La carne in questione

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DI GEORGE MONBIOT

monbiot.com

Allevare animali è insostenibile come estrarre carbone.

Cosa penseranno le future generazioni, guardando indietro alla nostra epoca, vedendo le sue mostruosità?

Pensiamo alla schiavitù, alla sottomissione delle donne, alle torture legalizzate, all’assassinio degli eretici, alle conquiste e ai genocidi imperiali, alla prima guerra mondiale e all’ascesa del fascismo, e ci chiediamo come quelle persone non si accorgessero degli orrori che commettevano. Quale pazzia odierna farà ribrezzo ai nostri discendenti?
Ce ne sono molte tra cui poter scegliere. Ma una di queste, credo, è l’incarcerazione di massa degli animali per permetterci di mangiare le loro carni, o uova, o bere il loro latte.
Nello stesso momento in cui ci definiamo animalisti, ed elargiamo gentilezze ai nostri cani e ai nostri gatti, infliggiamo brutali deprivazioni a miliardi di animali, che hanno la capacità di soffrire esattamente allo stesso modo. L’ipocrisia è talmente evidente che le future generazioni si meraviglieranno di come non siamo stati in grado di rendercene conto.

Il cambiamento avverrà con l’avvento di carne artificiale economica. I cambiamenti tecnologici hanno spesso aiutato a catalizzare i cambiamenti etici. L’accordo di 300 milioni di dollari  firmato dalla Cina lo scorso mese per comprare carne cresciuta in laboratorio, segna l’inizio della fine dell’allevamento dei capi di bestiame. Ma non accadrà velocemente: grandi sofferenze continueranno per molti anni.

Quindi la risposta, quella data da chef famosi e food-blogger, è quella di allevare gli animali all’aperto: mangiare manzi o agnelli ruspanti, non porci da batteria. Ma tutto quello che ne consegue è cambiare da un disastro – la crudeltà di massa – a un altro: la distruzione di massa.

Quasi tutte le modalità di allevamento provocano danni ambientali, ma nessuna più di quella all’aperto. La ragione è l’inefficienza. Il pascolo non solo è abbastanza inefficiente, ma è stupendamente dispendioso. Quasi due parti della superficie terrestre è utilizzata per la coltura del foraggio, ma gli animali alimentati interamente nei pascoli producono solo 1 grammo degli 81 grammi di proteine consumati al giorno da una persona.

Uno studio pubblicato su Science of the Total Environment afferma che “la produzione dei capi di bestiame è l’unico grande motivo della perdita di habitat”. I pascoli sono un sistema automatico in piena regola per la distruzione ecologica: serve solo lasciar liberi gli animali di pascolare e loro faranno il resto, mangiucchiando piantine di alberi, semplificando ecosistemi complessi. I pastori aiutano questo assalto macellando i grandi predatori.

In Inghilterra, per esempio, le pecore forniscono, in termini di calorie, intorno all’1% della nostra dieta. Tuttora occupano circa 4 milioni di ettari negli altipiani. Equivale più o meno a tutta la terra coltivata in questo paese, e a più del doppio degli spazi edificati (1,7 milioni di ettari). Il ricco complesso delle foreste pluviali che una volta ricopriva le nostre colline è stato cancellato, la natura selvaggia ridotta a una manciata di specie coraggiose. Il danno prodotto è molto più elevato della quantità di carne prodotta.
Rimpiazzare la carne con la soia nella nostra dieta, riduce meravigliosamente la quantità di terra richiesta per un chilo di proteine: del 70% nel caso di polli, dell’89% nel caso del maiale e del 97% nel caso della manzo. Uno studio suggerisce che se cambiassimo tutti la nostra dieta in una vegetale, 15 milioni di ettari di terra nel Regno Unito attualmente usati per l’allevamento potrebbero tornare al loro stato naturale. In questa alternativa, questo paese potrebbe nutrire 200 milioni di persone. La fine dell’allevamento di animali sarebbe la salvezza della natura selvaggia mondiale, delle nostre meraviglie naturali e dei magnifici habitat.

Comprensibilmente, gli allevatori hanno obiettato contro questi dati di fatto, usando un argomento ingegnoso. L’allevamento di bestiame, sostengono, può eliminare il carbonio dall’atmosfera e conservarlo nel terreno, riducendo o addirittura invertendo il riscaldamento globale. In un discorso TED visto da 4 milioni di persone, il proprietario di ranch Allan Savory sostiene che il suo approccio “olistico” all’allevamento potrebbe assorbire abbastanza carbonio da far tornare l’atmosfera a livelli pre-industriali. La sua incapacità, quando l’ho incontrato, di sostanziare le sue tesi, non ha per nulla intaccato la loro popolarità.

Affermazioni simili sono state fatte anche da Graham Harvey, l’agricoltore redattore esecutivo della serie BBC The Archers – afferma che le praterie degli Stati Uniti potrebbero assorbire tutto il carbonio “che è finito nell’atmosfera dall’epoca dell’industrializzazione” – e  amplificate dalla campagna ‘Campaign to Protect Rural England’. Le organizzazioni di allevatori di tutto il mondo adesso promuovono con ardore questa visione.

Un report pubblicato questa settimana da Food Climate Research Network chiamato Grazed and Confused, mira a rispondere alla domanda: può l’allevamento all’aperto causare una netta diminuzione dei gas serra? Gli autori ci hanno messo due anni per indagare sulla questione. Hanno citato 300 fonti. La loro risposta è inequivocabile. No.
E’ vero, affermano, che alcune alternative di allevamento sono migliori di altre. Sotto certi aspetti, le piante nate nei pascoli accumuleranno carbonio nel terreno, attraverso l’espansione del proprio sistema di radici e il tappeto di fogliame intorno. Ma affermano che persone come Savory e Harvey sono “pericolosamente ingannevoli”. Le evidenze sull’accumulo di carbonio supportate nei loro presunti sistemi speciali di allevamento (variamente descritti come “olistici”, “rigenerativi” o “adattabili”) sono deboli e contraddittorie, e suggeriscono che se proprio c’è un effetto, è minimo.

Al massimo si potrebbero ridurre dal 20 al 60% le emissioni di gas serra che l’allevamento produce. Ma anche questo dato potrebbe essere sovrastimato; un saggio pubblicato questa settimana dal giornale Carbon Balance and Management suggerisce che la quantità di metano (un potente gas serra) che gli animali d’allevamento producono è stata sottostimata. In entrambi i casi, la riduzione di carbonio nei pascoli non può compensare gli impatti degli animali sul clima; esclusi quelli dell’industrializzazione. Mi piacerebbe che il team di TED postasse un avviso sui video di Allan Savory, prima che molta altra gente venga ingannata.

Mentre snoccioliamo le ultime affermazioni, rimane da affrontare un fatto scomodo: allevare animali sembra incompatibile con l’idea di un futuro sostenibile per gli esseri umani e per altre specie, così come lo è estrarre il carbone.

Quella vasta distesa di pascoli, da cui otteniamo così poco ad un prezzo ambientale così alto, sarebbe meglio usarla per rinselvatichire: il ripristino di massa della natura. Non solo perché questo aiuterebbe a rovesciare il catastrofico declino degli habitat e della diversità e dell’abbondanza di habitat, ma le foreste, le paludi e le savane assorbirebbero molto più carbone  anche della più sofisticata tecnica di allevamento.

La fine dell’allevamento di animali potrebbe essere difficile da digerire. Ma siamo una specie resiliente e adattabile. Abbiamo attraversato una serie di cambiamenti incredibili: l’adozione del sedentarismo, dell’agricoltura, delle città, delle industrie.

Adesso è tempo di una nuova rivoluzione, quasi profonda come quelle di altri grandi cambiamenti: lo switch ad una dieta vegetale. La tecnologia è – dipendentemente da quanto vuoi alimenti simili alla carne (il Quorn mi sembra abbastanza indistinguibile dal pollo o dal macinato) – o arrivata o proprio dietro l’angolo. Lo switch etico sta già avvenendo: anche oggi, ci sono mezzo milioni di vegani nel paese del roast beefs. E’ tempo di abbandonare le scuse, i falsi miti e le false comodità. E’ tempo di guardare le nostre scelte morali come lo faranno i nostri discendenti.

 

George Monbiot

Fonte: www.monbiot.com

Link: http://www.monbiot.com/2017/10/06/the-meat-of-the-matter/

6.10.2017

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GEA CAVOLI

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