La mente orientale – Parte II

Nella superficiale atmosfera sincretica che caratterizza la cultura contemporanea, un’attenta rilettura di un saggio dello psicoanalista Christopher Bollas offre spunti che fanno la differenza. PARTE SECONDA: IL SE’ È POESIA

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Di Alessia Vignali per ComeDonChisciotte.org

Nell’intento di sondare l’incontro tra oriente e occidente cui assistiamo nelle sempre più frequenti ricerche di filosofie e religioni altre da parte di un soggetto occidentale smarrito, alla ricerca di un senso per sé e la sua storia, proponiamo anche in questa seconda puntata la rilettura di una piccola perla della psicoanalisi contemporanea, “La mente Orientale” di Christopher Bollas (2014). Cosa troviamo, quando ci affacciamo sul taoismo o sul buddhismo zen? Cosa cerchiamo davvero?  Non è che per caso quanto cerchiamo sia non la novità, ma un significato perduto di noi e della nostra umanità? E se si tratta di qualcosa di nuovo, non è che per caso questo contenuto mancante sia all’origine dell’attuale deriva della mente occidentale? Come altre discipline tra arte e scienza, la psicoanalisi ha preso in carico alcuni nuclei di funzionamento del sapere orientale e ha tentato una sintesi riparatrice.

IL SE È POESIA

In Cina il “Libro delle odi”, risalente al 1000 a.C. e composto nei secoli raccogliendo le poesie (inizialmente 3000 canti) che celebrano la vita delle persone comuni, era compilato per la maggior parte dal sovrano regnante, che inviava scribi nei villaggi affinché mettessero per iscritto i canti, gli inni e le poesie del popolo lavoratore. Esso, che divenne un testo fondamentale per la Cina e stabilì un modello di pensiero per la mente orientale, dà conto di come la poesia fosse considerata una “casa per il sé”, altrimenti regolato come parte di una volontà collettiva. Data l’ambiguità intrinseca alla lingua cinese, priva di pronomi e di tempi verbali, ognuno poteva interpretare a modo proprio ogni componimento, benché questo appartenesse alla collettività costituendo, per così dire, anche un contenitore del sentire collettivo.

Per Confucio, che curò l’edizione del “Libro delle odi” che conosciamo oggi, il giusto sentiero riguarda il modo in cui si vive anziché ciò che si realizza.
Una priorità della forma sul contenuto che si trasmette attraverso l’estetica della struttura poetica. È quella forma, quell’estetica della struttura a costituire il mezzo silenzioso per guidare il sé attraverso la Via, il Tao.

Mentre la letteratura occidentale trasmette contenuti e messaggi, per esempio il viaggio e le prove cui viene sottoposto l’eroe e come le supera, sia esso Ulisse o Enea, la poesia orientale sembra voler trasmettere strutture mentali. L’obiettivo non è raccontare una storia, ma esperire quella forma particolare.
Si tratta cioè di strutture musicali di parole che catturano l’essere con esperienze intense che lo coinvolgono tutto. Esse mantengono lo stile del modo di essere della madre con il bambino. Per i cinesi, ascoltare una poesia significa poter pensare esperienze note e non pensate. Se per gli occidentali la maggior parte dei pensieri non è pensabile senza linguaggio a livello conscio, per i cinesi non si poteva pensare all’esperienza della propria vita senza l’idioma della poesia. Nella poesia la mente orientale non ha lo scopo di raggiungere un obiettivo, ma quello di creare una realtà prima inesistente. I versi non sono destinati a venir collegati in un’unica struttura sintattica. La natura autonoma di un’immagine, l’affiancamento di oggetti gli uni agli altri, hanno di per sé una completezza emotiva. Le poesie sono più simili a sculture, a punti di vista mobili sul percepire. I poeti cinesi danno enorme importanza alla rappresentazione di oggetti visibili e di eventi lasciando che vengano spiegati dal loro emergere coesistente e coestensivo alla natura.  Alle prese, poi, con la transitorietà da millenni, i poeti orientali hanno conferito ai componimenti l’intensità dell’evanescente. Un albero, un pesce, un ruscello diventano dense immagini cariche di emotività proiettata. In questo modo, l’oggetto diviene uno “scrigno per il sé”. L’essenza della persona si trasforma, coerentemente con la rinuncia all’ego prescritta dal buddhismo zen, nei suoi rappresentanti del mondo naturale. La poesia presenta così l’essere del poeta senza direttamente parlarne. Obiettivo della poesia è, tuttavia, non rappresentare nulla, ma letteralmente presentare qualcosa che non è mai esistito prima. La forma della poesia e cioè una realtà nuova. Quanto sostiene il critico letterario Maurice Blanchot è applicabile correttamente alla poesia orientale: “L’arte ha uno scopo, e questo scopo stesso non è un semplice modo di esercitare lo spirito, essa è lo spirito. L’opera è lo spirito, e lo spirito è il passaggio, nell’opera, dalla suprema indeterminazione all’estremamente determinato; nell’opera vediamo la nostra mente, perché l’opera è soltanto la realizzazione di quel che c’è di più nello spirito, che a sua volta non vede in essa che l’occasione di riconoscersi e di esercitarsi infinitamente. Lo spirito allora vede ancora una volta soltanto nell’opera un’opportunità per riconoscere ed esercitare se stesso all’infinito.” Per la mente orientale la poesia rappresenta dunque il luogo in cui la mente realizza se stessa.

Essa ha profondità non paragonabili a quelle del romanzo, tanto è vero che i primi romanzieri cinesi pubblicarono sotto pseudonimo, per evitare la vergogna di utilizzare una forma denigrata di banalità verbale. Il romanzo cinese subì poi un processo di estetizzazione per via del quale la narrativa divenne, alla fine, simile alla poesia.

FELICE OZIO

Zhuang-zi (369-382 a.C.), è uno dei quattro grandi filosofi cinesi insieme al Lao-Zi, Confucio e Mencio. La sua riflessione assembla una rigorosa richiesta di pensiero lucido con un chiaro sentimento della natura insondabile dell’esperienza umana. Alla domanda “Esiste davvero la felicità?” risponde: “Prendo l’inazione per vera felicità”. Contro la monotonia del quotidiano, Zhuang-zi esorta a trovare appagamento
nella “non azione”. Troviamo assonanze nella psicoanalisi di Donald Winnicott, capofila della scuola degli “indipendenti britannici” che più d’ogni altra corrente enfatizzò l’importanza della relazione madre-bambino dei primi anni di vita. Egli sosteneva che quasi tutto quanto i pazienti dicevano fossero “chiacchiere”, disordine mentale camuffato da super-adattamento. Anche la libera associazione, il libero concatenarsi dei pensieri che fu strumento tecnico principe della psicoanalisi a partire da Freud, è per lui un ostacolo, poiché produce un filo di idee come atti di onnipotenza difensiva, in ultima analisi segno di ansia. Semplicemente, egli chiedeva al paziente di stare tranquillo e adottava una modalità prevalentemente silenziosa con comunicazioni occasionali brevi, di carattere onirico. Per Winnicott “l’esperienza del sé in essere è l’analisi”. Con lui, la psicoanalisi si sposta dal paradigma “epistemologico”, volto a perseguire la conoscenza dell’inconscio (“ciò che era Es deve diventare Io”, asserì Freud) a quello “ontologico”, volto a tessere le trame del sé attraverso l’esperienza del proprio essere (la definizione è di Thomas Ogden).
Solo in un ambiente “privo di propositi”, in cui la personalità “tira avanti” in uno stato non integrato, informe e “nella dipendenza dall’altro”, che ripristina e ripara l’esperienza della dipendenza primitiva dalla madre non andata a buon fine, può emergere un senso di essere. Dice Winnicott in “Gioco e realtà”: “In queste condizioni altamente specializzate, l’individuo può raccogliersi ed esistere come una unità, non come una difesa contro l’angoscia, ma come un’espressione di “io sono”, io sono vivo, io sono me stesso. Da questa posizione ogni cosa è creativa”.

CULTURA

Il pensiero Zen nasce in Cina, Corea e Giappone forse anche in risposta alle disposizioni neo-confuciane formali. Esso trova nella natura della mente l’origine dei comportamenti distruttivi, del pensiero malato, delle idee tossiche, dunque prescrive di… smettere del tutto di pensare. Una mente senza contenuto è una mente aperta, disponibile alla comunione con l’energia della Via o con lo spirito del Buddha. Se paragoniamo le idee tossiche della mente al concetto di “falso sé” del geniale psicoanalista Winnicott, comprenderemo come sia analoga alle prescrizioni Zen la teoria di Winnicott del necessario smantellamento del falso sé. Per conseguirlo, Winnicott richiede al paziente in analisi che venga abbandonato il sé che parla, essendo il silenzio l’unica posizione dalla quale i moti del vero sé siano possibili. Sospendere il lavoro adattivo della mente, così connesso all’uso fuorviante della parola, è per lui necessario al fine di accedere alla creatività spontanea. In “Gioco e realtà”, infatti, egli sostiene che “E’ l’appercezione creativa, più di ogni altra cosa, a far sì che l’individuo abbia l’impressione che la vita valga la pena di essere vissuta. Ma non vi è questa possibilità nel regime della compiacenza, dal quale il soggetto guarda alla realtà non come a qualcosa con cui giocare, ma come a un qualcosa in cui ci si deve inserire o cui tocca adattarsi.” L’analista, dunque, non deve interferire con il paziente, dev’essere “tranquillo”. Se non ci si attende nulla da lui, il paziente non dovrà adattarsi. La mente adattiva, il falso sé, cessa di funzionare e questo suscita uno stato “informe”. Vale a dire, uno stato in cui le strutture precostituite, ereditate e adattate per compiacenza non ci sono più. L’area dell’informe ha una posizione di rilievo nella teoria di Winnicott: per lui il neonato nasce in uno stato non integrato, da cui emergono l’essere e il potenziale per la vita del vero sé. Uno degli obiettivi dell’analisi è farlo tornare lì. “L’esperienza è quella di trovarsi in una condizione priva di particolari propositi, come una sorta, potremmo dire, di funzionamento al minimo della personalità non integrata”.

Dunque, Winnicott espone una visione del cambiamento ottenibile in analisi molto diversa da quelle precedenti, che implica un rifiuto profondo dell’aspetto verbale della tradizione psicoanalitica classica. Come la mente orientale, la teoria e la pratica di Winnicott conferiscono un ruolo centrale al mondo preedipico del bambino e della madre, che precede la caduta edipica che infrange la prima infanzia con le potenti tossine dell’invidia, della rivalità e dell’odio.

La mente orientale non assiste allo sviluppo di una letteratura psicologica per via di un “rifugio” che trova nell’ordine materno che permette di aggirare i tormenti, le doppiezze, la corruzione del periodo edipico. Alla tradizione orientale manca, cioè, un riconoscimento o interesse per ciò che in occidente sarebbe considerato un ordinario “conflitto mentale”. La cultura occidentale, viceversa, presuppone che il sé sia in conflitto perenne. Partendo da Sofolce e Eschilo, passando per la Confessioni di Agostino a per il genio di Shakespeare, questa consapevolezza ha dato origine a romanzi e opere teatrali che studiano la mente e il conflitto umani. Questo è il tradizionale assillo che si riflette nella teoria della mente di Freud.
Nell’operare dello psicoanalista Winnicott rinveniamo assiomi dominanti nella visione orientale della vita e della salute mentale. Ma costruire un modello di psicoanalisi esclusivamente sulle ipotesi da lui promosse è improponibile per Bollas, dal momento che si fondano su un radicale abbandono del discorso, del conflitto e della “mente pensante”.

E se, dice, il modello del Sé privo di mente e quello del Sé preoccupato dal conflitto intrapsichico potessero armonizzarsi senza eliminarsi l’un l’altro?

Bollas precisa che a suo modo di vedere il conflitto edipico è il primo conflitto di gruppo, che dimostri al soggetto come sia doloroso venir guidati da una psicologia di gruppo non interessata ai desideri del sé onnipotente infantile dei primi anni di vita, indifferente alla sua origine e insensibile al nome di qualsiasi padre. Dunque, se è vero che il potere assoluto e l’effetto irreversibile del padre simbolico separa il bambino dalla relazione onnipotente con la madre e lo costringe alla socializzazione, è anche vero che, come Freud stesso presagisce in “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, non è l’introduzione del nome del padre che scioglie questo complesso in ultima analisi, ma l’effetto inesorabile della vita di gruppo. Bollas indica nell’approfondimento della psicologia dei gruppi, non influenzati dallo ieratico sistema di pensiero dell’ordine paterno, ma da un sistema di pensiero orizzontale mosso da affetti potenti, una via potenziale peraltro presagita nella storia del pensiero orientale, ma non condotta a termine, forse ancora in inconscia incubazione.

Quella che ci fa compiere Christopher Bollas in “La mente orientale” è una vera e propria immersione nelle modalità in cui sono avvenuti millenni di evoluzione e stratificazione del pensiero cinese (per l’autore anche alle radici di quello coreano e giapponese), dandoci modo di cogliere nel dettaglio la trasmissione generazionale dell’impegno di costruire un’alleanza collettiva che consenta l’armonia tra il singolo e la comunità.

Il mezzo per giungere a quest’impresa fu quello (non certo estraneo anche alla mente occidentale) di forgiare menti attrezzate per risolvere il “problema vita” attraverso soluzioni che, elaborate collettivamente, fornissero ai singoli  “strutture mentali” capaci di guidarli nel quotidiano.

Attraverso un capolavoro di sintesi, l’autore riesce a presentarci come la sua mente singola di psicoanalista sia riuscita ad abbracciare il lavoro della “mente di gruppo” orientale, che affonda le sue radici nelle profondità del tempo, da prima di quel caposaldo enigmatico risalente a 2500 anni fa e poi rivisitato e modificato nel corso di secoli che è l’I Ching. L’incantevole complessità di questo testo già presenta al lettore occidentale modalità di concettualizzazione della realtà che costituiscono la specificità della mente orientale: l’istante anziché la durata, la sincronicità anziché la causalità, la presentazione anziché la rappresentazione, l’immagine, il gesto o la presenza anziché la parola, l’inconscio rispetto al conscio, l’ambiguità anziché la chiarezza, la copresenza anziché la sequenza. Sono tratti su cui incide, potremo dire per retroazione, anche la lingua cinese stessa, contraddistinta dalla presentazione sequenziale di sostantivi priva di sintassi, di verbi, pronomi, congiunzioni.

La stessa scrittura ideografica cinese, in cui ogni segno contiene in sé molteplici significati evocati sia dalla storia di quel carattere nella cultura, che dell’esperienza emotiva dello scrivente con le componenti di visive parziali e complessive del carattere, favorisce questo tipo di pensiero.

Soltanto una visione dall’esterno, però, riesce davvero a cogliere il valore e il significato che può avere per l’intera umanità la specifica prospettiva orientale. Solo in quanto  occidentale, cioè, Bollas può scontrarsi con “l’integrità” dell’oggetto “cultura cinese”, con la sua reale differenza che prescinde dalle proiezioni dell’altro e può suscitare in lui, provocandolo con la sua alterità, un pensiero nuovo.

Il fatto, cioè, che Bollas auspichi che l’occidente apprenda la “lezione orientale” per arricchire la “mente del mondo” di strumenti capaci di alimentare il pensiero, cioè la capacità di partorire pensieri utili a risolvere i problemi del futuro, convive con la fiducia nella necessità che una cultura altra vi sia e continui a sussistere.

Di Alessia Vignali per ComeDonChisciotte.org

Alessia Vignali, psicologa, psicoterapeuta, psicoanalista e giornalista.

FINE 

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