Sul pensiero trinitario

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Di Flores TOVO

Comedonchisciotte

E’ necessaria una premessa da intendersi come chiarimento: lo scopo che persegue questo breve saggio è quello di rivelare come il pensiero triadico, che è in realtà quello dialettico speculativo, ossia quello della logica dei contrari contrastanti, sia stato, soprattutto durante l’epoca che si definisce cristiana, il pensiero che ha pervaso lo spirito dei popoli europei, poichè il cristianesimo si incentrava sui dogmi della Trinità e dell’Incarnazione. Tali popoli, quando divennero tutti cristiani, nonostante le loro differenze etnico-linguistiche, hanno partecipato ad una  storia comune, sebbene spesse volte conflittuale fra loro. La spiritualità cristiana ha fortemente condizionato non solo il loro agire, ma anche la loro cultura e predisposizione d’animo: in altre parole, essa, con questi suoi due dogmi fondamentali, sia in modo cosciente, sia in modo sentimentale, ha dato un’impronta, una personalità soggettiva e oggettiva al percorso storico del nostro continente. Sviluppandosi nel tempo, essa è diventata, perciò, storia: la nostra storia. E’ superfluo dire che su questo tema sono stati scritti migliaia e forse più di libri di teologia e celebrati altrettanti convegni da parte delle chiese cristiane, in particolare quella cattolica e quella luterana.

Bisogna però aggiungere che, sebbene si creda erroneamente che il pensiero trinitario appartenga interamente alla tradizione cristiana, esso è già presente nelle religioni pagane più antiche, come in quella egizia (Iside, Osiride ed Horus) e induista (Brahma, Vishnu e Shiva), le cui divinità principali erano intese in tal modo. Persino nel Neoplatonismo si trova una dottrina che era chiamata dei tre dèi: il primo veniva chiamato l’Avo, il secondo il Figlio, il terzo il Kòsmos (il mondo). Proclo, un tardo-neoplatonico, giunse a scrivere che la triade era composta dall’Uno, dall’Infinito e dal Limite. Inoltre, anche nel mondo primitivo si può trovare traccia della dottrina trinitaria in quasi tutte le religioni. Ma è col cristianesimo, col grande capolavoro di S.Agostino, il De Trinitate, scritto tra il 399 e il 419 d.c., libro che sarà il punto di riferimento di tutto il pensiero teologico cristiano successivo, che il problema del Dio trinitario (un problema di fede) sarà progressivamente sempre più approfondito. Già prima, il concilio di Nicea nel 325 d.c. (il cosiddetto concilio costantineo) aveva sancito l’appartenenza alla medesima sostanza (homousìa), (soprattutto per volontà del vescovo di Alessandria, Atanasio), delle due distinte persone (hypostàseis) del Padre e del Figlio. Da qui poi la ribellione eretica di Ario, che negava al Figlio la natura divina. Nel concilio di Costantinopoli poi, convocato dall’imperatore Teodosio nel 381, veniva stabilita pure la natura divina dello Spirito Santo, per cui le figure consustanziali diventavano tre. Agostino spiegherà nella sua opera che esse sono tali per relazione eterna e non per accidentalità. Cosicchè Padre, Figlio e Spirito Santo sono da considerarsi  una unità assoluta. La distinzione è data invece dalla loro relazione. Infatti, Padre, Figlio e Spirito, pur essendo un’identica sostanza, si differenziano nel loro reciproco rapportarsi: mens (pensiero), notitia (conoscenza) ed amor saranno considerate da Agostino tre funzioni distinte, ma strettamente collegate in una relazione reciproca: non ci si può amare senza conoscersi e viceversa, se non al di dentro del pensiero. Nel pensiero teologico cristiano questa relazione reciproca si chiama “pericoresi”, la quale è una penetrazione reciproca d’amore fra le tre figure trinitarie. L’amore è l’unità unificante, ossia lo Spirito santo.

Sicuramente  tale meditazione nacque interpretando il  famoso brano del Vangelo di S. Giovanni, che ispirerà, non solo Agostino, tutti i filosofi e mistici cristiani.

 “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta”  (Giovanni, I).

Dal Verbo, la Parola, il Lògos scaturirà per necessaria conseguenza  il Figlio, vita e luce degli uomini.

La figura del Figlio, tuttavia,  sarà sempre quella più problematica ed enigmatica da spiegare nei secoli successivi. Infatti il Figlio non solo è Dio, ma è anche uomo. La domanda sorse e sorge spontanea:  poichè l’uomo è finito e perituro, come può essere eterno? Il Figlio ha doppia natura: è Dio, eterno ed immutabile, ma anche uomo che muore col proprio corpo sulla croce.

Dopo interminabili diatribe, scontri e reciproche scomuniche su questa questione, si giunse infine al concilio di Calcedonia nel 451 d.c., il cosiddetto concilio leonino (da S.Leone Magno). In questa sede venne deciso che il Figlio ha due nature in se stesso: ossia egli è Dio in quanto sostanza al pari del Padre, ma è anche uomo soggetto al tempo e alla distruzione fisica. Tuttavia il Figlio-uomo è tale solo all’interno dell’eternità dell’Uno. Ciò significa che il mondo finito, materiale, simboleggiato dal Figlio-uomo, pur non avendo l’essenza in sé, è necessariamente dentro Dio stesso. Ed è proprio questa “umanità”  che lo spinge a tornare a ciò che Egli è veramente nella sua sostanza: tornare ad essere Dio. Il Figlio come uomo avverte la necessità di superare la propria “caduta” nel finito materiale, che è un non-essere rispetto al suo essere divino. Perciò solo se nega la propria negatività di Figlio-uomo può tornare ad essere Dio. La morte del Figlio non è la morte della sua divinità, che è eterna, bensì è la morte dell’uomo come carne (che, fra l’altro, essa stessa risorgerà comunque in eterno). Il Cristo crocifisso rappresenta perciò il simbolo dell’unità fra contrari: negando se stesso come uomo perituro, il Figlio ritorna al Padre, il quale, dunque, proprio perché si era “alienato” o “svuotato” nel Figlio-uomo, acquista la consapevolezza di essere Padre. Questi, quindi, sa di essere Padre solo se vi è un Figlio che lo abbandona e poi torna a Lui. Il mistero dell’Incarnazione sta tutto qui. Trinità ed Incarnazione sono perciò  intrinsecamente unite. Il Dio incarnato nell’uomo “deve” pertanto morire, perché solo così si ha la riconciliazione piena fra Padre e Figlio. Lo Spirito Santo, che rappresenta l’unità dei contrari all’interno della totalità divina, è, di conseguenza, per i cristiani, come si diceva,  amore, poiché la morte, che Dio accetta di subire mentre è nel Figlio uomo, dà a tutti gli uomini la possibilità di coglierLo e di aspirare a Lui. Scriverà Hegel che la crocifissione è il “…simbolo per la coscienza empirica, della riconciliazione fra finito ed infinito” (1). Col Dio incarnato l’infinito si fa finito, il che significa che ogni uomo può ascendere al trascendente infinito, rendendosi così libero dalla materialità e precarietà dell’esistenza terrena. La crocifissione è ad un tempo il massimo dell’abiezione (solo gli schiavi venivano crocifissi) e il massimo dell’apoteosi in quanto il dio morto come uomo risorge nello Spirito Santo. L’unicità della religione cristiana consiste principalmente in questo.

La croce è, comunque, un simbolo della Tradizione primordiale, di molto anteriore al cristianesimo stesso. La staurologia, che significa dottrina della croce, ci insegna che essa indica la realizzazione dell’ “uomo universale”, perché, oltre a raffigurare un uomo stilizzato, in essa vi è la sintesi fra la linea orizzontale che rappresenta l’ampiezza delle possibilità umane in senso terreno, mentre la linea verticale rappresenta la gerarchia, ovvero la tensione dell’uomo verso stadi più avanzati del suo essere (2).

Il teologo americano, di matrice protestante, Thomas Altizer fu un grande studioso  di questo complesso problema teorico scrivendo, a riguardo, un libro, diventato poi famoso, che fu pubblicato nel 1966, dal titolo “Il vangelo dell’ateismo cristiano” (stampato in Italia a Roma nel 1969 dalla Casa ed. Astrolabio-Ubaldini editore). Una edizione che fu davvero notevole, anche perchè fu preceduta da una mirabile introduzione di Sergio Quinzio.

Altizer, studiando la generazione del Figlio da parte del Dio-Padre, ritenne che tale parto sia il prodotto di uno svuotamento, o meglio di un auto-svuotamento (una Kenosis), attraverso il quale Il Padre si incarna nel Figlio, che poi ritorna a ricongiungersi col Padre stesso, dando “luogo”, con questo ricongiungimento, allo Spirito Santo. Padre, Figlio, Spirito Santo rappresentano così il movimento triadico (l’uno, l’altro, il congiungente). In più Altizer ritenne con fermezza che  “…l’unico pensatore che abbia creato un’immagine concettuale del movimento incarnato e kenotico di Dio…” sia stato Hegel (3). In un brano davvero illuminante Altizer sottolineò che:

“… in verità Hegel tenta di dimostrare che la Crocifissione può apparire, ed essere, pienamente reale nella coscienza solo quando Dio è conosciuto ed alienato da se stesso, esistente in forma dicotomica, come Padre e Figlio, o Creatore sovrano o Verbo eterno. Per mantenere la sua esistenza come creatore trascendente, Dio deve continuamente cancellare e negare il mondo; ma per procedere verso la sua universale epifania come Verbo incarnato, egli deve negare la sua trascendenza sovrana. Conseguentemente, Dio è qui concepito come esistente in opposizione a se stesso. La dissoluzione di questa apparizione avviene solo quando ogni forma della divinità, in virtù della sua intrinseca indipendenza si dissolve in se stessa… attraverso gli eventi che la fede conosce come Incarnazione e crocifissione, Dio svuota se stesso della sua sovranità e trascendenza, e questo sacrificio kenotico non solo effettua la dissoluzione fra Padre e Figlio nella sua nuova epifania di Dio come Spirito universale, ma fa parimenti svanire l’opposizione fra Dio e il mondo” (4).

Questo significa che solo con la Crocifissione, come si è già accennato, si ha il superamento definitivo della scissione dualistica fra l’infinito Dio-Padre e il finito Dio Figlio-uomo, poiché con questo estremo sacrificio vi è l’affermazione della unità fra i contrari con l’avvento dello Spirito Santo.

Hegel, ispirandosi chiaramente al dogma della Trinità, trasporterà su un livello logico-razionale il significato di tale verità di fede. Nella sua opera l’ “Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio” (5),  egli sostituirà le figure del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, coi concetti di Idea, Natura, Spirito. Tali concetti definiti da lui momenti,  saranno usati sia in modo dinamico ed eterno (Das Moment) e sia in modo temporale (Der Moment), ricavando tale significato dal verbo latino “movere” e dal corrispettivo sostantivo “movimentum”. Nel primo caso i tre momenti sono inerenti alla sostanzialità una e trina di Dio, nel sua totalità ed eternità; nel secondo alla storia umana nel suo divenire, che si muove al di dentro della Legge universale trinitaria.

A questo punto non ci resta che osservare il parallelismo fra Trinità cristiana e  triadicità logico-concettuale della Ragione come viene intesa da Hegel.

Il primo momento viene chiamato Idea, che è tesi, il porsi, cioè l’affermazione, poiché l’infinita Idea è pensiero. Epperò esso  è ancora un pensiero astratto ed intellettuale (6), è l’immediato, il ciò che è (per questo è positivo), che tuttavia non ha la coscienza di sé, perché non sa di essere la ragione infinita, in quanto si pone come entità isolata ed indipendente. Per questo l’Idea è astratta. Essa è  in sé vero Essere (an sich), ma non sa di esserlo.  Deve perciò produrre, anteponendosi, il suo opposto, l’antitesi, ossia la Natura, che per Hegel è un momento razionale, negativo e dialettico. Essa è il mondo finito, caduco, transeunte. Infatti l’infinita Idea è necessitata a produrlo, poichè un infinito senza il mondo degli enti finiti sarebbe vuoto assoluto: un ni-ente. Questo processo di produzione viene chiamato da Hegel alienazione o auto-estraniazione dell’Idea. Il termine alienazione significa proprio produrre l’altro, un altro non generico, bensì un altro opposto, cioè la Natura. Così come il Dio Padre genera il Figlio per Kenosis, così l’Idea genera la Natura per alienazione da sé (aus sich).

Si diceva che il secondo momento è la Natura, l’antitesi, il momento razionale e negativo. E’ razionale e non intellettuale, poiché la razionalità implica la contrarietà interdipendente, mentre l’intelletto si pone affermativamente senza contrari. Essa è infatti il momento dialettico, e rappresenta il motore dinamico del Tutto. Il mondo finito, proprio per la sua caducità, non ha l’essenza in sé, cioè la sua ragion d’essere. La sua essenza è nell’infinito: da qui la famosa frase hegeliana che affermava che quando “il finito è, non è, e quando non è, è”. Ciò significa che la Natura non ha in sé il suo fondamento, ma lo ha nell’infinito.

Se torniamo al parallelismo con la Trinità si comprende meglio il senso dell’argomentare: il Figlio-uomo muore come corpo materiale, ma poiché ha la sua essenza divina nel Padre, esso in realtà non muore, poiché ritorna al Padre stesso.

La Natura, mancando del proprio fondamento, ne va alla ricerca: tale mancanza agisce come un propellente che la sprona al superamento di sé come negazione. Per questo essa è il momento dialettico. In quanto tale essa vuole superare se stessa andando oltre la propria negatività (la negazione che nega se stessa).  Essa vuole farsi Spirito, cioè un’Idea fattasi autocosciente, poichè contiene in sé l’esperienza del mondo finito. Essa “deve” dunque ritornare presso di sé (bei sich). Questo passaggio fra Natura e Spirito viene espresso da Hegel col termine tecnico, molto significativo, di Aufheben: Questo verbo tedesco, secondo una indagine fatta da Heidegger (7), significa: 1) “…mettere qualcosa su…”, poiché l’atto fondamentale della dialettica è in effetti quello di  far apparire gli opposti, per poterli vedere. Aufheben perciò equivale al latino tollere nel senso di prendere. 2) Elevare gli opposti alla loro unità. 3) Custodire, elevare. Questa custodia si attua nell’identità assoluta, in cui però gli opposti vengono conservati nelle loro distinzioni specifiche, invece di scomparire come le vacche che diventano tutte nere nella buia notte dell’Assoluto di Schelling. L’Aufheben è un superare-mantenere, che segna il passaggio dall’antitesi alla sintesi: per questo la natura è il momento dinamico per eccellenza, ossia momento dialettico. Tutto ciò che perituro e caduco soffre la mancanza della sua “dimora”, in particolare l’uomo. Questi, possedendo la ragione, si sente infelice, perché si sente precario e perché la sua essenza è nell’infinito. La coscienza infelice, scriveva Hegel, raffigura perfettamente e permanentemente l’anima del cristiano. Potente è in lui il desiderio di ritornare alla casa del padre. Il Romanticismo, in particolare, coniò il concetto di “Sensucht”, che è appunto il desiderio struggente di infinito. Per questo motivo si può dire, in senso lato, che tutta la storia  cristiana è romantica.

L’infinito, afferma Hegel, deve “sporcarsi” nel finito se vuole essere davvero infinito. Parimenti il Figlio-uomo, crocifisso nella abiezione, trionfa perché nel dolore supremo ritorna pienamente nella propria divinità. La negazione, negando se stessa, si fa sintesi, Spirito santo.

Hegel chiamerà questo terzo momento Spirito, inteso come speculativo, positivo, razionale e concreto: è il momento in cui la Totalità si compie, e con cui si ha l’intuizione della verità eterna. Esso è speculativo  (da speculum, specchio) perché è una visione eterna della verità, concreto e positivo in quanto è il vero Essere, ed è razionale perché le contraddizioni tra tesi ed antitesi vengono risolte.

Ora, se ritorniamo al parallelismo con la Trinità cristiana, si ricava con evidenza che lo Spirito santo è il vero assoluto: esso è il “nuovo Dio” perché ha in sè la totale completezza, in quanto ha attraversato per mezzo del Figlio tutto il dolore umano. Esso è, quindi, come scriveva S. Agostino, amore assoluto.

Come si può osservare vi è allora una strettissima correlazione tra la triadicità della logica teorizzata da Hegel e la Trinità cristiana.

Tuttavia vi sono anche alcune importanti differenze concettuali che devono essere chiarite.

Nella Trinità il Padre è trascendente e crea “ex nihilo” il mondo, mentre in Hegel il mondo viene posto dinamicamente come Natura e non cronologicamente. Ciò significa che Hegel non ammetteva la trascendenza di Dio fuori dal mondo, poiché Dio, essendo per lui ragione, avrebbe dovuto negare la potenziale razionalità del reale finito, riproponendo così un dualismo tra Infinito e finito. La realtà del mondo sta dentro la ragione e non fuori. “Il finito è ideale” scriveva il filosofo, nobilitando di fatto la realtà del mondo, nonostante le sue terribili contraddizioni interne. Egli pensava che, con sforzi immani e con tutta la serietà e la fatica che la storia umana comporta, la ragione si sarebbe lentamente (la storia è lenta) palesata, rendendo l’uomo sempre più libero. Hegel è infatti il filosofo che vede l’affermazione della libertà come lo scopo della storia, sia pure all’interno di una veduta circolare (“l’inizio è il resultato”).

Tutta l’opera hegeliana è rivolta verso la costruzione di una società libera all’interno di uno stato organico in cui la comunità differenziata in ceti prevale sui bisogni del singolo, come avviene, al contrario,  nella società liberale.

Nella veduta cristiana, invece, il Dio padre attraverso il Figlio-uomo interviene nel mondo per salvarlo e redimerlo dalla sua dannazione dovuta dal peccato originale, che come si sa è l’atto della superbia umana che vuole sostituirsi a Dio. L’amore è lo strumento di ogni salvezza futura. Per Hegel, in verità, la ragione immanente, non salva o redime, né provvede per il futuro, ma coscientemente tende alla libertà attraverso il superamento-mantenimento.

Come allora si può osservare molte sono le analogie tra il dogma della Trinità (che, oltre ad Altizer, molti filosofi e teologi moderni come K. Barth, K. Rahner, e P. Coda e così via, riconoscono), ma molte sono anche le differenze.

In conclusione, qual è il senso di questo breve lavoro? La risposta deriva come conseguenza rispetto a ciò che si è scritto: ossia che da circa duemila anni tutta la cultura europea e cristiana in generale è stata intensamente condizionata dal pensiero trinitario. La Trinità, che come abbiamo visto è l’irrompere di Dio nell’uomo, aprendolo verso la trascendenza infinita, ha spinto costui verso il perfezionamento e il miglioramento di sé. Essa per i cristiani è amore, ma in senso più ampio introduce nello spirito il bisogno di ascesa spirituale verso ciò che è più elevato. C’è molto Platone in questo, e non a caso Nietzsche, in modo irridente, scriveva che il cristianesimo è “il platonismo dei poveri”, per poi contraddirsi quando esaltava la cultura rinascimentale, che è stata invero la forma culturale più straordinaria che l’umanità abbia mai raggiunto, in quanto sintesi fra il mondo classico e quello cristiano.

Purtroppo il pensiero trinitario, sia in senso religioso che dialettico-logico, sta illanguidendo. L’emblema di questo declino è rappresentato dal papa emerito Ratzinger, che forse è il più grande teologo vivente sulla problematica trinitaria, a cui ha dedicato la sua vita. Egli addirittura pensa  che il dogma trinitario abbia modificato il genoma umano durante tutti i secoli in cui è stato creduto. E non è un caso, a parer nostro, che egli sia stato destituito, in quanto custode della tradizione,  da un vero o proprio colpo di stato, causato dallo scandalo IOR, operato all’interno del Vaticano. La religione cristiana oggi è per lo più solo un volgare ed ipocrita moralismo: un affare di denaro, che è il vero incontrastato dio dominante. Il tallone di ferro imposto  dalla Grande Macchina che ci schiaccia è ormai totale: ma la storia umana non potrà essere mai del tutto cancellata, poiché il pensiero profondo, “lo spirito della valle”, secondo il Tao, “mai non muore”.

 

Note:

  1. W.F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, vol. III, ed. La Nuova Italia, Firenze 1975, p.123.
  2. GUENON, Il simbolismo della croce, ed. Luni Editrice, Milano 2003, pp. 29-30.
  3. ALTIZER, Il vangelo dell’ateismo cristiano, ed. Ubaldini, Roma 1969, p.72.
  4. IDEM, p.115.
  5. W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, ed. Laterza, Bari 1969, par.79-80-81-82.
  6. Tale principio venne così formulato da Aristotele: 1) in senso ontologico si afferma che è impossibile che una cosa sia e non sia contemporaneamente; 2) in senso logico dice che è impossibile che lo stesso attributo inerisca o non inerisca alla medesima cosa sotto il medesimo rispetto. Esso è il principio sommo della matematica e della coerenza logica discorsiva. Tuttavia, come sottolinea Hegel (e prima di lui Cusano), è un principio che separa e divide del tutto i due termini contrapposti, impedendo qualsiasi sintesi.
  7. HEIDEGGER, Seminari, ed. Adelphi, Milano 1992, p. 77.

 

 

Rovigo, lì 19, 05, 2021

Flores Tovo

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