DI ANDREA CAVALIERI
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
L’argomento è chiacchierato, ma non mi risulta che sia mai stato analizzato in profondità.
In particolare il Movimento 5 Stelle ha introdotto il tema del reddito di cittadinanza nel dibattito politico.
Per questa ragione e per le circostanze che rendono l’argomento sempre più attuale (che verranno spiegate sotto) si intende qui illustrare come l’adozione di un simile provvedimento costituisca una rivoluzione copernicana dell’economia, con implicazioni che vanno ben oltre le conseguenze immediate solitamente considerate.
La presente analisi, che dipinge alcuni scenari conseguenti all’eventuale introduzione dell’innovazione, suggerisce anche alcune soluzioni ai problemi emergenti e può essere adoperata quale strumento di riflessione e di lavoro per il legislatore.
Le ragioni del RdC.
Si espongono qui tre motivi, interconnessi e completantisi a vicenda, per cui il RdC appare come soluzione quasi inevitabile ai problemi che si profilano a un orizzonte ormai molto vicino.
1) La disoccupazione tecnologica.
L’uso sempre più massiccio della robotizzazione in tutti i settori produttivi e in molteplici attività di servizio (contabilità, trasporti, medicina, comunicazione…), che seppur in fase di attuazione è in progressivo e inarrestabile sviluppo, porta a una inevitabile conclusione: non c’è lavoro per tutti.
Naturalmente “non c’è lavoro per tutti” considerando il lavoro nell’accezione vigente, cioè di attività individuale apprezzabile secondo un criterio concorrenziale, valutata da un mercato strutturato secondo principi insostenibili, ma ancora da tutti accettati (la questione viene chiarita ai punti successivi).
Se dunque esiste un’area crescente di disoccupazione endemica e irrisolvibile, esisterà una quota crescente della popolazione di cui decidere: o muoiano di fame, o facciano una rivoluzione (che sposterà comunque il problema ma non lo risolverà finché non ne saranno rimosse le cause) o vengano dotati di mezzi di sopravvivenza, quindi di un RdC.
E’ interessante notare che la quota di disoccupazione crescente è percentuale, dunque la tentazione malthusiana di pensare che eliminando gli emarginati tramite denatalità si possa risolvere il problema, resta l’illusione di uno sciocco.
2) Il paradosso della produttività.
La discriminante dell’occupabilità è tuttora la produttività concepita in termini monetari. nota1)
Si dice che l’occupazione si può estendere fintanto che il reddito prodotto dal lavoro supera le spese dello stesso, arrestandosi nel momento in cui le eguaglia (il salario è uguale al prodotto marginale del lavoro). Potrebbe sembrare un’ovvietà del buon senso, ma non lo è.
Infatti è evidente che la produttività è inversamente proporzionale al numero e allo stipendio degli occupati, quindi il massimo della produttività si realizza quando un unico lavoratore produce tutti i beni della Nazione con un salario prossimo a zero. Il che rende totalmente inutile la produttività stessa, perché, privati di reddito, tutti gli altri cittadini non potranno comprare la mole di beni prodotti dal novello Stachanov.
Questo esempio estremo mostra l’esito a cui tende il parametro della produttività, che parte da un livello minimo in cui tutti lavorano ma il risultato è insufficiente, e arriva al caso descritto.
Per secoli la produttività è stata abbastanza bassa da generare, attraverso il suo aumento, un miglioramento del sistema in generale. Oggi abbiamo superato il livello critico per cui ogni ulteriore crescita della produttività causa danni al sistema (a meno che questo non venga riformato secondo nuovi principi).
Si parla, lo ribadisco, della produttività misurata in termini monetari. In termini fisici la crescita della produttività può essere valutata solo attraverso un bilancio in cui i costi sono espressi in costi umani, energia e materie prime, mentre i benefici sono rappresentati dall’utilità umana e sociale.
Se questo non avviene, e non avviene, è perché il nostro sistema monetario non rispecchia il sistema fisico, cioè non rispecchia la realtà ed è uno degli imputati principali che dovrebbe stare sul banco degli accusati, nel processo che la storia intenterà agli autori dell’oppressione e della fame che si prospettano proseguendo nell’attuale direzione.
Il bilancio monetario infatti si basa sul dare-avere e trova il suo punto di equilibrio nello zero. Questo punto di equilibrio può esistere indifferentemente nella miseria o nella prosperità ed esclude dalle sue valutazioni l’unica cosa che conta: la vita umana, la quale invece non è affatto un bilancio a somma zero.
Quindi, o per rispetto della vita umana, o per non annientare la domanda aggregata, uno dei possibili interventi, fosse pure palliativo, sembra il RdC.
3) Il fallimento del modello individualista dell’economia.
L’attività economica è collettiva. Questo è un fatto. L’attività di Robinson Crusoe è sicuramente individuale ma non è economia: quel poco che fa consuma, secondo le sue possibilità e desideri.
L’economia esiste solo a partire dalla divisione del lavoro, che struttura razionalmente la società rendendola capace di provvedere alle sue necessità e a molte cose che oltrepassano le necessità fino all’opulenza e agli sfizi.
Ma ciò che sfugge ricorrentemente a un’analisi economica (altrettanto ricorrentemente superficiale) è l’individuazione del soggetto che ripartisce il lavoro.
Se consideriamo l’esempio di una famiglia, noteremo che i lavori di casa saranno suddivisi cercando di massimizzare l’impiego delle abilità individuali, per raggiungere la miglior efficienza, ovvero ottenere i più ampi risultati a parità di impegno profuso.
Ma in una famiglia non si istituirà mai una competizione che premia il migliore attribuendogli tutti i benefici e che punisce i perdenti privandoli del necessario, marginalizzandoli e svilendoli in una disoccupazione forzata.
Il perché è semplice: la famiglia ha la coscienza di essere un soggetto collettivo unitario, di conseguenza organizza le proprie attività per il benessere di tutti i suoi membri.
La Nazione è un soggetto collettivo allargato, con legami interni fra cittadini inferiori a quelli di una famiglia, ma non nulli, che dovrebbe impostare la divisione del lavoro con un concetto assolutamente analogo: “per il benessere di tutti i suoi membri”.
Tuttavia, considerando la insostituibile convenienza della divisione del lavoro, autentica gallina dalle uova d’oro, è sembrato che tale modello organizzativo potesse funzionare prescindendo dal soggetto organizzante e dalla coscienza del reciproco aiuto che si prestano i suoi membri.
Pertanto si è passati ad applicarlo dalla Nazione (ove si nasce) e Patria (la terra dei padri), all’ente giuridico impersonale, lo Stato, e infine all’astratta rete del mercato, che si presenta anonima, anomica e anarchica, luogo ideale di prevaricazione del forte sul debole.
L’esito, piuttosto scontato, è stato quello di trasformare la collaborazione di un popolo per costruire il proprio benessere, in una guerra economica composta da un sistema di ricatti incrociati.
Ogni produttore di merce o prestatore di servizio cerca, con la propria attività, di accaparrare la quota maggiore possibile di ricchezza totale, facendo valere, sul resto della comunità, il bisogno della propria merce. Naturalmente esiste una scala di “potenza di ricatto” connaturata alle varie merci, determinata dal prodotto dell’utilità di una certa merce con la possibilità del suo controllo esclusivo. Per esperienza diretta, si è verificato nei secoli che il denaro è la merce che detiene il più alto coefficiente di “potenza di ricatto” e questo status privilegiato del denaro è ciò che determina, in ultima analisi, la finanziarizzazione dell’economia.
Le dottrine classiche o liberiste dell’economia, non sono altro che la maldestra e ipocrita giustificazione dei privilegi di coloro che hanno vinto la guerra economica e godono di inattaccabili rendite di posizione.
Infatti la tanto vantata efficienza del mercato si è dimostrata realmente efficace solo nell’accumulare proprietà nelle mani di chi più già ne possedeva e pretende, come condizione necessaria all’equilibrio, la costituzione di una massa di diseredati ed emarginati, come attesta il parametro del N.A.I.R.U. (tasso di disoccupazione minimo per garantire la stabilità monetaria).
Il fallimento del modello individualista lo si può constatare da una serie di esiti diametralmente opposti alle promesse: si parlava di benessere e si assiste a una nuova proletarizzazione delle masse, si parlava di opportunità e la mobilità sociale è in costante diminuzione da mezzo secolo, si promettevano vantaggi per tutti e la diseguaglianza tra un gruppuscolo di super ricchi e il resto dell’umanità è aumentata costantemente.
Ci si augura di non dover aspettare fenomeni rivoluzionari per prendere atto dell’evidenza.
L’introduzione del RdC può essere dunque l’opportunità di impostare un nuovo sistema di relazioni economiche, rispondente a principi alternativi a quelli comunemente applicati.
Le sfide del RdC.
Se si vuole applicare il RdC ci si imbatte in quattro generi di ostacoli che occorre necessariamente superare per non far naufragare il progetto. Tre sono di natura tecnica e uno di natura generale.
1) Il finanziamento del RdC.
Storicamente il termine nasce da un’intuizione di Giacinto Auriti, che collega (correttamente) il valore del denaro con il lavoro dei cittadini, ma in base a un ragionamento quanto mai astratto (e sbagliato) propone di sostenere il reddito con un’emissione monetaria indefinita.
Questa ovviamente è una proposta senza senso, ma che ha confuso il pensiero di parecchi esponenti politici, sia favorevoli sia contrari al RdC.
E’ vero che l’emissione monetaria è stata ingiustamente accantonata dalle dottrine economiche dello Stato, ed è altrettanto vero che è invalso l’uso assolutamente depravato di segnare le emissioni monetarie al passivo di bilancio degli enti emettitori, anziché all’attivo come sarebbe corretto.
Ma questo non giustifica in nessun modo l’emissione perpetua di un fiume di denaro che screditerebbe completamente il sistema dei pagamenti.
In proposito è sufficiente ribadire la regola aurea dei finanziamenti dello Stato: la spesa corrente deve essere sostenuta dalle tasse; gli investimenti in opere nuove (infrastrutturali o, meglio ancora, produttivi) possono essere pagati con soldi di nuova emissione.
Non c’è dubbio che il RdC si configurerebbe quale spesa corrente e che quindi dovrebbe essere sostenuto con i proventi delle tasse, o quanto meno con altri attivi statali “economici” (cioè di circolazione e non finanziari, che comportano sempre aspetti creativi di moneta, reale o virtuale che sia).
2) L’imprenditoria e il RdC.
Questo secondo punto è strettamente collegato al primo.
Se infatti una mole imponente delle entrate dello Stato deve essere destinata al RdC, significa che il carico fiscale sulle imprese crescerebbe sino a diventare insostenibile.
In poche parole l’imprenditore vedrebbe il frutto del suo lavoro decurtato pesantemente da un prelievo a finalità assistenzialistica e troverebbe più conveniente chiudere l’azienda piuttosto che proseguire l’attività.
Unica scappatoia per lui un aumento dei prezzi, così consistente da rendere ininfluente il prelievo per RdC. In queste condizioni il potere d’acquisto del RdC diventerebbe insignificante, poco più che una mancia per le sigarette.
Il dilemma appare quasi insolubile. In realtà soluzioni sono possibili, ma solo a patto di un cambio di paradigma sostanziale, come sarà esposto in seguito.
3) Le relazioni con l’estero.
Uno Stato che decidesse di applicare il RdC si troverebbe in condizioni di squilibrio rispetto ai partner commerciali. Le sue aziende risulterebbero penalizzate sul piano della competitività.
Dunque l’istituzione del RdC a mercato aperto sembra impossibile, a meno di non attenderla da parte di un improbabile e improgrammabile governo mondiale, che stabilisca condizioni paritetiche a livello globale (prospettiva decisamente utopistica).
Resta dunque praticabile l’altra via, cioè che uno Stato istituisca il RdC a mercato chiuso, ovvero dove viga il controllo di merci e capitali.
In queste condizioni è lecito porsi la domanda di come regolare il commercio estero, e soprattutto di come incentivarlo, armonizzando le inevitabili differenze che esisterebbero tra le aziende estere a sistema tradizionale e le imprese interne a modello alternativo (compatibile col RdC).
Occorre organizzare un commercio che permetta al mercato di qualificare e quantificare le sue richieste (superando così la palla al piede della programmazione statale utilizzata dall’economia marxista), che risulti affidabile al partner estero anche in presenza di una moneta non convertibile, e che non permetta speculazioni e privilegi alle aziende che vendono all’estero rispetto alle aziende che vendono nel mercato interno.
4) Il problema motivazionale.
Il quarto punto è quello di carattere generale. Ha a che fare con la funzione del denaro quale motivatore universale.
Nel sistema attuale si lavora per essere pagati, in presenza di un RdC che cosa incentiverebbe il lavoro?
Il denaro viene normalmente utilizzato come stimolo all’impegno minimo, incentivo alla crescita professionale, come agente di sperequazione meritocratica, e come risarcimento per lo svolgimento dei compiti più ingrati.
Se il denaro venisse depotenziato dalla sua funzione motivazionale, attraverso una distribuzione generalizzata, si porrebbe il quesito di come esercitare le funzioni perdute dal denaro (che sono in sé utili) con mezzi alternativi.
Gli attivi dello Stato, le tasse e l’imprenditoria.
Bisogna esporre insieme questi temi perché sono strettamente legati, come illustrato sopra.
Nel modello liberista lo Stato quasi non dovrebbe esistere, e la sua unica entrata dovrebbe essere quella delle (mal tollerate) tasse.
In effetti il modello italiano del trentennio ’50 – ’80 dimostra ampiamente che un’alternativa non solo è possibile, ma è incomparabilmente preferibile.
Lo Stato italiano infatti vantava non solo gli attivi dell’introito fiscale, ma anche quelli provenienti da un cospicuo parco di proprietà aziendali, costituite da una larga porzione del sistema bancario nazionale e dal comparto industriale delle partecipate statali (IRI).
Grazie a questo massiccio monte di entrate, lo Stato sosteneva un elevato standard di programmi sociali, senza intaccare l’iniziativa individuale.
Il risultato di questa politica fu quello di portare l’Italia a un regime di piena occupazione e di collocarla al sesto posto mondiale tra le potenze industriali.
Al contrario le politiche di privatizzazione, smantellamento dello stato sociale, e restrizione finanziaria, hanno messo in crisi l’occupazione, abbattuto il potenziale industriale del Paese, e ridotto l’Italia al livello di una Nazione in via di sviluppo.
Se dunque si può individuare l’obiettivo politico-economico da raggiungere, occorre chiedersi quale sia l’iter preferibile da percorrere, tenendo conto del punto di partenza, cioè della situazione concreta che si è venuta a creare. Inoltre tale percorso deve garantire un assetto di equilibrio anche dopo l’introduzione del RdC, quindi in presenza di un forte esborso statale, che deve essere pareggiato da un egual introito.
E’ chiaro che in una scala che misura il coefficiente tipologico dell’economia, che vede agli antipodi la predominanza del mercato e quella della società, l’ago della bilancia si sposterà in direzione socialista, l’importante è permettere al mercato di esercitare la sua funzione, che è benefica fintanto che il mercato funziona come strumento e non come fine.
Il mezzo che qui si propone per raggiungere un tale assetto è quello della semi-imprenditoria.
Tale progetto deve essere visto in due fasi: una macro e una micro economica.
La fase di grande dimensione comporta l’istituzione di banche di Stato (per altro perfettamente legali e compatibili persino col trattato di Maastricht) e la ricostruzione e/o riappropriazione della grande industria, in modo simile al patrimonio che fu l’IRI. In questa fase macro l’imprenditoria è di Stato e può essere considerata semi-imprenditoriale solo in funzione di una partecipazione popolare all’azionariato.
Più pertinente alla situazione presente è il progetto micro che consiste in questo: lo Stato entrerebbe in società, con le imprese che lo desiderano, sollevandole dal carico burocratico e normativo, garantendo uno stipendio fisso all’imprenditore e concedendogli una percentuale minoritaria degli utili. Lo Stato garantirebbe il flusso finanziario con le sue banche e imporrebbe fusioni, laddove esistessero doppioni aziendali sovrapponibili.
Lo Stato fornirebbe poi personale all’impresa, prelevandolo direttamente dalla quota disoccupati.
Non può sfuggire che questa proposta sarebbe un toccasana per la piccola imprenditoria, devastata dalla crisi, restia agli investimenti a causa del clima di sfiducia, e ostacolata da un carico burocratico eccessivo. Una simile iniziativa permetterebbe anche il recupero di una massa di competenze che, altrimenti, andrebbero irrimediabilmente perdute.
Inoltre i disoccupati, che già percepirebbero il reddito comune, nel momento in cui fossero impiegati in una azienda non graverebbero sul costo del lavoro, se non per un eventuale surplus, giustificato dalla loro utilità/competenza/funzione esercitata.
Al tempo stesso la partecipazione statale nella grande maggioranza delle imprese garantirebbe gli introiti necessari a erogare il RdC.
Il commercio internazionale.
Per affrontare questo problema occorre distinguere tra chi non volesse commerciare con uno Stato di impostazione social(e-ista) e chi avesse difficoltà a farlo per problemi tecnici legati alla finanza o alla convertibilità della moneta.
Con i primi è inutile cercare soluzioni, perché essi sosterrebbero l’embargo anche contro la loro convenienza. Per fortuna nel mondo vi sono tantissimi Paesi disposti a collaborare e commerciare, per cui sarebbe possibile procurarsi i beni mancanti alla Nazione attraverso un import-export con i volenterosi.
La soluzione semplice e definitiva, ottimale rispetto alle dimensioni dello scambio e applicabile anche in regime di controllo di merci e capitali, è una camera di compensazione internazionale. nota2)
L’articolo in nota illustra chiaramente come realizzarla, si riporta qui una sintesi stringata.
Gli Stati che intendono cooperare istituiscono ciascuno un ministero dell’import-export, da cui passeranno tutti gli scambi. I ministeri nazionali forniscono i propri rappresentanti che si occuperanno di creare e gestire la rete. Questa consisterà in una bacheca informatica in cui tutte le aziende dei Paesi coinvolti esporranno i loro prodotti.
In base al potenziale economico di produzione ed esportazione, analizzato e concordato ogni anno dai gestori di rete, si attribuisce a ogni Paese una soglia di indebitamento entro cui possa iniziare ad acquistare a debito. I debiti si compenseranno con i crediti delle esportazioni.
Gli aderenti alla camera di compensazione si impegnano (e saranno in ogni modo agevolati dalla gestione di rete) a raggiungere il saldo zero alla fine di ogni anno solare.
I prezzi vengono fissati in una valuta di riferimento (che potrebbe anche essere estranea agli Stati coinvolti, tanto è una moneta che sostanzialmente non si userà).
Per consentire alle singole aziende di acquistare ciò che loro serve, i pagamenti aziendali saranno fatti in valuta locale al ministero dell’import-export.
Ovvero quando un azienda importa, paga il prezzo al ministero, quando un’azienda esporta viene pagata dal ministero.
Se una Nazione sta esportando molto e il ministero ha momentanei problemi di liquidità, può pagare le aziende con crediti fiscali o altri ritrovati fiduciari con tutta tranquillità, dato che entro l’anno il saldo andrà a zero (ricevendo quindi i pagamenti dalle aziende che importano).
Quando uno Stato raggiunge la soglia di indebitamento, le sue aziende leggeranno in bacheca la dicitura “esaurito” sotto i prodotti esteri; non appena le esportazioni avranno abbassato il debito complessivo sotto la soglia, i prodotti stranieri saranno nuovamente acquistabili.
In definitiva il commercio inter-statale sarà assolutamente paritetico, perché ogni anno si raggiungerà il pareggio tra esportazioni ed importazioni; all’interno il ministero regolerà le posizioni delle aziende secondo le loro competenze in valuta locale e con ciò ogni problema viene risolto.
Il sistema motivazionale.
Attualmente la gente ha l’obbligo di procurarsi denaro per vivere. Dato che il modo più semplice per procurarselo è quello di lavorare, di solito lavora. In presenza di un reddito generalizzato diventa simmetrica l’istituzione dell’obbligo al lavoro.
L’obbligo al lavoro tuttavia sembra più salutare dell’obbligo al denaro, in quanto il denaro può essere procurato anche con attività criminose o dannose per la società, mentre il lavoro è praticamente sempre utile.
Il denaro perde quindi la funzione di motivatore per l’impegno minimo (l’autosussistenza) e viene rimpiazzato con l’obbligo di legge. La buona notizia è che, abolendo la disoccupazione, il monte ore obbligatorio minimo potrà diminuire.
Inoltre il motto “lavorare di meno per lavorare tutti” potrà essere applicato senza danno di competitività per le aziende (almeno la gran parte che saranno semi-imprenditoriali) e senza danni per lo Stato che esborserebbe comunque il RdC.
Non solo, lo Stato potrà istituire corsi di formazione non casuali (come avviene adesso) ma finalizzati a ricoprire delle posizioni scoperte, quindi dedicati espressamente all’occupazione.
E poi potrebbe non diminuire troppo l’orario mensile e utilizzare i disoccupati per lavori attualmente trascurati, come la manutenzione del suolo pubblico, la bonifica del territorio etc.
Per quanto riguarda la meritocrazia e e il compenso per compiti ingrati si possono prevedere dei bonus in denaro: come premio produzione, come premio di presenza puntualità impegno, ma anche dei premi in ore da sfruttare come tempo libero: un lavoro più ingrato dovrebbe essere esercitato per una minor durata.
Infine l’incentivo all’avanzamento professionale: per i semi-imprenditori si è detto, per i dipendenti ovviamente dovrebbero essere previsti degli aggiuntivi in denaro basati sulla competenza e sulla funzione. Tuttavia la disparità degli stipendi, rispetto al reddito minimo, non dovrebbe essere troppo grande. Oggi si può assistere al paradosso che la differenza nella stessa azienda tra lo stipendio massimo e quello minimo è di un fattore mille (ad esempio in banca). Ciò è assurdo. Un fattore tre, o anche cinque, è più che sufficiente per rimarcare tutte le differenze di merito e di competenza di questo mondo.
La grande differenza tra chi fa un lavoro generico e chi svolge un compito per cui ha dovuto prepararsi lungamente, sfruttando anche doti innate, come è il caso degli scienziati o degli artisti di eccellenza, è comunque quella di esercitare un lavoro che si ama.
L’impiego forzoso da parte dello Stato è riservato a tutti coloro o che non hanno trovato nessun lavoro, o che non sono riusciti a trovare lavoro nel campo prescelto. Pertanto lo studio e la preparazione professionale creeranno una selezione non per la sopravvivenza (ragione per cui si altera sovente il merito e si truccano i concorsi) ma per la possibilità di esercitare al meglio il compito prediletto. Chi fallisse nell’intento, dovrebbe sì svolgere una corvè di prestazione obbligatoria, ma con un orario accettabile che gli consentirebbe comunque di coltivare almeno in parte la propria passione.
In questo modo si rovescerebbe anche un tipico concetto di merito della nostra società in cui il migliore ha diritto a più denaro e, grazie ad esso, a un tenore di vita superiore: grazie al RdC il premio consisterebbe direttamente in un tenore di vita superiore, scaturito dall’esercitare le attività che più si amano o dall’avere più tempo per coltivare i beni relazionali, nonché nella superiore dignità dell’apprezzamento generalizzato per il proprio compito ben svolto.
Il depotenziamento del denaro come motivatore universale sarebbe anche un disincentivo della criminalità. Giova in proposito ricordare il detto di Pitagora: “Onorate Licurgo, che intuì, nell’oro e nell’argento, la causa di ogni delitto!”
Conclusioni.
Questa panoramica esplora le problematiche connesse al RdC e propone anche delle possibili soluzioni. Sicuramente quelle proposte non sono le uniche e forse neppure le migliori, anche se certamente buone.
Ma ciò che è fondamentale sottolineare, in fase conclusiva, è che il RdC non può essere un provvedimento da giustapporre al sistema vigente sperando che funzioni in armonia con l’economia e la finanza di mercato, perché il peso di una simile iniziativa è tale o da modificare il sistema nella sua interezza, oppure da auto annullarsi.
Pertanto, senza un piano che ne preveda le conseguenze con ampiezza, ogni iniziativa politica volta a istituire un RdC è destinata al fallimento.
Andrea Cavalieri
Fonte: www.comedonchisciotte.org
18.112017
nota1) Qui si trova un sintetico approfondimento del tema
nota2) Il metodo è illustrato passo passo qui