DI FLORES TOVO
Comedonchisciotte
Kant scrisse la sua “Critica della ragion pura” per dimostrare che il principio di causa aveva un fondamento logico-ontologico, a differenza di quello che pensava Hume, il quale invece lo reputava un principio emotivo-arazionale basato sull’abitudine (1). Infatti la critica radicale che Hume aveva condotto contro tale principio implicava la distruzione del fondamento gnoseologico ed ontologico della veduta scientifica galileo-newtoniana, che si presentava come un paradigma capace di spiegare tutti i fenomeni fisici in base a leggi universali e necessarie che trovavano il loro principio unificatore nella legge della gravitazione universale. Il quale paradigma, in effetti, forniva ad esse una spiegazione ultima e definitiva di come si regolava l’Universo. Il modello fisico di Newton, che ampliava quello di Galilei, era poi incardinato sul principio di causa meccanica, come il terzo principio della dinamica, che stabiliva che ad ogni azione ne corrisponde una uguale e contraria, il che, perciò, comportava un tempo, uno spazio e un moto assoluti, uniformi, permanenti e perpetui. Inoltre la stessa seconda regola del suo metodo sanciva che effetti dello stesso genere devono essere attribuiti, finchè è possibile, alla stessa causa, in quanto vi era una omogeneità nella natura. Con la distruzione humeana del nesso causale queste asserzioni di base erano in pratica demolite e così pure il metodo induttivo scientifico era messo in discussione. Per questi motivi il modello newtoniano-galileiano e la stessa scuola di Laplace, fautrice del più radicale meccanicismo, erano da considerare, secondo le considerazioni humeane, solo una pura ipotesi priva di fondamento ontologico.
Dopo aver studiato a lungo Hume negli anni ‘60 del Settecento, Kant, che intimamente era un illuminista, e quindi un convinto assertore del nuovo modello scientifico-umanistico, si trovò filosoficamente smarrito nelle sue certezze e perciò cominciò profondamente a riflettere sul destino della scienza. A lui non interessava tanto salvare dalla critica di Hume l’apparato teologico-metafisico, costruito sul principio di causa finale che cercava di spiegare il perché delle cose e del mondo; ma di fondare il principio di causa efficiente (il meccanicismo) che consentiva invece di dare una spiegazione salda e indubitabile sul come si attuino causalmente i fenomeni fisici. Nell’ esaminare il suo trattato si può osservare che la prima parte che contiene l’ “Estetica trascendentale” e l’ “Analitica trascendentale” è tutta incentrata sullo sforzo di dimostrare che esistono una scienza e una fisica pure, cioè a priori, basate su asserzioni universali e necessarie, mentre la seconda parte che contiene la “Dialettica trascendentale” è tutta volta a dimostrare che una teologia e una metafisica pure non sussistono in se stesse, ma sono solo esigenze della spiritualità umana.
Ora il principio di causa, che generalmente viene espresso con la formula latina “nihil est sine ratione”, è composto da due aspetti precipui, ossia il determinismo (la necessità necessitata) e la successione temporale del prima e del dopo (prima la causa e dopo l’effetto). Di solito i filosofi che precedettero Kant si soffermarono ad analizzare il primo aspetto, disputando sulla pertinenza logica inerente la necessità necessitata (il non può essere altro che così) del principio, ma di fatto trascurando il secondo aspetto, quello temporale, che invece Kant ha genialmente approfondito, tanto che è questo secondo aspetto ad essere decisamente il più rivelativo: anzi, si può dire che è l’aspetto fondamentale senza il quale non si può comprendere la complessità del principio stesso. Per spiegare tale lato bisogna però fare una necessaria premessa.
Hume aveva affermato giustamente che quando noi percepiamo con i nostri sensi, percepiamo singole sensazioni, singoli fenomeni: percepiamo che ora questo è così, e poi in altro modo. Coi sensi percepiamo sempre l’individuale o il particolare e mai l’universale. Nella “Deduzione trascendentale” della “Critica della Ragion pura”. Kant afferma che le intuizioni empiriche, le sensazioni e le percezioni costituiscono il dato materiale dei fenomeni che il mondo esterno ci mostra e che noi accogliamo attraverso il nostro apparato percettivo; un dato materiale che però proprio perché composto da impressioni sensibili ci viene fornito nella sua distinta individualità e separatezza. Esso è però caotico e immediato ed è relativo al luogo e al tempo in cui si palesa e viene percepito. Kant era convinto che “…senza sensibilità nessun oggetto ci verrebbe dato”, e che era soprattutto vero che “…senza intelletto nessun oggetto sarebbe pensato”. La conoscenza che ordina il mondo caotico delle impressioni sensibili è una conoscenza interna, che Kant chiamerà “appercezione trascendentale”. Questa facoltà conoscitiva implica l’unità del pensiero intellettuale che unifica e sintetizza tutto il molteplice della sensibilità. E’, in altre parole, l’Autocoscienza, l’ “Io penso” (Ich denke), che si dispone come unità pensante unificatrice e che accompagna tutte le rappresentazioni che si presentano, “… chè altrimenti verrebbe rappresentato in me qualcosa che non potrebbe essere per nulla pensato” (2). Le funzioni attraverso cui l’“Io penso” unifica o sussume le impressioni sono le categorie, o concetti universali puri e a priori, che vengono a loro volta unificate dall’Io penso e che sono proprie del Soggetto umano nel suo insieme. Come sanno coloro che hanno un qualche rudimento di filosofia, le categorie, che sono ormai universalmente condivise dalla comunità filosofica e scientifica, sono quattro, ossia quantità, qualità, relazione, e modalità, che al proprio interno posseggono tre corrispettive sotto-categorie secondo un ordine, si può dire, pitagorico.
Bisogna aggiungere che per Kant il mondo esterno esiste in quanto tale: egli lo dimostra in modo inconfutabile e definitivo nel capitolo della “C.r.p.” (3), intitolato “La confutazione dell’idealismo” ( C.r.p. pp.229-238), in cui prendeva in esame l’idealismo del vescovo Berkeley che negava la realtà del mondo esterno (il famoso immaterialismo berkeleiano). Scrive Kant:
“ Io ho coscienza della mia esistenza come determinata nel tempo. Ogni determinazione temporale presuppone qualcosa di permanente nella percezione. Ma questo qualcosa di permanente non può essere qualcosa in me, perché appunto la mia esistenza nel tempo non può essere determinata se non da questo qualcosa di permanente. Dunque, la percezione di questo permanente non è possibile se non mediante una cosa fuori di me, e non mediante la semplice rappresentazione di una cosa fuori di me. Perciò la determinazione della mia esistenza nel tempo non è possibile se non per l’esistenza di cose reali, che io percepisco fuori di me” (4).
Solo da questa dimostrazione illuminante si può ricavare come e perché la nostra Autocoscienza sia in sintonia col mondo e sia in grado di legiferare su di esso. E’ un argomento, questo, che abbiamo già trattato (5), ma che ora approfondiamo per capire come Kant giustifichi la legittimità logico-ontologica del principio di causa.
La dimostrazione che tutti i fenomeni sono nel tempo viene enunciata nella sezione III del libro II della “Analitica trascendentale” riguardante i principi sintetici dell’intelletto puro, in particolare nelle “Analogie dell’esperienza”. Questa sezione è straordinaria per la sua estrema profondità, poiché viene svelato come il pensiero nasce in quanto pensiero autocosciente: Kant qui ribadisce che tutti i fenomeni sono nel tempo, nella cui dimensione intuitiva interna permanente “…deve essere pensato ogni cangiamento dei fenomeni” (C.r.p. p.195), e pur tuttavia esso “…rimane e non muta” perché esso è il sostrato che di per sé non può essere percepito. Il tempo come Essere è quindi immutabile e permanente, mentre mutabili sono le sue determinazioni, come la successione del prima e del poi, oppure la simultaneità fra due eventi fenomenici. I tre modi in cui il tempo viene “sentito” sono perciò la permanenza (che è il tempo in quanto tale), la simultaneità e la successione.
Vien da sé considerare la permanenza come il modo fondamentale, in quanto essa costituisce l’essenza di ogni fenomeno. Il sostrato temporale, dice Kant, è “… il reale stesso, che rimane sempre identico come sostrato di ogni cambiamento” ( C.r.p. p.196). Ne consegue che il tempo nella sua essenza non può essere percepito, poiché se lo fosse muterebbe, in quanto tutte le percezioni e le sensazioni sono modificazioni. Così pure la sua quantità non può aumentare, né diminuire.
Sorge a questo punto la domanda cruciale: come è possibile il divenire, se il tempo in sé è permanente ed immutabile?
Per Kant la risposta, che chiarifica questa apparente aporia, che sembrerebbe insuperabile, si ottiene nel considerare ogni ente all’interno del tempo permanente, che in sé, come si è detto, non muta, mentre mutano le relazioni fra gli enti stessi. Il mondo degli enti, ossia il mondo reale, esiste perché si trova dentro la permanenza temporale: Borges scriveva in una sua poesia che “…el tiempo es la substancia de que estoy hecho”. Ogni ente è fatto di tempo, ogni ente possiede un suo tempo. Del resto come si potrebbero osservare tutte le trasformazioni che avvengono, se non rapportandosi con altri enti?
Heidegger, a riguardo, usa un linguaggio più preciso, distinguendo il tempo inteso come sostrato permanente, che egli fa coincidere con l’Essere stesso, e la temporalità che è propria dei singoli enti. Per cui in Kant il tempo è sostrato permanente, e la temporalità, che appartiene ai singoli enti, si manifesta come simultaneità e successione. Resta ancora la domanda sul perché da ciò che non muta nasce ciò che muta. Kant si rifà al poeta Persio che affermava come “…gigni de nihilo nihil, in nihilum nihil posse revert”. La trasformazione temporale del prima e del dopo è possibile solo se c’è il permanente: “… se legate ciò che sorge a cose che prima esistevano e durarono fino al suo nascere, allora il nuovo sarà solo una determinazione del vecchio, come permanente. Altrettanto si dica anche del cessare; poiché presuppone la rappresentazione empirica di un tempo che non c’è più” (C.r.p. p.200). Perciò la permanenza è necessaria, poiché senza di essa i fenomeni che nascono e muoiono non sarebbero possibili nella loro manifestazione. La simultaneità comporta la relazione con altri enti che si manifestano nello stesso tempo, e da questa relazione scaturisce un’azione reciproca, in quanto non si potrebbe avere nessuna esperienza senza il presupposto di questa scambievole azione fra loro. Infatti, se il nostro pensiero non rapportasse fra loro tutti i fenomeni che gli si presentano simultanei, tali fenomeni resterebbero separati l’uno dall’altro in una condizione di isolamento totale. Tale isolamento, escluderebbe appunto qualsiasi rapporto, e quindi non sarebbe possibile il pensiero stesso. “Dunque è necessario che tutte le sostanze (gli enti) di un fenomeno, in quanto simultanee, stiano fra loro in una generale reciprocità di scambievole azione” (C.r.p. p.219). Il mutamento avviene quando gli enti, determinandosi nel proprio spazio-tempo, che altro non è se non il principio di individuazione, cadono nella temporalità, manifestandosi o come simultanei o come in successione un dopo l’altro. Ne deriva che da questa scambievole azione nasca il principio di causa ed effetto. Tale principio dell’intelletto è quindi generato dalla mediazione temporale, che è dovuta a quella capacità, che Kant chiama immaginazione produttiva, con la quale l’“Io penso”, condizionando il tempo, riesce ad apprestare per ogni categoria un determinato schema. In conclusione l’azione reciproca fra gli enti determina lo schema della successione (prefigurazione intuitiva temporale della categoria della relazione causale), che è, dice Kant, “… assolutamente, il criterio empirico unico dell’effetto in rapporto alla causalità della causa, che precede” (C.r.p. p.212). Per cui ogni esperienza è possibile solo mediante “una trama necessaria”.
Con questa breve delucidazione sintetica si è voluto dimostrare come Kant abbia cercato di giustificare la validità gnoseologica ed ontologica del principio di causa fondandola cioè sull’Essere e sul tempo, col dichiarato scopo di sostenere l’assolutezza della scienza fisico-matematica, che, per quanto limitata alla realtà fenomenica ed empirica (essa non può in realtà spiegare l’essenza delle cose, neanche “quella di un filetto d’erba”), è tuttavia in grado di affermare asserzioni universali e necessarie. Il sapere scientifico di Galileo e Newton è salvo.
Ora, questa nozione della causalità, intesa come legame necessario, rimanda non solo alla concezione scientifica della fisica classica, ma anche alla concezione filosofica di un Cartesio o uno Spinoza. Si perviene perciò, di fatto, alla difesa del meccanicismo, sebbene in Kant la mediazione sul tempo e la temporalità apra orizzonti di indagine filosofica enormi.
Hegel sarà il primo filosofo ad esaminare quali sono gli eventuali limiti del principio causale così come inteso da Kant. Il meccanicismo per Hegel è una prima forma, grezza, di oggettività che vuole spiegare il reale, poiché considera l’oggetto studiato senza tener conto delle differenze qualitative che lo distinguono dagli altri oggetti o al suo interno. Quando si ha uno scontro fra oggetti la descrizione meccanica considera irrilevante che l’oggetto che ne urta un altro sia qualificato diversamente rispetto al secondo: la relazione fra i due rimane puramente esteriore, cioè estrinseca. Parimenti, al suo interno, un oggetto meccanico è indifferente alle proprie distinzioni: è solo un aggregato di componenti indifferenti fra loro. Per questo motivo, direbbe Heidegger, “la scienza non pensa”, poichè essa si sofferma solo sulle esteriorità. Per cui Hegel scriverà in modo lapidario che vi è “…una inammissibile applicazione del rapporto di causalità ai rapporti della vita fisico-organica e della vita spirituale” (6).
Egli quindi giudicherà il pensiero di Kant inadeguato nello spiegare il principio causale. Questo perché ritiene che Kant sia ancora troppo ancorato al tradizionale, aristotelico, principio di sostanza, poiché il filosofo di Koenisberg considerava ancora la sostanza come quel sostrato che permetteva di pensare ad una stabile essenza (peraltro non conoscibile) nel cambiamento. In altre parole, la relazione fra sostanza stabile e dei suoi rispettivi accidenti (gli attributi) che mutano, scrive Hegel, di fatto isola fra loro la stabilità identica e l’indefinita variabilità: e questo è l’errore tradizionale della vecchia metafisica. Per lui, invece la sostanza è una unità che si scinde in due poli differenziati. Da un lato vi è l’unità della sostanza, dall’altro una molteplicità di accidenti. Questi due poli, nella loro relazione sostanziale, passano immediatamente uno nell’altro. Non vi è più da distinzione kantiana fra cosa in sé (l’essenza della sostanza) e il fenomeno (la manifestazione esterna). Il fenomeno per Hegel è il mostrarsi della cosa in sé o dell’essenza: anzi il fenomeno è la stessa essenza che si mostra, ed è ciò che esiste. La polarità interna fra sostanza-accidenti implica il continuo trasformarsi dei fenomeni e delle loro relazioni causali. Vien da sé che una sostanza quando è causa di un effetto non è più una categoria indipendente: la sostanza che agisce come causa producendo un effetto, è inseparabile da esso. Dice Hegel che“… l’effetto non contien quindi nulla in generale che la causa non contenga” (7). Causa ed effetto non sono soltanto termini distinti, ma sono anche identici. Infatti, scrive ancora il filosofo, benché la causa sia l’originario in confronto all’effetto, essa “… non contien nulla che non sia nel suo effetto: la causa è causa solo in quanto produce un effetto, e la causa non è altro che questa determinazione, di avere un effetto, come l’effetto non è se non questo, di avere una causa: nella causa stessa risiede il suo effetto, e nell’effetto la causa. In quanto la causa non operasse ancora, o in quanto avesse cessato di operare, non sarebbe causa; – e l’effetto, in quanto la sua causa è sparita, non è più l’effetto, ma una realtà indifferente” (8).
La verità della relazione causale è, per Hegel, l’azione reciproca. Nel mondo reale e finito tutto diviene senza sosta e non c‘è più nulla di indipendente e distinto nella sua isolatezza. La logica dell’intelletto, fatta ancora propria da parte di Kant, separa e divide in base al principio di non-contraddizione: in Hegel invece si rivela la logica speculativa della ragione che tutto unifica e relaziona; ed è una logica che ci insegna a considerare il tutto come una serie indefinita di cause che mostra di essere allo stesso tempo una serie indefinita di effetti in cui tutto progredisce, ma anche regredisce. Vi è qui una incredibile somiglianza con il pensiero taoista e la fisica quantistica. “L’essenziale per la scienza non è tanto che il cominciamento sia un puro immediato, quanto che l’intiera scienza è in se stessa una circolazione, in cui il Primo diventa anche l’Ultimo, e l’Ultimo anche il primo” (9). Il “resultato” è il cominciamento e il cominciamento è “il resultato”. Il vecchio argomento contro il principio di causa, che fu posto per primo dallo scettico Sesto Empirico, viene definitivamente superato. Sesto affermava che se la causa produce l’effetto, essa, in quanto causa, dovrebbe per forza precedere l’effetto e quindi sussistere prima di esso e se sussiste prima di produrre l’effetto, essa è causa prima di essere causa. Hegel, invece, osservando l’azione reciproca fra causa ed effetto ne rivela l’identità pur nella distinzione. Il pensiero speculativo del filosofo di Stoccarda raggiunge qui la sua massima profondità: sembra quasi che la Ragione stessa parli attraverso di lui.
Tuttavia Heidegger dirà che Hegel, per quando approfondisca la complessità della relazione fra causa ed effetto rispetto a Kant, non ne comprende la funzione temporale, ma la fraintende, facendone l’essere dello spazio stesso (si veda di Hegel la II parte della “Enciclopedia delle scienze filosofiche”, in particolare la prima sezione riguardante la meccanica). Heidegger, infatti, muove i seguenti rilievi a Hegel: 1) che questi non vede la funzione del tempo per l’interpretazione dell’Essere (in effetti non v’è traccia di ciò nei suoi scritti); 2) che egli non può comprendere la funzione temporale del tempo, poiché concepisce il tempo come tempo-adesso, puntiforme ed espresso numericamente, ossia il tempo come misura del prima e del poi, secondo la tradizionale dogmatica aristotelica; 3) e infine che Hegel intende il tempo come spazio, cioè come un tempo-spazio contemporaneamente presenti, non cogliendo il primato della dimensione temporale del futuro, che per Heidegger è la dimensione originaria che consente la comprensione causale.
Heidegger, inoltre, muoverà la stessa critica rivolta ad Hegel anche a Bergson, il quale credeva di aver trovato nella durata l’essenza metafisica del tempo, ossia il tempo vero e proprio, di tipo qualitativo piuttosto che quantitativo: ma anch’egli rimane all’interno di una comprensione del tempo aristotelica in cui prevale l’aspetto naturalistica dello spazio-tempo (10). In altre parole Hegel non vede la strettissima connessione fra pensiero e tempo, poiché, in quanto idealista, non può comprendere la relazione indissolubile fra il tempo che è una affezione intuitiva permanente legata quindi anche alla sensibilità e l’autocoscienza pensante dell’uomo che si esprime tramite le categorie. Per Hegel l’Essere vero è il pensiero, mentre Kant è il primo filosofo moderno a cogliere l’intimo legame fra temporalità (il tempo che si temporalizza negli enti) e soggettività pensante. Si può, a questo punto, notare come solo Heidegger, sulla scorta di imponenti studi sia su Kant che su Hegel, abbia potuto sintetizzare le vedute di quei due possenti pensatori e come, di fatto egli prediliga Kant, poiché il suo pensiero, come si diceva, lascia ancora aperti orizzonti sconfinati di ricerca.
Heidegger concluderà nei suoi testi, che qui si è citato, che tempo e autocoscienza pensante, pur essendo per essenza separati, poiché il primo è intuizione pura e la seconda pensiero puro, sono appartenenti ad una unità originaria (11). Il principio di causa trova perciò un reale fondamento nell’Essere e nel tempo. Esso, viste anche le considerazioni di Hegel, non può più essere inteso come una relazione deterministica necessaria. Il meccanicismo viene perciò definitivamente superato. La stessa fisica quantistica con la scoperta del principio di indeterminazione di Heisenberg ne ha demolito anche gli aspetti naturalistici. Di fatto, quando oggi si parla di questo principio, si parla in realtà del principio di ragion sufficiente, nella accezione ormai classica di Leibniz che ci permette di ricostruire “per lo più” il passato (è impossibile conoscere tutte le cause) e prevedere il futuro con un probabilismo più o meno incerto (tutto può accadere poiché c’è sempre la possibilità dell’imprevedibile). Leibniz così lo espresse:
“ … è quello di ragion sufficiente, in virtù del quale noi consideriamo che nulla potrebbe essere vero, o esistente, né alcun enunciato essere vero senza che vi sia una ragion sufficiente per la quale sia così e non diversamente” (12).
Un principio che è in sintonia con la stessa fisica quantistica e che, quindi, ha di fatto sostituito il vecchio principio di causa. All’uomo pensante, ente finito, non è perciò concessa la verità dell’esattezza perfetta. Già nei tempi antichi gli stessi Pitagorici rimasero sconvolti quando scoprirono i numeri incommensurabili, come il raggio di una circonferenza o la diagonale di un quadrato. Eppure questo principio, che abbiamo analizzato, resta il principio operativo più potente della nostra mente, perché ci consente di capire il mondo della nostra storia e quello della natura. Esso, come si sa, non è l’unico principio logico: il principio di identità, di non-contraddizione, di terzo escluso, della contraddizione dialettica sono principi fondamentali del nostro pensare. Funzioni logiche che possono essere ritenute un dono dell’Essere e che comunque costituiscono il nostro vero mistero, un mistero che in questo periodo storico di povertà d’Essere ha perduto il suo incanto e la sua dimensione estatica, ma che rimane tale per coloro che amano la comprensione profonda delle cose.
FLORES TOVO [email protected]
Fonte: Comedonchisciotte.org
14.01.2018
NOTE
- Si veda del sottoscritto “La distruzione del principio di causa”, pubblicato su “Ereticamente” rivista on-line nel 09/2016.
- KANT, La critica della ragion pura”, ed. Laterza, vol. I, Bari 1972, p. 135.
- Per comodità si userà l’abbreviazione R.P, al posto del titolo dell’opera kantiana.
- IDEM, p.230.
- Si veda del sottoscritto “La caduta del tempo” pubblicato su “Ereticamente” il 17/012/2016.
- W.F. HEGEL, “La scienza della logica”, ed. Laterza, vol. II, Bari 1988, p. 634.
- IDEM, p.630.
- IDEM, p.631-632.
- IDEM, vol.I, p. 57.
- HEIDEGGER, “Logica”, ed. Mursia, Milano 2012, pp.166.178, e dello stesso il par. 82 di “Essere e tempo” ed. Longanesi, Milano 1970.
- IDEM, “Logica”, p.268.
- W. LEIBNIZ, “Monadologia. Causa Dei”, ed. Laterza, Bari 1991, p.91.
TESTI CONSULTATI.
- BERGSON, “Opere 1889-1896”, ed. A. Mondadori, Milano 1996.
- HEIDEGGER, “Kant e il problema della metafisica”, ed. Laterza, Bari 1989.
- HEIDEGGER, “Il principio di ragione”, ed. Adelphi, Milano 1991.
- HEISENGERG, “Fisica e filosofia”, Ed. EST Saggiatore, Milano 2000.