Referendum sul taglio dei parlamentari: le ragioni di un NO

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Di Alberto LeonciniIndipendenza

Accorpato alle amministrative e regionali si terrà il 20 e il 21 settembre 2020 il referendum sulla riforma costituzionale per il taglio dei parlamentari. La pessima riforma relativa al taglio dei parlamentari che ha avuto il suo architrave nel Movimento 5 Stelle, sostenuta a geometria variabile da tutte le principali forze politiche nel corso delle varie letture (Lega prima, PD e satelliti poi, senza scordare Fratelli d’Italia che vantava sui social il suo appoggio “determinante”), dimostra quanto caricaturali siano le differenze fra le forze politiche euroatlantiche dello scenario italiano.

Questa esiziale riforma porterà a una riduzione della rappresentanza di circa un terzo, rendendo ancora più lontane le istanze dei ‘territori’, che a parole tutti vogliono ascoltare ma che, giocoforza, vedranno nelle istituzioni nazionali e centrali un riferimento sempre più lontano e assente, il cui unico ruolo è quello di ratifica meno che notarile delle decisioni prese in sede europea. Non è fuor di luogo affermare che già oggi ‘Roma’ sia percepita –non solo al Nord– come un livello decisionale più lontano rispetto a Francoforte o Bruxelles: in quest’ultima città le istituzioni (camere di commercio, regioni…) e le associazioni di categoria fanno a gara per aprire sedi e centri per ‘contare’, come se ciò potesse minimamente incidere sugli assi strutturali delle politiche comunitarie.

Insomma, dietro questo referendum c’è l’idea che le istituzioni dello Stato nazionale siano qualcosa di sostanzialmente inutile e che tanto vale ridurne il funzionamento a un fatto formale, il minimo sindacale. Una riforma che pare fatta di proposito anche per ostacolare non solo l’affermazione di forze politiche ‘altre’ rispetto al blocco dominante ma anche residuali diritti di tribuna per prospettive pur soltanto in senso lato ‘critiche’ rispetto all’orizzonte unico liberista di matrice europea: ‘scattare’ un seggio con i numeri che si prospetterebbero e con le soglie elettorali di cui si parla nelle riforme elettorali diventerà più che un’impresa. A meno che, naturalmente, non si sia omologati nelle coalizioni maggiori accettandone prospettive, regole e matrice politica.

C’è un altro messaggio estremamente negativo che si cela dietro questo intendimento: l’idea di far apparire come maggiormente ‘democratico’ e ‘rappresentativo’ il Parlamento Europeo dove i seggi sono assegnati secondo un criterio di ‘degressione proporzionale’, i Paesi membri più piccoli hanno un peso specifico maggiore, e ripartiti con un criterio proporzionale. Alla fine, a che serve il Parlamento nazionale se siamo rappresentati di più e meglio a livello europeo? Eppure il Parlamento Europeo non è niente di neanche lontanamente paragonabile a un parlamento nazionale in termini di attribuzioni e funzioni, ma l’artificio retorico ha ottime potenzialità di colpire nel segno.

Un’ulteriore evoluzione del ‘piano inclinato’ che, svuotando lo Stato nazionale, mira a condurre l’opinione pubblica all’accettazione della prospettiva sovranazionale per gli assi politici fondamentali da un lato e subnazionale (regionalismo, federalismo, euroregionalismo) verso il basso dall’altro, il tutto, ovviamente, eliminando qualsiasi spazio di attuazione dei diritti sociali propri della dimensione nazionale.

Il taglio dei parlamentari viene giustificato da chi lo promuove in termini di risparmio, numeri assolutamente risibili che impallidiscono a fronte del ‘costo politico’ enormemente più elevato e dei salassi (accettati) di ben più grave portata per la popolazione italiana di fatto imposti dall’Unione Europea e dalle sue direttive spoliatrici (privatizzazioni, tagli al sociale e ai servizi pubblici essenziali, esternalizzazioni, decostruzioni delle garanzie nei rapporti di lavoro, deindustrializzazione, ecc.). Un prezzo da far impallidire le risorse indirizzate al funzionamento delle istituzioni pubbliche.

Focalizzando ora sul ‘costo politico’:

– meno democrazia, sempre meno rappresentativa e destinata ad essere rappresentata peggio, accentuando il peso dei gruppi oligarchici di pressione e di interesse;

– compressi sia le possibilità che siano rappresentate le ‘minoranze’, sia i margini operativi (ad es. l’accesso nelle commissioni) in un parlamento svilito ulteriormente nel suo ruolo;

– si accentua la funzione contoterzista di qualunque governo che, al di là di sfumature di differenza, risponderà ancora più zelantemente e senza fastidiosi intralci ai poteri esterni di questo Paese e a quelli interni in scia, già adesso ossequiosi a vincoli e passa-carte delle direttive ‘made in UE’ con gli esiti che, nel corso di questi ultimi decenni, hanno prodotto la china che viviamo e di cui non si vede via d’uscita. Con la proporzionale riduzione delle commissioni parlamentari permanenti, potremo trovarci con leggi approvate da un gruppo di persone attorno a un tavolo, visto che la commissione in sede deliberante esercita una vera e propria funzione legislativa (art. 72 Costituzione); è evidente che il taglio vada inquadrato nel più generale svuotamento dello Stato nazionale in favore dell’Unione Europea e degli altri enti sovranazionali verso l’alto, e delle regioni verso il basso;

– riducendo i parlamentari, aumenterà il peso specifico dei delegati regionali (rimasti invariati) che si aggiungono alle Camere in seduta comune nell’elezione del presidente della Repubblica. Un fatto non indifferente se si pensa che nelle prime tre votazioni è richiesta una maggioranza dei due terzi per l’elezione, ma dalla quarta è sufficiente quella assoluta (art. 83).

Si agevolerà così la strada alla modifica in profondità della costituzione materiale in vista dell’introduzione del presidenzialismo e della disgregazione dello Stato (riforma del 2001 del Titolo V, di cui l’autonomia differenziata è sviluppo) con annessa devoluzione di ambiti sempre più ampi all’Unione Europea.

Una certa vulgata giornalistica, tutt’altro che disinteressata, ha trasmesso l’idea che il Presidente della Repubblica sia una sorta di carica onorifica per politici a fine carriera, ma la realtà e la pervasività dei poteri di questa carica sono tutt’altro che secondari seppure esercitati storicamente con sensibilità molto diverse. C’è un elemento che differenzia il Presidente della Repubblica dagli altri organi costituzionali: è l’unica istituzione del nostro ordinamento che non sottostà alla divisione dei poteri, compartecipando difatti di funzioni in tutti e tre i fondamentali poteri dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario). La destra italiana punta a poter intervenire su ogni versante della vita istituzionale attraverso una figura che sia espressione di quella cultura politica, come tappa intermedia verso il presidenzialismo, mai nascosto approdo strategico.

Lungi dall’essere un fatto aritmetico, quindi, questa riforma modifica in modo sensibile la costituzione materiale contribuendo a quella deformazione della natura parlamentare che, in teoria, dovrebbe esserci propria ma che da almeno tre decenni subisce attacchi frontali sul piano del riparto delle competenze fra Stato e regioni (riforma del 2001 del Titolo V, di cui l’autonomia differenziata è sviluppo) e, non da ultimo, tramite l’affiancamento agli organi elettivi delle ‘autorità indipendenti’ espressione immediata e diretta delle culture istituzionali sovranazionali con amplissimi poteri al di fuori del controllo democratico e della responsabilità elettorale. In altri termini, sempre meno democrazia e sempre meno rappresentativa.

Trattandosi di referendum confermativo ai sensi dell’art. 138 Costituzione non è previsto quorum per la validità (chi vota decide).

Di Alberto Leoncini – https://associazioneindipendenza.wordpress.com/2020/08/04/taglio-dei-parlamentari-perche-al-referendum-votiamo-no/

Articolo scelto e pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org

 

 

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