La trama che ha reso schiava l’Italia

La cessione della rete TIM al fondo americano Kkr è soltanto l'ultima puntata del processo di colonizzazione e svendita del nostro Paese che viene da lontano e che un libro ricostruisce da cima a fondo.

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Causale: Raccolta fondi

Di Roberto Valtolina

La svendita ai padroni atlantici degli asset strategici nazionali è ormai una priorità del governo dei finti sovranisti e procede a ritmi serrati.

Inquietante il blitz di domenica 5 novembre 2023: senza passare dall’assemblea dei soci e con il pieno supporto governativo, il cda di TIM ha accettato l’offerta del fondo speculativo USA Kkr, a cui ha venduto – per 22 miliardi di euro – la rete fissa italiana. Uno degli asset cruciali del Paese viene così ceduto a una realtà che, nel 1991, Sarah Bartlett aveva già ribattezzato The money machine – La macchina da soldi -, per le sue tipiche condotte predatorie: acquistare a debito le aziende per poi spolparle e intascare plusvalenze colossali. Kkr è il braccio armato delle mire egemoniche d’oltre Atlantico: acquisizione dopo acquisizione, il fondo si sta ritagliando un posto al sole nel mondo delle infrastrutture telecomunicative, dall’Olanda all’India, da Singapore alla Colombia, passando per il Cile. La cabina di regia del peggior acquirente possibile immaginabile della nostra infrastruttura di telecomunicazioni è diretta da quel po’ po’ di bravo ragazzo (si fa per dire) di David Petraeus, il famigerato generale Usa noto per il ruolo disastroso assunto nelle carneficine irachena e afghana. Il 9 novembre 2012 il nostro si dimise da direttore della Cia, dopo aver ammesso la relazione sessuale con la propria biografa. Ma Petraeus meritava un’altra chance ed eccolo approdare magicamente nella stanza dei bottoni di Kkr, che gli creò una nuova divisione ad hoc, il Kkr Global Institute, specializzata nell’analisi geopolitica e macroeconomica.

Nel 2013 il Sole24ore sottolineava che, «Petraeus potrà aiutare Kkr anzitutto ricorrendo alla sua rete di contatti con governi e autorità internazionali». Dieci anni dopo, missione compiuta. Dunque, tanti saluti a 21 milioni di chilometri di cavi in fibra ottica che rappresentano la principale infrastruttura per la trasmissione dei dati di cittadini, pubblica amministrazione e imprese. E addio allo snodo principale per la digitalizzazione e il futuro italiano.

Ma non basta. Il governo Meloni lascia aperta la porta anche per la cessione della rete sottomarina di Sparkle, controllata di TIM, un asset forse ancor più importante: 600.000 chilometri di cavi in fibra ottica posati sul fondo del mare e che rappresentano la dorsale digitale che collega l’Italia al resto del mondo. Quest’ultima notizia è passata in cavalleria, come tutte le notizie scomode per lo zio Sam. Il mainstream nazionale, ad esempio, nulla ha mai riferito della militarizzazione che sta investendo la Sicilia negli ultimi mesi. Aggredita da un cancro in metastasi, l’isola assomiglia sempre più sinistramente alla zona più militarizzata d’Italia durante la Guerra fredda: il Nord Est, che viveva di economia di guerra e pullulava di gruppi operativi dell’esercito e di arsenali. Ebbene, a causa dell’appoggio italiano alla sciagurata operazione Nato in Ucraina, in Sicilia stanno proliferando dappertutto i poligoni di tiro; a Palermo e a Messina aumenta vertiginosamente la produzione industriale militare.

Eppure, come diceva Ennio Flaiano, «coraggio, il meglio è passato». Eh sì: la risposta al perché di queste ciliegine sulla torta della totale abdicazione a ogni forma di sovranità nazionale, che negli ultimi trent’anni ha trasformato l’Italia nel 51esimo Stato a stelle a strisce, affonda le radici nel passato. Segnatamente al decennio 1970/80, che l’autore di queste righe ha ricostruito completamente con The masquerade, un libro uscito per i tipi di Frascati & Serradifalco e scritto a quattro mani con Maurizio Fiorentini, esponente di un collettivo di Autonomia operaia romana durante gli anni di piombo. The masquerade racconta quella temperie come se fosse terminata ieri. Perché sembra ieri. L’onda lunga di quegli anni, che culminò nel delitto Moro, marchia il nostro presente geopolitico, totalmente assoggettato alla regia atlantica, dall’Ucraina alla Palestina, passando per le “voci” su Ustica.

Giorgio Napolitano, il dirigente comunista preferito dal segretario di Stato americano Henry Kissinger e che per primo approdò in Usa in pieno sequestro Moro, è morto il 22 settembre. Proprio trent’anni fa, quando cominciò la svendita del patrimonio pubblico italiano, Bettino Craxi si rivolse a lui e all’allora presidente del Senato Giovanni Spadolini. La vicenda scottava e il carteggio finì nel dimenticatoio: The masquerade l’ha fatta riemergere. Mentre oggi Israele è l’emblema storico della legge del più forte come principale parametro di diritto e tale archetipo viene presentato in Occidente come rappresentanza dello stato di diritto ed emblema della democrazia, Craxi portò avanti una politica estera pro Palestina, fatta per proteggere l’Italia, un bersaglio allora molto vicino e decisamente esposto al terrorismo palestinese. La sua linea è affossata ancora una volta per la genuflessione del nostro governo a Israele. Il 6 novembre 1985, da Presidente del Consiglio, Craxi riferì alla Camera sulla politica estera governativa e rivendicò, pur contestandone l’efficacia, il diritto dei palestinesi alla lotta armata di liberazione nazionale dall’occupazione straniera. In aula si scatenò il trasversale partito americano: La Malfa s’innervosì, il missino Berselli lo interruppe, facce tese tra le fila missine.

Craxi ha pagato a caro prezzo sia il suo sostegno alla causa palestinese sia quel metaforico pugno che sferrò agli americani e agli israeliani nella crisi di Sigonella. Quest’ultima è la più importante base Nato in Sicilia, da cui decollano i pattugliatori che raggiungono il Mar Nero per monitorare i movimenti della flotta russa e riferirne alle forze armate ucraine.

In Italia molti si sono rifiutati di seguire l’esempio dell’allora leader del Psi. Avrebbero dovuto farlo riguardo a un clamoroso reperto appartenente a una potenza straniera, ritrovato da alcuni agenti della Questura di Roma in pieno sequestro Moro. Sarebbe stato un metaforico pugno che avrebbe colpito, in primis, i padroni di casa. Di cosa si tratta? Sul delitto Moro il democristiano Giovanni Galloni disse: «La verità la sapremo solo quando cadrà il segreto sui documenti conservati a Washington». Ma il senso di quella devastante vicenda è ben comprensibile al di là di quelle carte, che gli Usa, in ogni cosa, non tireranno mai fuori. The masquerade ne riscopre alcune, che bastano e avanzano per squarciare molte nubi su uno snodo spartiacque della storia italiana: un distintivo e due signori statunitensi vengono finalmente associati a quei devastanti 55 giorni.

Il distintivo che ritroviamo in questo articolo, infatti, urlava da cinquant’anni l’attenzione di qualcuno che lo liberasse dagli spessi strati di polvere che lo avevano ricoperto. Apparteneva al più potente presidio militare atlantico in Europa: il lettore lo scoprirà, insieme ai due signori a stelle a strisce che per la prima volta vengono messi sotto i riflettori di ciò che avvenne nel 1978; uno dei due è ancora vivo.

Quel distintivo, simbolo del predominio Usa in Italia, fu trovato in uno storico covo delle Brigate rosse, il 18 aprile 1978, proprio il giorno prima del rientro di Giorgio Napolitano in Italia dal soggiorno americano. È stato incredibilmente ignorato dai vertici dei Servizi segreti dell’epoca, dall’Interpol, dalla Questura di Roma, da cinque processi e due Commissioni Moro, e nemmeno dalle tre commissioni parlamentari italiane su Terrorismo, P2 e Mitrokhin.

Tutti colpiti da cecità collettiva. Non è meraviglioso?

Di Roberto Valtolina

15.11.2023

Roberto Valtolina. Classe ’87, scrittore di temi d’inchiesta e ricercatore, Valtolina ha collaborato con la firma del Corriere della Sera Ferruccio Pinotti a vari libri, tra cui Attacco allo Stato, sulle autobombe del 1993. Autore con Maurizio Fiorentini di The masquerade edito da Serradifalco Editore (2023).

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