Per una Scienza al servizio dell’uomo o sarà schiavitù

Il mito di Icaro e ciò che abbiamo da imparare per essere liberi.

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Di Franco Maloberti per ComeDonChisciotte.org

I progressi scientifici sono il motore dello sviluppo sociale ed economico. Per sviluppo non si intende però quello monetario, ma le aumentate capacità umane e quanto si può realizzare in termini di salute, standard di vita, accesso ai servizi, rispetto sociale e svago. Se si usano questo parametri per misurare lo sviluppo in varie parti del mondo, si vedono grosse differenze. Mentre nei paesi occidentali lo sviluppo umano è notevole, in oriente, nel Sud del mondo e in Africa, la situazione è a un significativo minor livello.

Quale sia la ragione è indicata da uno storico di Stanford, Ian Morris, che spiega che il diverso sviluppo sociale dipende fondamentalmente dall’uso dell’energia (o, come dice lui, dall’energia catturata). In effetti se si guardano i grafici si vede che l’energia catturata nel mondo occidentale è superiore di ben più del doppio di quella utilizzata nell’oriente del mondo.

In realtà, non è solo l’energia il motore allo sviluppo ma ci sono anche altri fattori: l’organizzazione, le capacità militari e le tecnologie dell’informazione. La mia formazione scientifica mi spinge ad affermare che subito dopo l’energia le discipline elettriche ed elettroniche sono quelle che fanno la differenza. Poi viene l’organizzazione e infine l’animosità guerriera. È comunque vero che, dato che l’energia è indispensabile per il suo egemonico dominio, ci sono guerre e conflitti in giro per il mondo. Solo dove c’è un’importante disponibilità di fonti energetiche ci sono ostilità. Le fonti alternative, sole e vento, non creano guerra dato che sono solo un costoso palliativo.

Le discipline elettriche ed elettroniche sono importanti, ma si deve precisare meglio. Ora si parla tanto di digitalizzazione; gli incapaci (ad essere gentili) dell’Unione Europea hanno programmato spese (e sprechi) enormi per la trasformazione digitale dell’Europa, senza pensare che la digitalizzazione comporta un uso enorme di energia, molto più di quello che si pensa di risparmiare. Invece, ci si dovrebbe impegnare nell’uso ottimale dell’energia con una ridotta enfasi sulle comunicazioni e sulle prestazioni “fantasmagoriche” di dispositivi e sistemi elettronici.

L’energia per l’Europa diventerà sempre più onerosa, anche perché l’est e il sud del mondo richiederanno e useranno una quantità crescente di energia per quello sviluppo che è stato per troppo tempo loro negato. La carenza di energia sarà, allora, a mio avviso, la causa principale (assieme alla sudditanza politica) del declino del vecchio continente.

Le discipline elettroniche e informatiche sono l’essenza della società della conoscenza, che è la trasformazione della società industriale dall’uso delle braccia all’uso del cervello. L’invenzione delle macchine, prima funzionanti a vapore, poi azionate da idrocarburi, ha diminuito l’importanza del lavoro delle braccia e, più recentemente, gli avanzamenti dell’era dell’informazione hanno fatto la differenza.

La società della conoscenza ha bisogno di lavoratori della conoscenza che, penso, si dividono in quattro categorie.  Gli utilizzatori della conoscenza, i trasformatori della conoscenza da tacita a esplicita, i divulgatori della conoscenza e i creatori della conoscenza.

Queste quattro categorie sono essenziali per la produzione di idee, la loro diffusione e la loro efficace trasformazione in prodotti avanzati. Il tutto richiederebbe un diverso e più efficace sistema educativo che, purtroppo, si scontra con la “modernità”. I nuovi prodotti di alta tecnologia (i telefonini in primis) sono troppe facili da usare. Ci sono manuali di istruzione ma non vengono nemmeno guardati.

Un giovane utilizzatore accende il dispositivo e dopo un po’ “di prova e vedi cosa succede” lo usa quasi istantaneamente. Questo accade perché la facilità d’uso annulla la curiosità di saper perché e come l’oggetto funziona. Mentre una volta i giovani volevano sapere cosa c’era dentro, ora hanno solo la smania del risultato che arriva velocissimamente. La risposta immediata dei sistemi non lascia il tempo di chiedersi perché e, in definitiva, favorisce l’ignoranza tecnico-scientifica.

Diverso era l’inizio dell’era della conoscenza. Allora i calcolatori avevano interfacce lente, si usavano schede perforate per inserire i dati e i risultati erano stampati su fogli di carta continua. C’era allora il tempo per immaginare il risultato futuro e meditare sugli errori eventualmente commessi. La differenza la fa l’uso delle dita. All’inizio c’era un uso ridotto delle dita, oggi invece l’uso delle dita (in genere solo i due pollici per i giovani tecnologizzati) è frenetico.

Nel passato le persone danarose e i grandi manager facevano usare le dita alle dattilografe, che le usavano tutte dieci con estrema abilità e senza errori. Invece, fare un errore era, per i ricercatori di allora, una cosa comune. Sbagliare era fonte di frustrazione e, cosa strana, lo sbaglio e la frustrazione sono il carburante della creatività.

Gli psicologi dividono il processo creativo in cinque fasi: la prima è la preparazione, che vuol dire avere le conoscenze di base. Nella stessa fase c’è anche la formulazione del problema e il primo scontro con una sua “impossibile” soluzione. La seconda fase è la frustrazione per non essere in grado di trovare la risposta e, come conseguenza, c’è l’abbandono il quale, in realtà, è l’incubazione del problema. Lo si abbandona coscientemente ma questo rimane nel cervello e subisce un processo di “decantazione” e di elaborazione nascosta. La terza fase è l’ispirazione: quella lampadina che si accende in modo inaspettato e che mostra quello che non si vedeva prima. Si pensa: Ma è una stupidaggine: perché non l’ho mai pensata prima? Le due fasi che seguono sono ingegneristiche: verifica e realizzazione.

A monte di tutto c’è la curiosità, quella cosa che anticipa la creatività. La curiosità è tipica dei bambini che, come noto, creano cose reali e fantastiche nei loro giochi. Questa cosa era ben presente a Steve Jobs, fondatore di Apple. Qualche tempo prima di morire, fece un discorso alle lauree di Stanford e terminò con l’incoraggiamento “Stay hungry, stay foolish” (tradotto letteralmente “siate affamati, siate folli”) ma, in pratica, “Siate curiosi, siate creativi”.

Io, molto più banalmente, ho sempre incitato i miei studenti a usare il cervello e non le dita.

Le condizioni sopra descritte non ci sono più o quasi, dato che la velocità delle macchine è di gran lunga superiore a quella del cervello. Il cervello viene per questo eluso da una immediata soluzione, di certo ordinaria o anche banale.

Il cervello è invece immensamente superiore di qualsiasi macchina in “intelligenza”. Purtroppo, anche per motivi di consueto business, si vuole attribuire alle macchine “intelligenza”.

Si deve allora chiarire che per la quasi totalità delle applicazioni, l’uso della definizione “intelligenza artificiale” è uno specchietto per le allodole, dato che la vera “intelligenza” manca. Se si ascolta quello che dice, tra gli altri, IBM (una parte in causa del business), si sentono definizioni che arrivano a superare l’intelligenza umana.

Le definizioni partono da intelligenza debole, che è quella che fornisce risposte scontate o che svolge funzioni banali, per arrivare alla intelligenza forte o super-intelligenza che (ridete) ha come unico esempio il supereroe di Odissea nello Spazio 2001. L’intelligenza artificiale è, comunque, una nuova etichetta di qualcosa studiato da molti anni: le reti neuronali. Queste combinano molti segnali in ingresso che vengono pesati in modo opportuno. Dopo una serie di passaggi si produce una risposta. I vari pesi vengono raffinati in una fase di “apprendimento”.

La potenza di calcolo dei nuovissimi microprocessori consente di moltiplicare per un numero grandissimo le operazioni di base per ottenere un risultato “ragionevole”. Si deve però dire che il consumo di potenza per “istruire” i sistemi “intelligenti “, non è una bazzecola. Per il rinomato chatGTP-4, che è una specie di pappagallo “intelligente”, si è calcolato che la potenza usata per istruirlo è tra i 51 e i 61 milioni di KWh (kilowattora). Si deve anche mettere in conto l’energia richiesta per le risposte, anche questa, non poco.

Inoltre, il costo economico di questo “pseudo” arricchimento dell’umanità è spaventoso. Le nuove tecnologie dei semiconduttori, che servono sostanzialmente per migliorare i surrogati di intelligenza, o per fornire servizi effimeri nei telefonini di nuova generazione, costano svariate decine di miliardi. Ci si chiede allora se usare tutte queste risorse energetiche e finanziarie sia buona cosa. Ci si chiede poi se questi “scienziati”, che spingono questo settore, operino veramente per un progresso armonioso dell’umanità. Infine, il problema vero, assunto che si decida di spendere la quantità enorme di risorse necessarie, non è il rischio che tutti paventano di supposto dominio delle macchine, ma il fatto che, secondo il mio modesto parere, la somma dell’intelligenza naturale e quella presunta artificiale è una costante. Un aumento dell’intelligenza fittizia sopprime la frustrazione e l’incubazione e, come conseguenza, porta a una riduzione dell’intelligenza reale. Quanto sopra è il mio modesto contributo, che verrà senza dubbio contestato dai cosiddetti “digital enthusiast”.

Passiamo oltre, … e consideriamo ancora i prodotti della società della conoscenza. Ovviamente ci sono vantaggi, le applicazioni che controllano i robot eliminano la fatica fisica. Inoltre, con l’automatismo si riducono se non si eliminano le possibilità di errore; le esecuzioni sono rapide e, globalmente, si migliora la qualità della vita.

Esistono anche svantaggi. Già si è detto che i sistemi moderni limitano la fatica intellettuale. Le strade sono ben definite e non c’è alcun bisogno di fermarsi a pensare quale sia la migliore. La soluzione viene offerta in un baleno e, quasi sempre, è una soluzione ragionevole (anche se non ottimale). La mancata fatica intellettuale è, per il cervello, come la fatica fisica per i muscoli. Si intorpidiscono e non funzionano al meglio. Per i muscoli si va in palestra con dei risultati che sono, diciamo, così così. Lo stesso vale per il cervello. Non usarlo porta a ridotte capacità intellettuali.

Una seconda negatività riguarda l’incomprensione tra giovani e vecchi. Da sempre i giovani hanno considerano gli anziani con sufficienza. La esperienza (o anche la saggezza) era comunque tenuta in buona considerazione. Oggi, invece, una conoscenza, pur superficiale, della tecnologia, assorbita velocemente delle nuove generazioni, fa credere loro di essere sapienti, portando così ad una aumentata separazione generazionale.

Gli avanzamenti tecnologici danno anche l’impressione di protezione, superiore a quanto sia in realtà. Si rilassano le difese e si ha un conseguente minor coraggio e ardimento, quello che caratterizzava gli antichi. Un eccessivo senso di senso protezione e la sua assuefazione diventano, a un certo punto, anche una minaccia alla libertà.

Un ultimo punto, forse il più importante, è che gli impetuosi avanzamenti tecnologici fanno credere di essere invincibili, capaci di battere la natura.

Minosse era un mitico re di Creta. Chiese a Dedalo, un provetto costruttore e architetto, di erigere il labirinto per rinchiudervi il Minotauro.

A realizzazione conclusa Minosse, che voleva che i dettagli della costruzione rimanessero segreti, imprigionò Dedalo e suo figlio Icaro. Per scappare dalla prigione Dedalo fece delle ali usando delle penne che applicò ai corpi con della cera. Icaro non ascoltò le raccomandazioni del padre e, preso dall’ebbrezza del volo, si avvicinò troppo al sole. Il calore fuse la cera e Icaro precipitò.

Il mito di Icaro trova una buona analogia con l’evoluzione della scienza.

Il mondo di ieri, così magistralmente descritto da Stefan Zweig nelle prime pagine del suo omonimo libro, era la Vienna dei caffè dove si discuteva amabilmente, con la musica, l’arte, l’architettura, la filosofia, il bel vestire, dove ci si occupava “di buon vino, di una birra frizzante, di ghiotti dolci e torte, …”. Ma c’era anche miseria, sofferenza e fatica. E la scienza ha combattuto la sofferenza e la fatica con efficaci medicine, macchine per l’indagine medica e apparati per alleviare la fatica delle braccia. Ha anche contribuito a cancellare la miseria, ma solo in una parte del mondo.

La scienza, come Dedalo che ha inventato le ali di cera e ha fornito strumenti di grande efficacia ma, sventuratamente, gli sciocchi, inclusi quelli che popolano Bruxelles, la usano in modo sconsiderato, distruggendo con deliberazioni dannose, fomentando guerre e imponendo assurde restrizioni quell’eccellenza di vita di cui ha goduto Stefan Zweig nei suoi primi anni.

Purtroppo, la mancanza di consapevolezza e di etica in una sostanziale frazione, malauguratamente crescente, di lavoratori della “scienza” peggiora la situazione. Non è il desiderio di trovare spiegazioni ai misteri della natura o fornire strumenti che migliorano la qualità di vita dell’umanità quello che motiva quei lavoratori della “scienza”, ma la smania di volare fino al sole, sfidare la natura e pensare di essere più forte di lei.

Per questa effimera ebbrezza non si curano dello spreco di gigantesche risorse, come accade per l’intelligenza artificiale e per applicazioni militari. Non si curano del sostanziale impoverimento artistico, musicale, pittorico, filosofico e, molto più importante, etico. Serve un momento di riflessione. Serve una rigorosa etica della scienza.

Si deve evitare la presunzione fatale che porta alla schiavitù.

Di Franco Maloberti per ComeDonChisciotte.org

02.01.2024

Franco Maloberti. Professore Emerito presso il Dipartimento di Ingegneria Elettrica, Informatica e Biomedica dell’Università di Pavia; è Professore Onorario all’Università di Macao, Cina, dove è stato insignito della Laurea Honoris Causa 2023.

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