epistolari sulla questione a partire dal 1963. Jaspers, fra l’altro, aveva scritto circa 30 anni prima in libretto testè posto a nota, in cui, pur negando la sostanzialità del male, cioè la sua strutturale permanenza perpetua,  affermava, in concordanza con  il pensiero di Kant,  che “…l’origine del male radicale sta nella natura della nostra razionalità” (3).  Questo succede perché la nostra ragione, che è propria di tutti gli umani, pur tendendo alla trascendenza quando cerca di valicare la conoscenza empirica, è invero limitata, e ciò la rende così sottoposta ad una possibile corruzione. Gli esseri umani, infatti, essendo liberi nel compiere le proprie scelte grazie al pensiero, possono pervertire la ragione stessa verso il peccato: perciò il male radicale esiste, sebbene non abbia, come s’è detto, una realtà sostanziale permanente. Per questo essi, per quanto feroci possano dimostrarsi nelle rispettive singolarità, non hanno una natura demoniaca. Cosicchè Jaspers ammetteva , come Kant del resto, che non “…possiamo indicare  una causa prima” (4) trascendente, proprio per l’incapacità umana di cogliere le essenze, ossia il ciò che è delle cose e del pensiero, per cui, in conclusione, il male radicale c’è, ma non è un male sostanziale, bensì un male connesso alla nostra natura razionale imperfetta.

Sia per Kant che per Jaspers, il male nasce, perciò, quando la nostra facoltà del desiderare, la volontà, non si conforma alla ragione, la quale, in sé, vorrebbe sempre il bene. Secondo Kant la trasgressione dell’imperativo categorico, cioè della legge morale universale (il dovere per il dovere) comporta l’effettualità del male. La ragione, quando si subordina al volere soggettivo che ricerca il piacere e il potere, si corrompe e causa il male radicale che avviene pur sempre all’interno della nostra realtà esistenziale empirica, per cui, per entrambi i filosofi, l’uomo non è un ente demoniaco.

Tuttavia le vedute di questi pensatori, a parer nostro, sono alquanto inadeguate ed insufficienti nello spiegare il profondo perché del male, ossia la causa prima che si citava poco innanzi. Sorgono, infatti, due domande decisive: 1) qual è la vera origine di esso? ; 2) qual è il suo fondamento?  Le risposte a queste domande  furono elaborate in particolare dalla filosofia cristiana  a partire da Agostino, che fece del problema del male l’assillo precipuo della sua opera, tant’è che egli ne ebbe ben tre visioni contrapposte (manicheismo dualistico, libero arbitrio, predestinazione). C’è da dire che anche la visione cristiana, per quanto complessa, non ha mai colto alla radice il significato profondo del male, nonostante siano state scritte pagine interessanti e notevoli, come quelle dello stesso Agostino, Tommaso, Lutero, Calvino, Pascal, Kierkegaard, fino ad arrivare a Bonhoeffer (il teorico del dio Tappabuchi). Infatti il pensiero cristiano, pur nelle sue differenti o anche contrastanti posizioni ideologiche, è sempre stato fortemente condizionato da una veduta teologica e, di conseguenza, da una teodicea (la giustizia di Dio) in cui Dio è considerato come Persona provvidente. Il cristianesimo, in definitiva, contempla l’intervento di un Dio infinito buono ed onnisciente (unum, verum et bonum scriveva Tommaso) nelle vicende umane, da Lui guidate o determinate. Spinoza prima e Nietzsche più tardi, pur con diverse argomentazioni,  hanno stroncato in poche pagine questa veduta provvidenzialistica, in quanto l’Infinito Dio non può determinarsi in alcunché, poiché la determinazione implica l’essere parte di un qualcosa: e se Dio fosse parte di qualcosa sarebbe finito e parziale, e quindi, in quanto tale, non sarebbe più Dio. Inoltre, come si dice a livello popolare, spesse volte i malvagi se la passano assai meglio dei buoni.  E sebbene filosofi acuti come De Maistre abbiano cercato di difendere tale veduta cristiana (si legga di questi il bel libro le “Serate di S. Pietroburgo”) trovando mille arzigogoli, questi alla fine essa concludeva con il solito invito ad aver fede.

Ora, le domande che ci si poneva riguardavano l’origine e il fondamento del male.  In sintesi ci si domandava se c’è il male metafisico, in senso onto-teologico.  Un attributo che può avere  svariati significati, ma che qui usiamo col significato di male  sostanziale e perciò assoluto (ab-solutus, sciolto da qualsiasi vincolo empirico). Se il semplice male può essere descritto come ciò che arreca dolore, sofferenza, violenza (tristezza e depressione della propria ed altrui voglia di vivere scrivevano i citati Spinoza e Nietzsche), l’aggettivo metafisico conferisce al sostantivo una qualità che va oltre l’umano e che coinvolge direttamente Dio. Se il male metafisico esiste, si deve ammettere che  radice del male sta in Dio stesso. Un Dio che potrebbe essere inteso come sostanzialmente  malvagio, un “funesto demiurgo”,  come riportava il titolo di un famoso libro di  E. Cioran. Infatti solo un dio tarato e crudele, scriveva l’autore, avrebbe potuto creare un mondo così feroce e cattivo.

Una risposta originale ed estremamente illuminante a questa domanda la troviamo in un’opera semisconosciuta del filosofo idealista Schelling che, nella sua opera “Ricerche sull’essenza della libertà umana”, affronta il problema del male in modo del tutto nuovo, tant’è che Heidegger scrisse negli anni Trenta un libro su Schelling (anche questo semisconosciuto) (“Schelling”, ed. Giunta), definendo tale scritto “…una delle opere più profonde della filosofia tedesca e quindi della filosofia occidentale”. Schelling, in effetti, attua una svolta metodologica del tutto nuova: egli non parte dalla constatazione del male per arrivare a Dio, ma parte da Dio per spiegare il male.

Il male, secondo il filosofo, scaturisce proprio da Dio. Ma in quale modo? In questa opera l’autore per rispondere a questa domanda presenta una distinzione netta fra fondamento (Grund) ed esistenza, all’interno di Dio stesso. Scrive Schelling: “…prima o oltre Dio non c’è nulla. Egli deve essere il fondamento della propria esistenza…questo fondamento della sua esistenza che Dio ha in sé, non è Dio considerato assolutamente, cioè in quanto esiste; è invece solo il fondamento della sua esistenza, è la natura–in Dio: un’essenza certamente inseparabile da Lui, e tuttavia distinta” (5).

Il fondamento e l’esistenza compongono Dio, e nel loro insieme costituiscono la sua unità arcioriginaria: una unità che in sè è il fondamento non-fondato (Urgrund) e assolutamente indifferenziato. In questo indifferenziato si rivela la distinzione non cronologica (Dio in quanto tale è eterno, senza tempo), bensì dinamica fra fondamento-fondato ed esistenza. Dio per poter manifestarsi deve produrre il mondo finito, poiché senza di esso sarebbe assoluto vuoto, un ni-ente. Questa necessità di produzione è propria del fondamento, cioè dell’essenza. Ora sorge la domanda principale: perché il fondamento divino deve produrre il mondo? Schelling, sicuramente influenzato dal teosofo monachese Max Baader, che fu uno dei primi in Europa ad introdurre la cultura induista e buddhista, ritenne che la produzione del mondo era l’espressione di una volontà originaria, che nelle “Upanishad” corrisponde al Brahman: una volontà intesa come appetito, come desiderio primordiale. Un suo brano estremamente significativo lo conferma: “Ogni nascita è nascita dalla oscurità alla luce; il seme deve essere immerso nella terra e morire nelle tenebre, affinché nasca e si schiuda ai raggi del sole una più bella forma luminosa. L’uomo si forma nel grembo materno; e solo dall’oscurità dell’irrazionale (dal sentimento, dal desiderio, la splendida madre della conoscenza) derivano i pensieri luminosi. Dobbiamo rappresentarci il desiderio originario come qualcosa che si dirige verso l’intelletto, che ancora non conosce…” (6).

Dio è la base, in senso alchemico, cioè la prima essenziale condizione della propria esistenza (il brodo primordiale, in un certo senso). Da qui la distinzione che Schelling espone fra fondamento ed esistenza: “Il fondamento è la natura di Dio, la natura da cui Dio stesso si trae e diviene…” (7). L’esistenza, intesa come ex-sistere ossia uscir fuori,  è la sua derivazione che si esplica con la produzione del mondo finito degli enti. L’Appetito originario del fondamento-fondato produce la realtà finita e con ciò si segna il passaggio circolare fra l’Infinito Dio e il finito mondo. Dio è perciò infinito e finito nell’infinito: tre momenti dinamici e coeterni nella stessa Unità. Un Dio che diviene e che si fa storico quando crea il mondo degli enti (l’Essere). Si può dire che l’appetito originario corrisponde al Kàos (il baratro senza fondo che oggi i fisici chiamerebbero energia oscura) dal quale sorge il Kòsmos in cui vi è la messa in ordine, ossia la rivelazione del nòmos (la legge) e del lògos (il discorso logico).

Agli albori del pensiero europeo Anassimandro intuì già tutto questo: nell’infinito migmatico nascono, per separazione, gli enti, che rappresentano l’esistenza spazio-temporale governata dal lògos del contrari contrastanti.

Quello che è oscuro e difficile da comprendere è come sia possibile che da un fondamento  caotico e irrazionale scaturisca con necessità la ragione. Dirà Hegel che il cominciamento del divenire, e perciò degli enti, è logico. Tuttavia la ragione si manifesta e deve manifestarsi nel mondo finito proprio perché la base è irrazionale. I miti Greci  aiutano ad illuminarci su questo: Dioniso, dio dell’ebbrezza e dell’originario amorfo flusso del vivere si accompagna in una unità complementare con Apollo, dio della intelligenza composta ed armonica. Entrambi gli dei sono pervasi dal lògos, o in modo estatico (Dioniso) o un modo intellettuale (Apollo). Dioniso è quindi quello che Schelling definiva come “…quel desiderio originario che si dirige verso l’intelletto”, cioè verso Apollo. La rivelazione del lògos nel finito è una conseguenza necessaria implicita nell’Appetito stesso. Se, infatti, il finito fosse preda del disordine non potrebbe sopravvivere. Un disordine totale annienterebbe qualsiasi forma di vita: ecco che allora nascono all’interno del mondo finito, da sempre, le leggi del mondo fisico e animale; leggi che tendono e sovraintendono alla sopravvivenza stessa di tutti gli enti. Il male perciò non è altro che la sovversione di tali leggi. Proprio così: il male è sovversione rispetto al mondo naturale, animale e, aggiungiamo, umano. Esso è sostanziale in senso dinamico, come lo è il bene col quale è indissolubilmente legato come contrario contrastante.

Il Dio che diviene è fondamento ed esistenza, Kàos e Kòsmos, infinito e finito, perfetto e imperfetto, in una unità circolare unitaria. Tuttavia Dio, in quanto tale, non può essere né male né bene, poiché male e bene sono manifestazioni pratiche proprie del mondo finito. Dio è tutto, ma il tutto non è Dio: ciò significa che tutti gli esseri viventi che compongono l’Essere non sono Dio, il quale però tutti li contiene (Teopanismo).  Il male metafisico non esiste come essenza statica, ma esiste come possibilità originaria già nella Base. Poiché gli esseri viventi sono una derivazione creatrice di Dio, essi posseggono in diverso grado, per analogia, direbbe Tommaso, sia l’appetito che la ragione. Gli uomini, in particolare, possiedono l’autocoscienza, in quanto sono gli unici nel nostro pianeta ad essere consapevoli di pensare. La scelta fra il bene e il male implica quindi la libertà consapevole dell’agire umano, mentre nel mondo vegetale ed animale il male si esprime istintivamente. La scelta dell’agire malvagio  è, ripetiamo,  sovversione. Questa poi tende a dominare quando la quantità prevale sulla qualità, quando cioè il rapporto armonico fra loro, che è la misura, viene appunto sovvertita dalla quantità. Si ha così la pandemia demografica, la volontà di sopprimere le razze e le diversità, l’avidità sconsiderata e folle del capitalismo, l’ipocrisia del “buono”, la distruzione della famiglia naturale: tutte manifestazioni del male che  trovano in alcuni uomini dal grande “potere” la possibilità concreta di diffondersi sempre più. Costoro sono, per usare un termine gnostico, eoni satanici, ovvero incarnazioni temporali del male.

E’ una sovversione, oggi più che mai, estremamente pericolosa, poiché se si dileguano la ragione e il suo relativo equilibrio con la volontà, la via verso gli stati inferiori dell’essere (il “tamas” della  sapienza induista) sarà inevitabilmente aperta: del resto la letteratura sulla  “hybris” (tracotanza arrogante) umana è ormai sterminata, per cui non è necessario soffermarsi oltre.

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Note:

  1. KANT, La religione nei limiti della sola ragione, ed. Laterza, Bari 2004.
  2. JASPERS, Il male radicale in Kant, ed. Morcelliana, Trento 2019.
  3. IDEM, p. 63.
  4. IDEM, p. 64.
  5. J. SCHELLING, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti ad essa connessi, p. 117, ed. Rusconi, Milano 1996.
  6. IDEM, p. 121.
  7. STRUMMIELLO, Introduzione all’opera citata, p. 30.

TOVO Flores

Dicembre 2019

Fonte: comedonchisciotte.org

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