Un fenomeno filosofico

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DI Andrea Grieco

Comedonchisciotte

 

“Severino prometteva al pubblico cose meravigliose: «Ed ora, signori miei, voglio mostrarvi la mia filosofia, una meraviglia d’intelletto di fronte alla quale crolla tutta la storia del pensiero occidentale. Allo stesso tempo è anche una meraviglia di logica e dialettica. Debbo far presente che se fra di voi ci fosse per caso qualcuno sprovvisto di un intelletto straordinario, costui non la capirebbe, poiché le cose elevate e raffinate esposte nelle mie opere saranno per lui incomprensibili. Quindi, attenzione signori miei dotati di intelligenza e di cervello, dalle mie opere non si leggerà una sola parola che non racchiuda dentro di sé una logica ferrea e incontrovertibile, in grado di sciogliere tutte le contraddizioni del mondo, un pensiero acuto mai pensato prima. Tutto quanto è esposto sono pensieri originali di una sublime profondità. Chi non coglie tutto ciò e non lo percepisce deve proprio essere sprovvisto di genio».

In quell’istante saltò su un baccalaureato esclamando: «Splendido! Che pensieri profondi! Le cose più perfette al mondo! E che potenza logica! Permettetemi di studiarla con grande zelo e perseveranza! Sarebbe un peccato imperdonabile perdere una sola sillaba».

Proprio in quel momento qualcuno lesse un passo della sua Struttura originaria, capace di lacerare le orecchie e di far perdere l’intendimento ad un’intera assemblea di consiglieri, e lo accompagnò con una tale discarica di commenti indecenti che tutti rimasero sbigottiti e si guardarono l’un l’altro.

«Ammirate, ammirate, voi che siete persone [intelligenti]», esclamò l’astuto filosofo. «Ammirate e alzatevi in punta di piedi! Questo è quello che si dice filosofare! Esiste forse un altro filosofo come me? Cosa pensate della delicatezza dei miei pensieri e dell’eloquenza del mio linguaggio? Esiste forse al mondo una gigantomachia poderosa con l’anelito all’illimite più grande di questa?».

Gli astanti si guardarono allibiti. Nessuno però osava fiatare né esprimere cosa egli pensava veramente, per non essere scambiato per uno stupido. Anzi, tutti scoppiarono all’unisono in un applauso e in un coro di elogi. «Ah, questa filosofia», esclamò una ridicola pettegola. «Questa filosofia mi seduce. Starei ad ascoltarla il giorno intero». «Che il diavolo mi porti via con sé», disse sottovoce una persona intelligente ma impaurita «se questa non è demagogia, e demagogia in ogni caso rimane. Tuttavia mi guarderò bene dal dire apertamente una simile cosa». «In fede mia», esclamò un altro, «questa non è proprio filosofia, bensì sofistica, ma guai a chi lo volesse affermare! Così va ora il mondo: la talpa viene spacciata per una lince, il rospo per un canarino, la gallina per un leone, e la sofistica per filosofia. Ma cosa m’importa del contrario? I miei pensieri li tengo per me, dico quello che dicono gli altri e lasciatemi vivere! Questo, dopo tutto, è ciò che conta».

Un vero filosofo, di fronte a tanta bassezza da un lato e furberia dall’altro, era fuori di sé: «È mai possibile che la pazzia si impadronisca delle teste fino a questo punto?», pensò.

Ma il furfante filosofico rise sotto l’ombra dei suoi occhiali e bisbigliò a lato, come un commediante gioendo dentro sé: «Non li ho forse presi in giro tutti? Potrebbe una ruffiana fare di meglio?». Di nuovo diede loro da ingoiare centinaia di cose disgustose in altri libri e ogni volta esclamava: «Che nessuno mi venga a dire che non è così, altrimenti si qualificherà come un imbecille e autonegherà la sua stessa affermazione che si basa sulla struttura originaria».

A queste parole quel vile applauso si faceva ancora più forte e anche chi non era d’accordo fece come tutti gli altri.

Il vero filosofo invece non ce la faceva più e voleva scoppiare. Si rivolse al suo commentatore ammutolito, dicendo: «Per quanto tempo costui dovrà approfittare della nostra pazienza, e fino a quando rimarrai zitto? La sfrontatezza e la volgarità stanno oltrepassando ogni limite». Quello allora rispose: «Abbi pazienza. Fino a quando lo dirà il tempo. Sarà il tempo, come è sempre successo, a ristabilire la verità”.

Se per filosofia s’intende ciò che ha scritto Severino, allora hanno ragione i filosofi e gli scienziati a lamentarsi. Per fortuna la filosofia non ha nulla a che vedere con le chiacchiere vuote, le panzane, le logiche sgangherate: la difficoltà è che questo non si comprende in ambito filosofico.

La filosofia di Severino è una filosofia per perdigiorno, per inconcludenti e stralunati: per quanto si possa riflettere sui suoi sofismi, non si riuscirà mai a cavarne un ragno dal buco. Forse un giorno si arriverà a comprendere qualcosa delle ciance di questo professore: si certo, quando il pero produrrà le mele!

Molti continuano a credere, convinti, che la consapevolezza filosofica si trovi nel filosofare sterile, contorto e sgualcito di Severino. Ma questo personaggio è noioso perché incomprensibile e incomprensibile perché vuoto, non dice nulla. Purtroppo gente simile è ben considerata negli ambienti della cultura: e questo per i veri filosofi non è tollerabile. Quindi, considero un dovere (morale) del vero filosofo attaccare questa gente.

Severino (e quelli come lui) è pericoloso per i giovani che si avvicinano alla filosofia, con l’ingenua speranza di imparare qualcosa da lui (e da quelli come lui). Il grosso del problema, infatti, è che Severino viene presentato da molti come un grande filosofo; e questo crea forti interdizioni fra i giovani che non hanno ancora una facoltà di giudizio solida e ben formata, per via della non sufficiente preparazione.

A prima vista Severino sembra un filosofo complicato, un grande logico, uno di quelli che ti fa fumare il cervello; e quindi – da questo punto di vista – appare interessante, perché invita a spremere le meningi nel ragionare (in fondo la filosofia è questo).

Tuttavia, ad un’analisi più attenta, ci si accorge dell’inganno, dell’inconsistenza e della finzione: la sua è una finta logica, senza regole d’inferenza, una logica acchiappa fantasmi: in breve è una retorica, una demagogia. Spremere le meningi nel ragionare non significa giocare con i cavilli o con i concetti che non rappresentano nulla: purtroppo questo è il gioco di Severino, che spaccia per filosofia.

Ragionare in filosofia vuol dire mettere in relazione i concetti con il solido terreno della realtà (adaequatio rei et intellectus). In Severino avviene il contrario, si gioca con i concetti senza alcuna aderenza alla realtà, anzi la realtà viene sorvolata senza tanti complimenti e si pretende che sia essa ad adeguarsi ai concetti. In più, questo esimio professore, ha apportato una tale confusione a duemila anni di pensiero che non si capisce più cosa è l’Ente, l’Essere, l’Apparire, il Divenire, l’Eternità, il Fenomeno, la Cosa in sé etc., mescolando tali concetti in una melma sincretica da mettere paura, presentando la sua Struttura Originaria come un che di complesso che abbraccia il piano fenomenologico, semantico, logico e ontologico.

L’abilità di Severino sta nel giocare, appunto, in tal senso col suo ingegno retorico, e quindi riduce la filosofia a chiacchiera. Questo non è un bene né per tale disciplina né per le scienze che ne dovrebbero far capo e che, invece, vedendo un tale vuoto, se ne guardano bene dal prenderne i contatti, e giustamente se ne allontanano.*

In quanto a sofismi Severino ha fatto impallidire persino Hegel: la sua grammatica filosofica – nella migliore delle ipotesi – si basa su un puro nulla, e nella peggiore sulla distorsione dei concetti.

Severino viene confutato dalla filosofia stessa: con un minimo di conoscenza di Platone e Kant, ci si rende conto di tutta la fantasmagoria della sua teoresi. Magari qualcuno potrà trovare giovamento davanti alla dimostrazione dell’Eternità di tutti gli essenti, ma si tratta di fede e non di sapienza, quella stessa fede che animò Anselmo quando si prodigò con la prova ontologica dell’esistenza di Dio.

Una regola pratica per valutare uno scrittore di filosofia è leggere le prime pagine. Se uno scritto si presenta contorto, pieno di rimandi a ciò che deve essere ancora detto e spiegato, ed infine inconcludente fin dall’inizio, si può star certi che si giungerà alla fine senza ricavarne nulla. Nel caso di Severino non c’è bisogno di leggere l’intera e vasta mole dei suoi 50 scritti per capire che è un sofista, bastano le prime pagine della sua Struttura Originaria.

Da questo scritto si comprende che la prima cosa che sta a cuore al maestro è incanalare il libero pensare del lettore, di modo che questi lo segua sul suo terreno tortuoso senza farsi troppe domande. È l’esatto contrario dell’operazione filosofica, la quale deve liberare il pensiero in luogo di incatenarlo. Quindi, nella sua opera emerge palesemente l’antifilosofia per eccellenza e l’eccellenza della sofistica.

Per Severino non c’è il Thaumazein come inizio di ogni filosofare: per lui è tutto chiaro, “ogni cosa è se stessa e non altro da sé”: e questo, – insieme alla conseguente impossibilità che il divenire sia, basta per aver risolto e sciolto tutti gli enigmi e le contraddizioni di questo mondo. Il mondo, per Severino, non è più un fenomeno contraddittorio dove si può affermare in senso eracliteo che le cose sono e allo stesso tempo non sono; no, il mondo è già inconfutabilmente una cosa in sé, chiara e incontrovertibile, un essente somma di tutti gli essenti.

Il principio di opposizione del positivo e del negativo – di cui parla – è un rifacimento maldestro dei principi di identità e di non contraddizione enunciati da Aristotele, o, se vogliamo dire meglio, – visto che la buonanima del maestro lo presenta come un qualcosa di originario – è un tentativo di spiegare, attraverso un linguaggio articolato e una confusione inaudita, in cui si mescolano i piani (fenomenologico, semantico, ontologico e logico), l’opposizione reale delle forze (lo Yin e lo Yang cinese), che nell’ambito della rappresentazione viene formalizzata con l’opposizione del soggetto con l’oggetto. Quindi, di cosa sta parlando Severino? Che forse di qualcosa di originale?

Ora, affinché le mie accuse non rimangano campate in aria e senza base d’appoggio, per supportarle entriamo meglio nei dettagli del suo “pensiero”, argomentiamole sì da metterle sul piedistallo.

Innanzitutto, perché occuparsi di Severino? Perché sprecare parole per un personaggio il cui pensiero è, in ultima analisi, indifendibile, viste le assurdità che presenta?

Perché Severino è un po’ l’emblema dello stato penoso in cui versa la filosofia oggi, e rappresenta, insieme a tanta gente, un ostacolo enorme alla divulgazione della vera filosofia e un danno per i giovani che le si avvicinano e che ancora non hanno idee chiare di cosa sia tale disciplina. Inoltre, egli – in un certo senso – simboleggia la causa indiretta della situazione drammatica in cui devono vivere i veri filosofi, costretti ad annaspare, a stare ai margini, a pagare di tasca propria le pubblicazioni e a rimanere ignorati (come il sottoscritto e tanti altri).

Quindi qui dobbiamo sforzarci di parlare di costui e di chiarire alcuni punti.

Di Severino me ne sono occupato molti anni fa, non per studiare filosofia eh, – sia ben chiaro – ma per ricavare dei fatti, e quindi ho dovuto leggere almeno le opere dove lui imposta i fondamenti del suo pensiero.

Ebbene, da queste opere emerge tutta la nullità filosofica di un professore che somiglia più a un pazzo che a un saggio.

Tralasciando la prolissità, l’autoreferenzialità, l’astrattezza, le aporie e i cavilli inutili su cui il Nostro compone intere pagine – cose già di per sé gravi e inaccettabili in filosofia e per chi si propone di fare divulgazione filosofica – c’è da dire che il pensiero di Severino si increspa in assurdità e paradossi.

Per Severino, la storia della filosofia occidentale è storia di un errore, una “follia” in cui sono maturate le forme della nostra civiltà (arte, scienza, cultura, politica, tecnica, religione, etc.). Questa follia – secondo lui – consisterebbe nella dimenticanza dell’autentico senso dell’Essere, intravisto per la prima volta da Parmenide.

Tuttavia anche Parmenide è, per Severino, il primo responsabile del tramonto dell’Essere, perché anche per lui le cose del mondo sono nulla. Parmenide relega i fenomeni al nulla, come ha fatto anche Platone, pur correggendolo. Ma per Severino i fenomeni non sono nulla; le cose del mondo (gli enti, tutte le cose di cui è possibile in breve predicare l’esistenza tramite la copula) sono anch’esse Essere. Quindi Parmenide sbagliava, e Platone sbagliava doppiamente, perché anche se quest’ultimo riconosce l’errore di Parmenide, lo corregge male, facendo oscillare le cose del mondo tra l’essere e il nulla. In questa oscillazione le cose diventano preda del nulla, proprio quel nulla che – secondo Severino – non può essere.

Se l’Occidente è il risultato di questo modo di pensare, significa che per l’occidente le cose escono dal nulla e tornano al nulla: e ciò è inaccettabile, perché tutto è eterno per il nostro solone.

Le parole e le formule più ricorrenti nelle chiacchiere di Severino sono Essere, Essenza, Essenzialmente, Essente, Destino, Necessità, Nichilismo, Pensiero dell’Occidente, e si trovano spesso frasi di questo tipo: «La struttura originaria del destino della verità è l’apparire del senso autentico dell’impossibilità che ciò che è sia il proprio altro e quindi non sia». Il divenire è dunque un’impossibilità per Severino. Niente diviene, c’è solo l’Essere Eterno. Ma eterno è anche ogni ente; eterno è anche ogni singolo pelo del culo.

Ora, prendiamo un oggetto qualsiasi, come la penna che ho sotto gli occhi in questo momento. Tutti siamo d’accordo nel dire che questa penna esiste. Certo, possiamo discutere sulla modalità d’esistenza e chiederci se esista come cosa in sé, indipendentemente dal fatto che la percepiamo con i sensi, o se invece esista come una rappresentazione mentale, magari nella forma di un’allucinazione collettiva. Ma, al di là di ciò, tutti siamo d’accordo nel dire che questa penna esiste, seppure come fenomeno, giacché il mondo è tutto un fenomeno; lo siamo anche noi tutti: cosa che evidentemente Severino ignora. Ciò che esiste come fenomeno non ha l’essere vero e proprio, perché di una cosa che oggi esiste e domani non esisterà, non si può dire che abbia una vera e propria esistenza in sé: questo ragionamento semplice, filosofico, evidentemente è estraneo alla mente di Severino, per lui tutto è essere sé, in barba a Kant e Schopenhauer.

Supponiamo ora che io bruci questa penna con un accendino. Dopo qualche istante, al posto della penna avremo a che fare con un groviglio di plastica fusa. Questo passaggio lo possiamo descrivere in modo molto semplice: nel processo di combustione la penna va pian piano trasformandosi in un groviglio di plastica. Un groviglio di plastica non è una penna, è altro. Se il fuoco interviene a modificare la penna in un groviglio di plastica, allora la penna cessa di essere tale, e al suo posto subentra il groviglio di plastica. Noi ci chiediamo: che ne è della penna quando, per effetto del processo di combustione, al suo posto subentra un informe groviglio di plastica? La risposta non può essere che questa: la penna come tale non è più, è finita nel nulla. Eccoci al punto: abbiamo appena descritto il divenire di un oggetto nei termini di un passaggio dall’essere al nulla, avendo momentaneamente trascurato, per comodità di ragionamento, che siamo sempre confinati nel fenomeno, dove leopardianamente tutto è nulla. Quindi, prima la penna esisteva, ora non esiste più; prima apparteneva al dominio dell’Essere fenomenico, ora invece appartiene al dominio del non Essere.

Come sappiamo Severino rifiuta questo modo di intendere il divenire. Egli rileva in questa definizione una clamorosa quanto inavvertita violazione del principio di non contraddizione, che lui applica in senso sbagliato. Quando diciamo che qualcosa ha cessato di esistere, ed è quindi finito nel nulla, secondo Severino stiamo prefigurando una situazione impossibile nella quale il nulla diventa il predicato di quel non-nulla in cui la cosa consiste. Pensare una situazione in cui la penna è divenuta nulla significa, in altri termini, pensare una situazione in cui una determinata configurazione della materia – che, certo, è altra cosa dal nulla – si è fatta identica al nulla, il che per Severino è impossibile.

Ma qualsiasi persona di buon senso e dal retto senso filosofico si rende immediatamente conto che fintanto che la penna esiste, essa è certamente altro dal nulla: è quando cessa di esistere che la penna diventa identica al nulla. E di ciò che non è non è affatto contraddittorio affermare il non essere.

Ora, dice Severino, se un ente esiste in tutta la sua realtà, esso non può divenire nulla, il contrasto è troppo stridente. Noi ora esistiamo nel presente, siamo i possessori di questo effimero momento. Ebbene, il fatto che esistiamo e che appariamo, cioè il fatto che abbiamo un’identità, insieme ad ogni cosa di questo mondo, è già motivo sufficiente per definirci eterni e immortali: per questo egli definisce gli enti essenti e gli tributa l’eternità, l’assolutezza (sic!).

Ma non basta. Nominare qualcosa per Severino è già “mostrare” che qualcosa esiste, non importa la modalità della sua esistenza e cosa essa sia, se un ippogrifo o una cosa reale come una penna. Con ciò tuttavia Severino non intende che quella cosa abbia lo statuto reale dell’essere, ma solo lo statuto dell’essere generico (sic!). Per Severino la “struttura” non è altro che la forma in cui una qualche cosa viene ad essere (nominata) tramite il linguaggio. Questo significa logicamente che quando dico niente (o nulla) mi riferisco già a qualcosa, il cui carattere è genericamente inteso come negazione.

Il “ragionamento” di Severino, in sostanza, è del tipo: A=legna, B=cenere. Noi diciamo che la legna si trasforma in cenere. Ma secondo Severino questo significa che A deve smettere di essere A e divenire nulla, e B che prima era nulla deve incomincia ad essere, cioè esce dal nulla. Perché dice questo? Perché alla fine della trasformazione non si vede A, se si vedesse non avrebbe senso parlare di trasformazione. Viceversa, all’inizio non si vede B ma solo A; di conseguenza anche B è necessariamente ancora un nulla: tutto questo è impossibile e incoerente.*

Egli interpreta il Nulla e l’Essere come assoluti, e non capisce che sono solo relativi. Si tratta di una piccola differenza che crea grandi malintesi. Tutte le contorsioni severiniane nascono dal fatto che Severino non vede che questo mondo è un mondo fenomenico, e come tale ha il carattere della dualità: esso è e non è: e questo essere è un essere relativo. Se poi vogliamo seguire Kant, per renderci le cose intelligibili, dividiamo e teniamo separati il fenomeno dalla cosa in sé. E allora il fenomeno è certamente diveniente; ma il nulla in cui le cose, in questo divenire, vanno a finire – e da cui provengono, è un nulla relativo (e così anche l’essere): questo è ciò che chiamiamo Trasformazione, Divenire. Le cose non vengono da un nulla assoluto e non vanno a finire nel nulla assoluto, ma vanno e vengono da un nulla relativo, perché abbiamo a che fare – ancora una volta – con un mondo fenomenico, un mondo di relazioni: ciò che Severino ignora.

Noi, prima di nascere eravamo nulla, ma esistevano i nostri genitori (da cui proveniamo), quindi eravamo un nulla relativo: e così sarà dopo la morte. In questo senso è valida la legge di Lavoisier. Viceversa, secondo il ragionamento malsano di Severino, che parla per assolutismi senza capire che siamo in un mondo fenomenico, il nulla è assoluto; e siccome questo è impossibile, cioè è impossibile che esista il nulla assoluto (e tanto meno che le cose provengano da esso), tutto ha l’essere. Si tratta di un ragionamento infantile che porta a conclusioni paradossali. Il divenire è il passaggio dall’essere fenomenico delle cose al non essere fenomenico delle stesse: e quindi stiamo parlando di relazioni, di un mondo relativo (e non assoluto).

Ma Severino afferma implicitamente che la sua dottrina non parte dalla [sua] coscienza [umana] finita (come dovrebbe essere e dalla quale sono partiti tutti i filosofi della modernità a partire da Cartesio con il suo famoso cogito ergo sum). No, Severino vede le cose da una coscienza infinita trascendente la sua dimensione umana, nella quale sono contenute tutte le coscienze finite. Da questa infinità Severino dice che appaiono tutte le cose, tutti gli eventi e tutte le relazioni, che però, essendo infiniti, eterni etc., non hanno il carattere della materialità (e quale carattere dovrebbero avere, visto che apparire e materia sono inseparabili? Boh!). Quindi, Severino è un mistico, anzi un Dio sceso in Terra, che si presenta però come un teologo laico che ha scritto una specie di Bibbia laica dettata da qualche Dio laico. Allora, come ho già detto, lo si può accettare solo per fede, in quanto ha costruito palesemente una teologia invece che una filosofia. In tal caso non c’è confronto, perché fede e sapere corrono su due diversi binari che non si incontreranno mai.

È evidente che i suoi seguaci non lo comprendono razionalmente, ma lo accettano per fede, sulla base di un elemento emotivo che subisce il fascino delle assurdità. Il suo sistema, eretto al rango di neo-tautologia assolutizzante, presenta delle gigantomachie poderose e temerarie, con l’anelito all’illimitato, che affascinano ed estasiano i coglioni come sotto l’effetto di una sostanza stupefacente.

C’è una forma di controllo della mente chiamata gaslighting; essa fa dubitare, chi ne è vittima, della verità della sua realtà. E’ una modalità di manipolazione intellettuale ed emotiva, in cui in una persona o in un gruppo si generano distorsioni nella percezione e nel giudizio. Questo è l’effetto dell’opera di Severino sui severiniani, il gaslighting, la manipolazione psicologica e intellettuale nella quale vengono presentate alla vittima false tesi con l’intento di farla dubitare della sua stessa ragione.

Del resto, il nostro simpatico filosofo non riconosce nemmeno che la presunta Struttura Originaria è un rifacimento maldestro dei principi di identità e non contraddizione già enunciati in maniera semplice e inoppugnabile da Aristotele. Ora, siccome il nostro amico filosofo, nella foga di presentare la sua gigantomachia poderosa, non può riuscire a cogliere il senso retto delle cose, nemmeno riconosce che quei principi sono principi della logica, e come tali non possono autofondarsi, ma vanno spiegati su una base metalogica. Certamente per la logica sono principi primi e incontrovertibili; ma non per la metalogica e per la metafisica.

Per fortuna Kant si è chiesto: a) Com’è possibile la matematica pura? b) Com’è possibile la fisica pura? c) Com’è possibile la metafisica in quanto disposizione naturale? d) Com’è possibile la metafisica come scienza? E sappiamo le risposte che ha dato, fondando la dottrina delle categorie a priori e tutto il resto. Infatti, è questo il punto.

Prima di parlare di strutture autofondantesi, è necessario chiedersi, molto più correttamente e onestamente: come io penso? In altre parole, qual è il principio di ragione? Ecco che, primariamente, va enunciato questo come principio metalogico da cui seguono i principi logici, primi fra tutti quelli d’identità e di non contraddizione.

Ma Severino, ignorando duemila e passa anni di filosofia, ignorando lo γνῶθι σεαυτόν (gnōthi seautón, nosce te ipsum) greco iscritto nel tempio di Apollo a Delfi e ignorando tutte le indagini della filosofia moderna che, a partire da Cartesio, ruotano intorno al soggetto, pensa ancora – alla maniera infantile – che l’uomo, – e nella fattispecie la coscienza umana, sia qualcosa che si possa spiegare sulla base di una coscienza infinita che vede l’apparire infinito, esattamente come i teologi credono che l’uomo si spieghi per creazione di Dio: e così si lascia cadere il dato immediato (la coscienza umana), con il quale le cose si spiegano in maniera razionale, per raccogliere un dato mediato ed erigerlo sul piedistallo dell’assoluto, con il quale le cose vengono spiegate per fede, e quindi in maniera irrazionale.

Di conseguenza, invece di spiegare il dato mediato con quello immediato, fa esattamente l’opposto, spiega il dato immediato con quello mediato, e non si accorge nemmeno che è pur sempre il soggetto, attraverso la sua coscienza animale (che è il dato immediato da cui non può sortire fuori nessuno), a costruire tutta la fantasmagoria.

Che la fede la si riponga in un Dio o in una struttura originaria dell’apparire infinito, poco importa, perché nulla cambia nella sostanza: sempre di fede si tratta. Se poi qualcuno volesse obiettare che Severino ha dalla sua un presunto rigore logico con cui “dimostra” la sua struttura originaria attraverso il laborioso processo di confutazione di ogni sua possibile negazione, sottoponendo il fondamento a ogni sua possibile negazione e mostrando come codeste negazioni risultino autocontradditorie perché tentano di negare esplicitamente una struttura che ammettono implicitamente (perché fondate sulla struttura stessa che intendono negare); se si obietta tutto questo si deve rispondere che anche Anselmo d’Aosta e Tommaso d’Aquino avevano il loro rigore logico, poiché il primo presentò l’argomento ontologico e il secondo le 5 vie per dimostrare l’esistenza di Dio: ma il genio di Kant li fece a pezzi, così come cade in pezzi ogni struttura originaria di fronte alla critica della ragion pura.

Ammettendo una struttura simile, si scavalcano tutte le indagini più profonde e altamente significative sulla natura, da cui erano partiti già i filosofi presocratici; ignorando che l’uomo è innanzitutto un animale [razionale] e che quando si parla di coscienza si deve parlare di una coscienza animale, di una coscienza che poggia necessariamente sull’animalità; e quindi la coscienza va intesa come finita, limitata, relativa, mortale, tale che se viene a mancare questa viene a mancare necessariamente anche il mondo.

La coscienza non va intesa come coscienza assoluta, infinita, eterna etc.: così si ribalta la verità, si crede il contrario, vale a dire che la coscienza umana sia una proiezione finita di una coscienza infinita, senza chiedersi da dove sia stata partorita questa idea della coscienza infinita. Di cosa stiamo parlando, di una ragione che vede l’Assoluto forse? Ma Severino non può farsi questa domanda, perché se se la facesse, scoprirebbe l’orrore, cioè che è lui stesso, in quanto essere finito e animale, ad averla creata con le categorie a priori della ragione.

Ora, se è vero ciò che diceva Nietzsche, che non esistono fatti ma solo interpretazioni, è pur vero che esistono interpretazioni più interpretabili e interpretazioni meno interpretabili: solo queste ultime aderiscono meglio ai fatti e sono più filosofiche.

Per concludere, Severino non ha fatto filosofia, lo ha fatto credere a molti che non vedono l’assurdità del suo discorso involuto in un periodare tautologico e insignificante (è assurdo dimostrare che la rosa é nera quando qualcuno la mostra bianca o rossa).

Questo professore rappresenta la banalizzazione della filosofia: entificando tutto, conferisce realtà assoluta ad un mondo fenomenico (cioè che appare), che per le profondissime dottrine orientali è illusorio, o meglio apparente. Inoltre, eternizzando ogni cosa, ogni fatto di questo mondo, il maestro preclude la possibilità di redenzione e quindi di liberazione dal male, dalla miseria, dalla sofferenza e dalla morte, sbarrando la via all’etica ascetica che è il momento della liberazione e del risveglio, punto più alto di ogni filosofia che si rispetti.

E non è un caso che il pensiero di Severino manchi di un’etica: cosa gravissima e imperdonabile!

Andrea Grieco

Novembre 2020

Fonte: Comedonchisciotte.org

Note:

* Scrive Schopenhauer: “[…] Anzitutto però tali filosofi universitari cercheranno di dare alla filosofia la direzione che corrisponde agli scopi cari, o piuttosto raccomandati, al loro cuore, plasmando e travisando a questo fine, in caso di necessità, le dottrine dei veri filosofi precedenti, sino al punto di falsificarle, perché ne risulti quanto essi desiderano. Dal momento dunque che il pubblico è tanto infantile da rivolgersi sempre all’ultimo venuto, e dato che i loro scritti si qualificano pur sempre come filosofia, ne viene di conseguenza che attraverso l’insulsaggine, l’imbecillità, l’assurdità, quanto meno la noia torturante di tali scritti, i buoni cervelli che sentono attrattiva per la filosofia rimangono spaventati, cosicché la stessa filosofia a poco a poco viene in discredito, come per l’appunto è ora il caso. Questi signori però, non soltanto sono poco brillanti nelle loro produzioni, ma inoltre, come risulta chiaro da tutto il periodo posteriore a Kant, non sono neppure in grado di mantenere saldamente e di conservare le opere delle grandi menti, riconosciute come tali, e quindi affidate loro in custodia. Non si sono forse già lasciati togliere di mano la filosofia kantiana da Fichte e da Schelling? Non nominano ancor oggi continuamente, in modo scandaloso e infamante, quel fanfarone di Fichte accanto a Kant, quasi ne fosse un eguale? Dopo che i suddetti due filosofastri ebbero bandito, chiamandola antiquata, la dottrina di Kant, non comparve forse, a sostituire il rigido controllo stabilito da Kant per ogni metafisica, la più sfrenata fantasticheria? E questi signori non hanno forse partecipato bravamente al gioco, o altrimenti, non hanno comunque tralasciato di opporvisi nettamente, con la Critica della ragione alla mano? […]”.

* L’identità e la differenza si implicano vicendevolmente, e la coscienza è il punto focale dove avviene il processo di identificazione delle cose. Questo consente di dire che, preso un qualsiasi oggetto, esso permane come un che di sostanziale e riconoscibile, come un sé in mezzo agli altri oggetti, nonostante il mutare dei suoi attributi e il variare delle condizioni, – perché, accanto ai vari oggetti che si manifestano alla coscienza, questa lo unifica e lo completa in un dato modo, identificandolo, rendendolo comprensibile, coerente e sensato al variare dei suoi accidenti. Cosicché noi possiamo dire che lo stesso oggetto è nuovo e poi diventa vecchio; lo stesso albero è florido e poi malato; lo stesso animale è giovane e poi vecchio; lo stesso uomo è adolescente e poi anziano etc.. Severino, al contrario, bypassando la coscienza animale dove tutta l’esperienza si focalizza come esperienza immediata, la quale consente di fare il ragionamento testé fatto, introduce una super-coscienza cosmica e incondizionata, nella quale viene assorbita la coscienza animale, ossia la nostra insieme all’immediato dell’esperienza. In questo modo, per garantire l’identità degli oggetti, che deve porsi alla minima variazione, Severino precipita in una differenziazione infinita, incontrollata e scriteriata, smembrando completamente l’unità della coscienza soggettiva, svuotando il modo in cui essa si rappresenta gli oggetti e la totalità del mondo. Così, uno stesso oggetto, per Severino, dovendo per necessità subire infinite variazioni, resta se stesso solo nei suoi momenti infiniti, cioè mai nella pratica, essendo l’infinità un’astrazione. È chiaro che, nel suo ragionamento, ogni oggetto non sarà mai se stesso, allo stesso modo che Achille non raggiungerà mai la tartaruga, dovendo lo spazio dividersi all’infinito. Queste sono le assurdità in cui il professore sconfina.

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