Il governo è caduto perché era nei patti

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DI ALCESTE

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Roma, 18 settembre 2019
L’isteria della Lega poco prima del Ferragosto. Rilanci, dichiarazioni sanguinose, protervie assortite, pretese maramaldesche. Alle soglie del Ferragosto: quasi a materiare la crisi d’una assurdità metafisico-balneare. Certe rodomontate le si apprezzava da lontano; psicologicamente, remoti dal fervore della cure quotidiane, attutite: veniva voglia di dire: e fatela ‘sta crisi, ci rivediamo a settembre! Mentre si ingollava una bibita fresca, le piante dei piedi sprofondate nelle frescure dell’umida battigia. Un atto gravissimo, onusto di responsabilità epocali (aveva a liberare definitivamente il campo alle incursioni degli usurai europeisti), vissuto come uno scherzo: rammentava certa paccottiglia che i giornali, una volta, quando ancora sussistevano come giornali, inserivano nelle pagine scarnificate della cronaca, a mo’ di curiosità: pioggia di rane in Quebec, ritrovata una seconda tomba di Nefertiti in Tunisia, cane uggiola al padrone che l’aveva abbandonato dieci anni fa (o viceversa), “Farò l’avvocato! dice Miss Torvaianica”, il sigillo del Papa ha l’emblema di Atlantide; e così via.

Personalmente ho vissuto la disfatta come se fosse stata inscenata nei bagni misteriosi ricreati da Giorgio De Chirico. Con onde simboliche, cabine metafisiche, piscine eterne. Nulla sembrava vero: possibile che …? Ma sì, lo era, tutto come previsto, in verità: non immaginavo, però, che l’epilogo assumesse tali pose stralunate e sfacciatissime. A Ferragosto! O forse sì: solo a Ferragosto poteva riaprire il teatro dei pupi della democrazia liberale: così evidente da non farsi accorgere di tanta enormità.
Purtroppo la mossa risiedeva nei patti. Pacta sunt servanda. A meno che qualcuno, in nome di una italianità alta e disinteressata, colta, popolare e rifulgente a un tempo, abbia il muso di non rispettarli. In tal caso, tuttavia, chi non li rispetta va all’inferno con tutte le scarpe. E Salvini, e gli altri, non possono andarci poiché in paradiso si sta troppo bene. Nessuno ci va all’inferno, per il bene della Patria, poiché questa Patria maledetta, l’Italia, viene schifata da tutti. Non ce n’è uno di questi gaglioffi che abbia mai speso una parola di ammirazione per l’Italia. Nessuno. Fanno tutti i furbi. Si credono astute, queste facce di merda, mentre maneggiano, intrigano e recitano manganellate di gomma per quei poveri coglioni di elettori ancora animati da un manicheismo decrepito: di mezzo secolo, almeno: destra e sinistra, comunisti e fascisti, liberisti e dirigisti! Roba da spararsi dritti nel palato.

Sto rileggendo un po’ di Céline. Questa ignobile buffonata, la crisi, la rassomiglio alla rotta francese davanti agli Unni, nella Seconda Guerra. Son pagine memorabili, quello del Bastardo Destouches, una cosetta raffinata e rassegnata, dolente, in cui il prendingiro si ferma sempre lungo la linea abissale di uno sconforto immedicabile: “Son curiosi i soldati quando non vogliono proprio più morire …. L’ardore vien meno. Vedete quei graziosi ufficiali portar via il loro armadietto a specchio … traslocare il loro bene più prezioso … l’amichetta … in torpedo con diritto di precedenza … non li rivedremo tanto presto … Non avevano niente da fare in prima linea se non disturbare le battaglie, se battaglia ci fosse stata … Spettava ai militari esserci, rallentare l’invasore, rimanere a morire sul posto, il petto in fuori di fronte agli Unni, e non col didietro che se la svignava … Se dipendesse dalla forza delle parole saremmo senz’altro il re del Mondo. Nessuno potrebbe superarci in materia di chiacchiera e disinvoltura. Campioni del mondo in fanfaronate intontiti di pubblicità, di stupefacente fatuità, Ercoli in parlantina …”.

Segnali della decadenza: quando digiti “Céline” su google appare la “Dion”.

I 5S, da spaccamondo a ligi impiegati del nichilismo finanziario, i democratici, ringalluzziti, come da copione e patti, e ritornati in sella, dopo aver subito ingiurie di cartone d’ogni risma e, infine, il Papeete. Sul Papeete e sulla moto d’acqua si son versati fiumi di inchiostro digitale. A me non importa nulla di queste smargiassate. Rilevo, dall’esterno, l’incredibile incapacità a mantenere il rigore, il pathos della distanza. La superficialità compiaciuta. Rimpiango Andreotti solo per questo. Un certo tono sussiegoso, persino lugubre; l’aplomb della giacca e della cravatta; la fronte rigata dalle cure quotidiane. Qui, invece, si ha l’impressione che ogni deputato e ciascun senatore di questo paese sappia per certo che il comando vero è ormai in altre mani e loro debbano, inevitabilmente, recitare il quaraquaquà del tira e molla. Solo dei figuranti che sappiano d’esserlo possono inscenare questi micidiali teatrini della stupidità. 5s e sinistra si possono disprezzare, ma il peggio lo dà la speranza Salvini, diviso fra pronube da bar, sbicchierate da coatti e ingurgitazioni da sagra unticcia. Ma tutti, ci tengo a precisarlo, tutti, sanno di non contare nulla: essi recitano, telecomandati dal Salmone Ottimo Massimo, la catastrofe. Al riparo dal filetto a due euro presso la mensa truppa del disonore.

Nei patti, già scritto. Come possiamo rilanciare l’opera degli usurai, si saranno domandati un paio d’anni fa: gli usurai stessi, beninteso. Possiamo far vincere una coalizione anti-usurai, avrà buttato lì qualcuno. Giusto. Diamo speranza. Speranza vuota perché continuamente accesa da fanfaronate senza sugo (gli sbarchi, il reddito di sudditanza). Quindi, avrà ontinuato a ragionare l’usuraio, grattandosi la patta, sfasciamo la speranza, sacrifichiamo i soliti noti (sinistra e 5S) per un programma lacrime e sangue (abolizione del contante, tasse, ius soli, libertà incivili) degno del peggior Monti al cubo. E poi? E poi ci pigliamo un altro paio di anni sabbatici con i coglioni di destra al potere (che nulla faranno contro di noi perché mai nulla hanno fatto). Un cinque anni pieni in cui il Programma andrà avanti! E la nave andrà! Nonostante nessuno senta le onde e gli ordini del nostromo … e la nave va!

I patti son nell’aria, mai scritti. I patti non scritti sono più ferrei di quelli vergati con l’inchiostro. Come quando ero militare e conoscevo, per filo e per segno, ogni minima tangente versata nella base. Cinque casse di lì, il cosciotto di qua, i liquori di là, la cresta sulle scarpe di sopra, la cresta sugli ammodernamenti di sotto. Portato in tribunale avrei fatto scena muta poiché, in realtà non avrei potuto dimostrare nulla. E poi, diciamocela, sotto le armi si stava bene, dai. Sturmtruppen, Sturmtruppen, ja! Interi vitelli spellati, mobilia di prim’ordine, prosciutti e casse di spumantino, divise, mutande e pettinini, preservativi e stellette, telescriventi, televisori, telefoni, messe in sicurezza, jeep e Beretta Mab 38, anfibi e baschi: eppure ci toccava andare in giro coi calzini rammendati da mamma, fare il turno senza munizioni sull’altana e poi festeggiare la fine dell’H24 colle solite mozzarelle alla mensa truppa. Ma tutti erano contenti. I patti si rispettano.

C’è gran differenza tra il 1914 e oggi … Il soldatino … adesso è degno della forca, furbacchione, pagliaccio e sornione e carogna, bluffa, lancia sfide, scoccia l’universo, si dà un sacco di arie, ma quando si tratta di pagare la sua parte non lo becchi più. Non ha più l’anima a fior di pelle. E un ventriloquo, è uno sbuffo. E uno scroccone come tutti quanti. E crapulone e per nascita, è il tartufo proletario, la peggior specie schifosa, il frutto della civiltà. Si attegia a povero diavolo, non lo è più, è puttana e mestatore, sicofante, fannullone, ipocrita …”. Aveva ragione Cèline; già smidollati nel 1940, figuriamoci cosa siamo diventati oggi. Non crediamo più a nulla, sveniamo per un taglietto, ci lamentiamo se il letto non è comodo. E però si cicala di guerra civile.

Salvini, Renzi, Meloni, stessa risma … Di Maio, Zingaretti … hanno trovato l’America e i micchi ci cascano. Sui micchi di sinistra ho già dato, su quelli di destra potrei dare, ma ne vale la pena? Mi piace sottolineare solo un particolare, quale simbolo e paradigma devastante della messa in scena per l’elettore scemo: notate come Salvini brandisce il rosario. Maria, la Madre di Dio, piena di grazia, benedetta fra le donne … Figlia del Suo Figlio … il rosario, sino a pochi anni fa, significava ancora qualcosa, almeno a destra … Oscar Luigi Scalfaro e la devozione alla Madonna … guardate, invece, Salvini … gesticola con l’oggetto della più pura reverenza con le medesime movenze di Roberto da Crema, il televenditore, detto Baffo: signore e signore, ecco lo Snellex! E, sullo sfondo, una formosa culona di provincia sudava su di una cyclette grigia, da negozio di terz’ordine … de retro, ovviamente … un culo rotondo e tumido, il fenotipo che alcune ragazze, altrimenti anonime, si ritrovano per qualche combinazione genetica accesa ab immemorabili … incroci e scambi, stupri e sopraffazioni patriarcali, lagunari, longobarde, normanne … un culo quello, rigato da quasi impercettibili umori ciclistici, che si riverberava, colla carica sua di erotismo carnoso e grossolano, per tutta la persona, a rinfocolare una sfacciataggine da donna piena, a tutti gli effetti … eccitante, poi, da basso arrazzamento Sturmtruppen … un culo traspirante di speranza (per le signore) e di sudicio invito (per i signori) … questo almeno sino a qualche decennio fa, in media … Baffo, battendo grandi manate sul tavolo, a dita aperte, s’infervorava per lo Snellex … sino a perdere il fiato … aizzava gli spettatori tra un’inspirazione cavernosa e l’altra … sempre più affannato, a recuperare un minimo di metabolismo aerobico, sempre oltre, a suggere le estreme bolle d’ossigeno dintorno: da autentico kamikaze del Serio … rischiava, il Baffo, la crisi da cianosi … e tutto per generare una sorta di allucinazione ipnagogica nella casalinga e nel pensionato anzidetti … rapiti da quei risucchi preagonici in cui la precisa proporzionalità fra collasso respiratorio e foia da shopping tangeva l’estasi del pecoreccio, per citare il compianto Tommaso Labranca … allora, in quel culmine, le chiappe pristine di Charlize Theron si sovrapponevano nell’immaginario delle signore alle proprie, da moglie sgualcita … mentre il maschio prostatico, invece, sfiorandosi delicatamente la patta, senza farsene accorgere, sentiva antiche forze trapestare in un risveglio di primavera erettile. Sfiancato, ormai domo, pronto per la bombola d’ossigeno, a rianimare l’emoglobina in riduzione, come Ginger Baker al termine d’una jam dei Cream, Baffo conteggiava gli squilli che una segretaria rimediaticcia impilava nelle liste della coglioneria … da Lambrate, Genova, Pescara, Poggibonsi l’Italia profonda anelava pedalare onde addivenire al giusto status edonista … il lunario era salvo … viva il lunario … evviva il rosario …

Adocchiato, di sfuggita, Marcello Foa, durante un incontro col Papa. Foa, l’ultima speranza alla RAI dei controinformatori, si genufletteva con una vocetta servizievole, di spessa circostanza … un dirigente, invece, rievocava la propria infanzia dedita all’oratorio – l’oratorio! – che l’aveva distolto da non so quali pericoli di perdizione … “L’oratorio mi ha strappato dalla strada …”. Tutti, e dico tutti, amano inventarsi un retroterra popolare, una volta giunti all’apice del vampirismo: un flebile senso di colpa agisce, forse, in loro … persino Berlusconi dissotterrò origini umilissime … gli stessi dirigenti comunisti d’antan ebbero a cicalare di passati contadini o di fabbrica dura … per tacere di segretari di confederazioni sindacali che han passato un paio d’anni nell’aziendina di papà e si spacciano per Oliver Twist, al pari di alcuni dirigenti globalisti che, dallo yacht della supponenza, colle mani callose per aver sollevato troppi Martini, spargono il loro aureo biasimo sulle nuove generazioni fannullone. Bergoglio, intanto, occultato un annoiato ruttino col dorso benedicente della mano, concede l’angusta sua presenza alla crema dell’informazione italiana, così pesantemente scossa dai rivoluzionari verdi.

Ma che fa Foa, Foa che fa? Sta bene, secondo me. Alla grande. Mandato lì sull’onda della miccaggine più resiliente, ora si gode i dolci andirivieni statalisti. Sono con lui. Gli altri, gli Speranzosi di un anno fa, invece, se son fortunati, appiattiscono hamburger e respirano effluvi d’olio esausto … tuttora gonfi di speranza? E chi lo sa … la speranza è mobile, qual piuma al vento … ora, dimenticato l’alfiere di pochi mesi or sono, puntano su nuove pedine … equivocano fischi per fiaschi ideologici … tifano apocalisse … guerra civile … si preparano, insomma, a ingoiare l’ennesimo step del Programma … non sanno neanche loro perché … gli tocca rilanciare sul piatto della speranza le ultime fiches … “Queste e basta!”, giurano, sempre più sbalorditi, gli occhi dilatati, inconsciamente consapevoli d’esser stati fregati, alla grande, la spada di Carnevale inastata in un accesso di ridicolo testosterone frontista.

A me piacerebbe sapere, tecnicamente, come i controinformatori vorrebbero combattere una guerra civile; in Italia. Supponiamo, per assurdo, che un di questi Speranzosi sappia sparare. Bene, son sicuro che arresterebbe la propria ansia di sangue sulle scale del condominio … ivi incrocerebbe (ho già vivida la scena nella coscienza premonitrice) la pensionata del piano di sotto, che gli farebbe: “Marco, ma dove va così di fretta? Ha visto? L’ascensore è ancora rotto … uno strazio … senta, forse mi sbaglio, ma all’ultima riunione – forse mi sbaglio! – non avevamo deliberato per quella ditta di manutenzione nuova? Che disorganizzazione! Ci pensi lei, è istruito, sveglio … è giovane, si faccia sentire dall’amministratrice! Dio, che fatica … le devo chiedere un favore, può portarmi almeno questa … grazie … attenzione alle uova … se non ci si aiuta fra di noi …”.

Ne Il campo dei santi di Jean Raspail il protagonista, un professore in pensione, annuncia il proprio manifesto ideologico con una fucilata contro l’hippie globalista che gl’invadeva, berciando a caso qualche cascame del conflitto internazionale di classe, la magione. Sarà uno dei pochissimi. Alla fine, assieme a un pugno di resistenti, verrà debitamente mitragliato dall’aviazione francese, umana e corretta: come quella di D’Alema nel 1999.

Quando vedo la testa di Nicola Zingaretti mi vengono in mente alcune cose. A livello figurativo, un glande. Dispiace ammetterlo, coram bloggers, in una peritosa quanto audace confessione: mi si perdoni, sono fantasticherie a cui non riesco a opporre la resistenza del buon gusto: immagino, a volte, persino il frenulo sulla nuca … almeno per un po’, prima di ricordare ch’egli vanta ascendenze ebraiche. La sinistra! La sinistra! Poi mi piglia una vaga tristezza, pungendomi il ricordo. E vado a rileggermi quel passo memorabile di Giorgio Bocca sui comunisti, in cui rinvengo ciò che io, nel mio piccolo, vissi e sperai: la forza, la ragione, la comunità, la rovina, l’abiura. Dice Bocca, a proposito dei comunisti:

Uomini di ferro nella sopportazione del carcere, delle torture, della vita grama, ma nudi, indifesi di fronte al partito. Diversi dagli altri per questa doppia dimensione umana, vedevano in essa un segno della loro elezione a salvatori del mondo. Erano dei materialisti con tutta la corporalità, la concretezza, il peso della materia, ma fissi a qualcosa privo di verifica, il futuro, l’uomo nuovo, a ciascuno secondo il suo bisogno, idealismo puro, utopia. Tenaci, implacabili organizzatori capaci di cogliere tutte le difficoltà reali della lotta, ma al tempo stesso idealisti ciechi che si rifiutavano di vedere il comunismo reale e se lo vedevano lo negavano a se stessi e agli altri. Li avvicinavo con un misto di simpatia e di repulsione, per metà stimabili per metà infidi, per metà chiari, per metà alienati. Abitavano quasi tutti in case modestissime, con quattro poveri mobili scombinati, si capiva che non avevano mai avuto il tempo o la voglia di farsi una casa accogliente, nelle loro case erano sempre stati di passaggio, la loro vera casa era il partito. Molti stavano dalle parti del Testaccio a Roma negli alloggi costruiti da una cooperativa del partito. L’alloggio gratis, una pensione di trecentomila lire, qualche articolo rievocativo per l’Unità o Rinascita era tutto ciò che il partito gli dava dopo milizie di trenta e più anni, ma il valore marginale di quel poco era per essi altissimo, fuori dalle elemosine del partito c’era il vuoto, la rinuncia al passato, la perdita di ogni identità. Il loro rifiuto degli altri partiti, delle altre ideologie era stato di tipo ecclesiastico, dentro o fuori dalla verità, cambiare significava vivere come preti spretati fra il disprezzo degli uni e la diffidenza degli altri, il vuoto, l’angoscia”.

Fu nel 2013, se soccorrono benigni gli spiritelli cavalcantiani della memoria, che mi recai a San Giovanni per assistere alla manifestazione show di Beppe Grillo. Una fiumana di gente. Benché anche allora fossi rassegnato, quei volti mi colpirono. Per la prima volta, dopo decenni, ritrovai parte del popolo. Gente normale. Italiani che lavorano, che hanno piccole aspirazioni, beceri, vitali il giusto. Con figli e padri e madri, senza troppe preoccupazioni per razzismi e diritti civili. Lo scrissi pure in un commento a Pauperclass, di Eugenio Orso. Grillo, uno dei politici più intelligenti degli ultimi vent’anni, manipolava l’aria grazie alla speranza. Faceva balenare il futuro; un futuro accogliente, tecnologico, senza lavoro, tranquillo, sicuro. La tecnica, ecco, sarebbe stata la tecnica, e il merito, allontanati caporioni di partito e d’accademia, a prendersi cura delle vite nostre e dei nostri figli. Se, sul palco, quella sera vi fosse stato un uomo passato per le tempeste d’acciaio, avremmo avuto davvero una guerra civile. Se, da Genova, alla rielezione di Napolitano, fosse giunto il monito d’un uomo passato traverso le decimazioni del Carso, avremmo avuto il Quirinale in fiamme. Ma, ovviamente, la guerra, allora, come adesso, era lontana: lontanissima; quasi un secolo ci distanzia, oggi, dai suoi fragori. E allora la rivoluzione possibile rimase in canna. È in quei momenti che si assapora la differenza fra chi ha rischiato la pelle e chi ha goduto di una Bengodi edonista senza scosse. Inutile scomodare quei nomi che cito sempre: dico solo: quando si rischia la buccia gli occhi divengono in grado di discernere decine di gradazioni di verde: son occhi da predatore, infatti. Allora mi piacque parte di quel popolo; fu un bagno di purezza, a suo modo, a lavar via le stupide minuzie dei cascami politicanti d’ogni risma. Durò poco tempo, non poteva esser altrimenti. Di quel fremito di Vita rimane nulla: lo si è consumato fraudolentemente per attuare il Programma, infatti.

Il Programma, signori, il Programma. Salvini, Di Maio, Conte, Meloni, Zingaretti, tutti lo vogliono. E lo vogliono col vostro consenso! Il 98%! Mi raccomando: sperate!

I Saraceni sbarcavano improvvisi lungo le coste del Lazio, miscela di razze e umori corruschi: nordafricani, mori, turchi, cretesi, arabi, i pirati si spingevano sin verso Roma e le campagne, piane e fertili, ove torri, casali meravigliosi, e granai, convivevano felici con le memorie più antiche, basolati, lacerti d’acquedotto, cippi funerari repubblicani, a razziare ogni cosa. Molti di noi nacquero in quei momenti, durante gli stupri, le rovine delle chiese, gli incendi, le decollazioni, le sodomizzazioni: toponimi d’ascendenza saracena si ritrovano ancora, lungo le consolari romane prossime al mare. Quando i Saraceni minacciarono i centri spirituali della Cristianità, le basiliche di San Pietro e di San Paolo e di Santa Rufina, ecco, allora, generato dalla vendetta e dalla paura, sorse l’Eroe, Guido; Guido, d’ascendenza normanna, forse già duca di Spoleto (Umbria longobarda par excellence), riunì un esercito romano, compatto e spietato: il primo urto sbaragliò il nemico già sull’Aurelia, costringendolo alla fuga scarmigliata verso Civitavecchia (Centumcellae): nel frattempo il Duce spronava i suoi all’eccidio più completo lanciandoli ripetutamente, per miglia, contro le marmaglie isolate, i brani di truppe schiantate o le colorate coorti ormai allo sbaraglio, come un lupo pazzo di sangue, seminando mozziconi d’arti, ferri schiantati, aste frantumate, inesausto, fin laggiù, sin al mare, che accolse ognuno, latino o barbaro, con le accecanti e argentee faville di un orizzonte infinito e infinitamente libero: il respiro puro dell’epopea che non teme la colpa poiché obbedisce a ciò che sempre fu e, perciò, è sacro, e ingiudicabile; è Dio.

I cadaveri del massacro, raccolti per evitare pestilenze, come carne di scarto al macello, furono bruciati a migliaia nei pressi dell’Aurelia, in un luogo da allora denominato Furnus Sarracenus. Il Papa, la Croce che baluginava, aurea, sul petto, eccitata dalle fiaccole serotine, rese onore a Guido concedendogli terre, uomini, cose.

Non si può giudicare la vita: o la si beve sin alla feccia o ci si concede a una cancerosa anomia.

Guido, il Papa, gli stessi Saraceni, e le vittime, oscure e senza nome, donne e contadini, il terrore dei vecchi e degl’infanti, sgozzati a centinaia, e le vaste rovine – frantumaglia di marmi, architravi e liminari di porte spezzati, capitelli recisi, confessioni profanate – e la risorgente speranza, verace stavolta, persero gradatamente l’alone dell’odio che tutto definisce; la dimenticanza stinse, quindi, la realtà per trasmutarla nell’occasione vaga d’un canto; bastò un poeta, uno qualsiasi, ebbro d’eternità, a costringere nella misura dolce di antichi versi, sanciti dall’immutabilità, quelle grate e terribili costellazioni della vita: che ci parlano, ancora, riconciliati assassini e martiri, da un fondo perduto che più non ci appartiene.

 

Alceste

Fonte: http://alcesteilblog.blogspot.com/

Link: http://alcesteilblog.blogspot.com/2019/09/il-governo-e-caduto-perche-era-nei-patti.html

18.09.2019

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