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La Redazione

 

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SONAR 2012, CRONACA DA UN INVIATO PARTICOLARE

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A cura di Truman
Il 16 Giugno 2012
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Di Luca Pakarov


rollingstonemagazine

Nella Spagna della ipercrisi e del salvataggio delle banche (che si traduce – anche se il presidente Rajoy non lo ammette – nell’abbandono della sovranità nazionale), dove solo il tiki-taka delle Furie Rosse, al contrario dell’ascesa economica, sembra aver resistito alla forza illusionistica di un paese che fino a qualche tempo fa sembrava aver sbancato il casinò, a noi, bamboccioni di professione, non rimane che ballare sulle macerie della penisola iberica e scatenarci sopra la carogna ammuffita dell’Europa fottuta.Al ritiro accrediti del Sonar destiamo qualche sospetto visto che sono l’unico giornalista senza una penna né tantomeno un portatile e che, il fotografo ma soprattutto mio amico, Felipe Almendros, qui conosciuto per i suoi fumetti (l’ultimo R.I.P. pubblicato con Mondadori, è stato considerato uno dei migliori dell’anno – un po’ di pubblicità fratello), non ha una macchina fotografica e davanti all’accreditante mi domanda: “Ma veramente dovrò fare delle foto?”.
“Sarebbe meglio”.
“E come si fanno?”.
“Devi premere un bottone, suppongo”.

Una mezza idea iniziale prontamente abortita l’avevamo avuta, quella di presentarci con due camicie hawaiane come Johnny Deep e Benicio Del Toro, ma sarebbe stata una caduta di stile e di originalità senza pari, oltreché una cafonaggine, così, in occasione dell’inaugurazione del Sonar 2012 di Barcellona, il più importante festival di musica elettronica d’Europa, io mi limito a indossare una maglietta dei Megadeath, Felipe una bucherellata dei Suicidal Tendencies. Quasi ci chiedono le impronte digitali poi ci bardano con una fascetta color oro e per una volta ci sentiamo valere qualcosa solo che, quando allunghiamo le mani in una tavolata di panini in Press area, un energumeno figlio di puttana ci stoppa, e ci scaccia.

Mettiamo bene in mostra il tesserino ma non cambia niente. Giriamo a testa bassa con una profonda frustrazione (e fame) e con la velocità della luce il Sonar ci sta sulle palle.

Giovedì, iniziamo, beh, si fa tardi perché farsi prestare una reflex scopriamo non è la cosa più facile di questo mondo. Il Sonar, quello di giorno almeno, si svolge al MACBA, il Museo d’Arte Contemporanea, nel Raval e io in queste strade anni fa ci ho trascorso diverse primavere; nell’anno 2012, non posso fare a meno di sputare un po’ di fiele in una corrosiva retrospettiva su quello che i signori del righello, con i loro piani di riqualificazione (si riqualifica solo per chi ha la grana), hanno combinato a questo storico quartiere (una volta barrio Chino), facendolo diventare un parco giochi per ubriaconi dilettanti, normalmente biondi dagli occhi azzurri che, a qualsiasi ora del giorno e della notte, con una cravatta annodata sulla fronte, sbottano nei sombrero comprati a caro prezzo nelle Ramblas (perché poi ‘sti idioti si comprano un sombrero in Spagna?).

La cosa che ti fa incazzare è che questi coglioni nella moderna Barcellona non corrono neanche il pericolo di essere stuprati da un viado, anche loro riqualificati in periferia. Se la spassano e basta. Molto meglio quando si rischiava la vita e può darsi per questo la movida era più discreta, più bohémien. La gente migliore la trovavi nei bar illegali, zone franche in cui entravi solo se qualcuno nel cuore della notte, con la voce di Belzebù e gli occhi di Charles Manson, ti suggeriva il campanello da suonare o una scala da scendere. Tutto ciò non ha a che vedere con il Sonar, o forse in parte, comunque doveva essere detto. Anche perché non ho troppi argomenti musicali e devo allungare il pezzo.

Ma torniamo – poco – al festival che, malgrado questa divagazione (utile per le vostre vacanze), rimane un bellissimo festival.
Si fa prontamente una considerazione. Se Sebastian Vettel vincerà il prossimo gran premio sarà sì grazie alle nuove scoperte aerodinamiche ma soprattutto per tutto il cazzo di Red Bull che qua dentro si consuma. L’unico odore molecolare, oltre a quello di sudore e di marijuana, totalmente sempre isolabile dagli altri. Per noi signorini della stampa specializzata c’è anche un bar appartato, ma le birre costano come quelle della plebaglia fuori. Allora riempiamo la nuova fiammante borsa Adidas omaggio del Sonar dai pachistani abusivi che, all’esterno del MACBA, si aggirano a branchi come selvaggi nella speranza di appiopparci una risma di latte. Sono i banali trucchi della stampa specializzata.

Alle 18.30 c’è Flying Lotus, un negrone che fa impazzire la folla ma il fotografo fumettista domanda:
“Non era meglio se ti mandavano agli europei?”.
“Dici?”.

A buon intenditor poche parole. Finisce qui insomma, anche se amici ci telefonano entusiasti avvisandoci che, pure se fuori programma (o per lo meno quello che hanno rifilato a noi), alle 22 ci saranno i New Order per l’apertura del Sonar di notte (shut up, torneranno pure sabato). Gli inviati, a quell’ora, vaffanculo, sono da un pezzo davanti un plasma di una bettola del Raval con l’intento di studiare le strategie della Spagna campione d’Europa che, ahimè vecchio Trap, muove le sue mosse contro una squadra di paralitici in casacca verde e, con tutto il rispetto, se ne fregano altamente della musica elettronica e di cadaveri resuscitati con chitarra e sintetizzatori.

Oggi, Dio volendo (che si arrivi sani e salvi a domenica è pagato 30 a 1 anche dai colleghi), ci aspetta gente come l’inglese Trevor Jackson, Jacques Greene, di nuovo Flying Lotus (che mi suona solo perché ha qualche parentela con John Coltrane), Mouse on Mars, di giorno, e un altro centinaio di elettromusicisti la notte e di cui, sinceramente, gli inviati allo stato attuale ignorano praticamente l’intero curriculum eppure sanno delle cose essenziali, come per esempio che Lana Del Rey è una bella figa e la musica di Fatboy Slim è stata la colonna sonora di Fifa 99 con cui hanno vinto in coppia diversi, gloriosi, campionati virtuali. Bei tempi. O il dj James Blake rivelazione inglese e vera star di tutto questo accampamento di bipedi fusion tendenzialmente ben disposti (così me l’ha venduto una sorcetta americana che calzava una specie di melanzana sulla capoccia. Chiunque tu sia, ti amo). Siamo a cavallo. Sarà una pacchia. Noi ci saremo, abbiamo diverse ideucce balorde da mettere in pratica e che racconteremo, sempre che qualcuno ai piani alti non legga questa roba e ci trasformi in ospiti non graditi. Sarebbe il più grande successo.

Luca Pakarov
15.06.2012

Link: http://www.rollingstonemagazine.it/musica/notizie/sonar-2012-cronaca-da-un-inviato-particolare/54454

Risvolti e dolori di tre giorni di elettromusic

Ormai ci siamo e bisogna fare tutto il lavoro, anche quello sporco. Cercare a tutti i costi di capire ma anche divertirsi e, allo stesso tempo, non lasciarci le penne. Così, visto il bordello che mi circonda, vado a parlare con Ricardo Robles, co-direttore del Sonar che mi fa notare come la crisi, almeno in questo settore, non si veda. Numero di entrate di quest’anno 98.000, 25.000 nel Sonar notturno in cui si esibiscono i nomi più importanti. Spagnoli e inglesi i più numerosi, poi il resto del pianeta. Giornalisti accreditati da 40 paesi (per dire che non c’è da sentirsi troppo speciali).

Queste notizie dovrebbero far riflettere un minimo perché se sono le feste a non fermarsi quando l’intero paese è bloccato, siamo vicini all’apocalisse. Al punto che col fotografo trascorro tre ore instupidito sotto il tendone del SonarDome, a causa dell’ipnosi di un pesante tunz tunz e all’improvviso sbrocco, a due mentecatti lì di fianco grido: “Che cazzo fate? Non vi rendete conto che non ce la farete mai? A domani non ci arriverete mai stronzi!”. Ma sorridono e alzano il bicchiere in segno di salute mentre i piercing sui capezzoli saltano da una parte all’altra. Braccia e gambe in moto perpetuo, che energia! Col senno del poi, ora che sono costretto a una salvifica cura di Moment, Imodium e Plasil, spero che ogni signore lì dentro sia stato strafatto come un cavallo da corsa perché altrimenti, di serie, a me hanno montato un volano difettoso. Ma tanti essere umani che ballano per così tanti giorni ci rende tranquilli almeno sugli anticorpi e sulla certa sopravvivenza della specie. C’è un senso di selvaggia libertà che come gas euforizzante alimenta un vasto movimento strabico consumato in queste melodie storicamente pericolose. Un desiderio di vivere e di sterminare coesiste e sfocia in un parossistico gemito elettronico che ci tortura e ci compiace. Ufff… È chiaro? questa frase l’ho presa dagli appunti del sabato… Un motivo ci sarà se lo pensavo.

Detto questo, rimane un caos lungo tre giorni, dato che il tutto si è svolto sopra un veloce flusso di luce, un arcobaleno della forza di un milione di megaton, su cui stati allucinatori e riff del sistema nervoso si sono alternati ad ignifughe collassate sotto il sole criminale della Barcellona di giugno o nell’infruttuosa ricerca di quadrifogli sul prato sintetico. In compenso abbiamo trovato diverse monete e… dei funghi, voglio dire… Insomma non chiedete un ordine cronologico a questo pezzo perché il tempo ha preso una strana traiettoria involutiva, in cui il sopra è finito sotto e il sotto sopra, che non significa niente, ma proprio per questo ha senso in codesto contesto. Mi vendo subito quelli che secondo me sono stati i migliori spettacoli (che forse coincidono pure con quelli che ricordo): primo premio ai tre Die Antwoord, Ninja e Yo-Landi ci hanno maltrattato abbastanza per farci capire che non basta strillare dentro un microfono per essere dei figli di cane di talento. Satana (Ninja), che pare appena uscito dal carcere e lei, una piccola bomba atomica di cattiveria, fra tanta immondizia, sono stati una vera oasi, capaci di strapparci il cuore. Ci doveva essere un motivo se quel genio che va sotto il nome di Harmony Korine ha pensato di ritrarli in un cortometraggio a dir poco pazzesco…

Poi sì, i vecchietti New Order fanno pure la loro discreta parte, anche se mi aspettavo qualcosina in più, ma sono cardiopatici e ogni tanto sembrava che la voglia l’avessero dimenticata sulla spiaggia della Barceloneta. È pure l’età, certo ma che cazzo, però.
Quando a una certa, dopo esserci confessati di alcune mie malefatte con un oscuro personaggio rivestito di tatuaggi, ci rendiamo conto che la caviglia sinistra va da sola, le spalle ondeggiano, con le mani rigide affettiamo fantasmi, puttana troia sono le 4 di mattina e ci siamo trasformati in uno di loro. Causa principale è deadmau5, il topo morto che con la sua maschera di sorce elettronico ci fa ballare e pure se ci reggiamo in piedi per miracolo e pensavamo di aver lasciato gli ultimi respiri sul campo dei The Roots, una parte sconosciuta del nostro cervello tira fuori una buona dose di energie che ci spariamo in almeno un’ora forsennata di follia. Cioè dal purgatorio finiamo diritti all’inferno, solo andata. Felipe, il fotografo, invece dalla borsa della reflex tira fuori una bottiglia di J&B di cui, per solidarietà (non controllavano le borse degli accreditati), rivendiamo a caro prezzo un paio di bicchieri. A proposito, uno di The Roots ci dice: “Ci vediamo a New York!”. Col cazzo, noi vogliamo rimanere qui, a meno che te non paghi l’aereo. Siamo felici ma anche aggressivi, in posti del genere siamo abituati a stare sulle difensive.

L’allarme rosso era scattato credo il sabato pomeriggio quando, martoriati dal sole e con la voglia d’insultare qualcuno senza motivo, ci sembrò che tutti stessero lì lì per scopare meno che noi. Non riuscivamo proprio a farcene un’idea. Come prima strategia abbiamo cercato d’importare lo Sconvolt Quiz spacciandoci direttamente per la televisione italiana e fingendo di registrare col telefono. Ma non eravamo in grado di verbalizzare le domande; ho pagine di appunti e operazioni che se finisse in mano alla Guardia Civil basterebbero per qualche annetto di gattabuia. Per niente rassegnati ci siamo giocati la carta più semplice: la notorietà. Facile è stato chiedere a ogni fanciulla poco vestita e barcollante di posare per improbabili foto che sarebbero finite su Rolling Stone, difficile è stato, per noi giornalisti dall’accentuata sensibilità e velati da un romanticismo di altri tempi, controllare le smascellanti, le pedanti, le androidi robotizzate chi ti prendevano per un braccio e ti facevano fare una piroetta, chi in cambio chiedevano una birra. Pensavamo bastasse il nostro tesserino per scopare ma la fama, che chiaramente è la nuova aristocrazia, è stato il motivo dell’ennesimo fallimento. L’unica caduta nella trappola è una collega spagnola della rivista (?) Terra che, felice di far serata con due così bei figlioli della stampa straniera, ci guida soddisfatta da Lana del Rey, nell’altro padiglione, ma nel mezzo, fra un hangar e un altro, vediamo una pista di autoscontri. Non ci pensiamo su un secondo, viriamo a destra e molliamo lei e Lana del Rey per provare l’esperienza di guidare in una bolgia di autisti sbronzi, fatti di anfetamine e Mdma. Scopri allora che mettere tanti soggetti allucinati alla guida crea un sorta di ordine preaurorale, un’autogestione dello spazio vigilato dalle sostanze stupefacenti in cui la competizione e il frontale sono, a un livello onirico, come conseguenza fisica di un piacere perverso dell’autodistruzione (dai, passatemela, il Cronemberg di Crash). Sempre meno pericoloso del Raccordo anulare alle 6 di pomeriggio. Tecnicamente per quanto ci riguardava il mondo potrebbe continuare così all’infinito, con Lana del Rey lontana da noi, una giornalista offesa ad aspettarci, se non bisognasse inserire un gettone o che le droghe avessero una scadenza precisa.

A quel punto va tutto a puttane, non abbiamo un programma e camminiamo come randagi, crediamo che stiamo di fronte agli Hot Chip ma ci sorge un dubbio quando ci accorgiamo che sono due negretti a muoversi sul palco. Ci facciamo un amico, un soggetto estremamente interessante che si scola tutte le birre lasciate a metà (merce rara! Mica facile!), stritola i suoi denti in una morsa che gli contorce tutta la faccia e, quando riesce ad aprir bocca, prima lo crediamo tedesco, poi catalano e infine esce fuori che è italiano e cerca di istruirci su un qualche tipo di economia che salverà il mondo. Siamo in buone mani. E di questi aneddoti idioti potrei riempire altre venti cartelle ma poi chi se ne frega, finisce nel modo peggiore, quando usciamo due tizie ci fermano per fare un’inchiesta “quanti festival frequenti l’anno?”, “qual è il gruppo che più ti è piaciuto?”, “qual è lo sponsor che più ti ha colpito?” e roba del genere. A quella più caruccia le chiedo la mail, lei sorride ammiccando, ma sono le sei di mattina, non ne posso più ed ho altri obiettivi: “Domani ti invio il mio curriculum vitae, magari mi aiuti a trovare un lavoro normale”. Amen.

Ecco il video di Felipe Almendros…
src=”//www.youtube.com/embed/h1wEcibxftc”

Luca Pakarov
20.06.2012

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