DI DANIELE SCALEA
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I militari italiani in Niger:
– non potranno debellare i jihadisti: missione formalmente “no combat” con regole d’ingaggio iper-restrittive;
– non potranno bloccare i trafficanti d’esseri umani: manca un accordo col Niger per arrestarli e consegnarli alla giustizia;
– non potranno pattugliare efficacemente il tratto di confine ipotizzato: per le deficienze giuridiche di cui sopra e per quelle materiali di un contingente troppo leggero;
– potranno addestrare le forze nigerine: ma in tal caso il contingente è sovra-dimensionato.
In realtà i militari italiani in Niger saranno subordinati al servizio della missione francese nel Sahel, “Barkhane”, per la quale Macron cerca coperture (servono quasi 450 milioni, e la buona volontà di Arabia Saudita, EAU, UE ed altri finanziatori non è ancora sufficiente). L’Operazione Barkhane, tra le altre cose, combatte le insorgenze islamiste, e questa è cosa buona e giusta. Ma il pesce grosso da pescare è un altro: il controllo francese sul Sahel. Nel solo Niger le compagnie francesi hanno in mano uranio, carbone, ferro, fosfato e petrolio.
La strategia del Governo italiano è dunque quella usuale, che i nostri politici e la nostra “comunità degli affari esteri” tanto amano: rispondere di sì a chiunque ci richieda militari, nella speranza che poi si ricordi di noi quando abbiamo bisogno di interventi in qualche area critica. La si è seguita a lungo con Usa e Ue, ora Gentiloni l’ha estesa pure alla Francia per porsi sotto l’egida di Macron.
E’, purtroppo, una strategia che dà scarse garanzie di successo: è dalla Guerra di Crimea (1853-56) che non funziona più. La Francia che vorremmo ingraziarci affinché assuma l’onere di stabilizzare la Libia al posto nostro, è la stessa Francia che nel 2011 ha sprofondato la Libia nel caos – per giunta nel tentativo premuroso di soffiare il petrolio all’Eni.
Bisognerebbe ricordare, a chi di dovere, che il proverbio recita: “Non mordere la mano che ti nutre”, e non: “Lecca la mano che ti bastona”.
Daniele Scalea
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16.01.2018