I padrini di Sfera Ebbasta celebrano il trionfo alla Scala

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DI ALCESTE

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La prima alla Scala (o: della Scala) fu, decenni fa, un evento importante. Non tanto per la borghesia italiana, ma per la sinistra italiana. Lanciare uova sulle pellicce era ritenuto un atto sovversivo davvero katanga; comunisti e borghesi, invece, dissentivano, a diversi livelli da tali modi della contestazione più crassa. I primi poiché avevano ereditato corpi e ideologie severi, poco inclini all’esibizionismo; i comunisti disprezzavano quelle sfilate, certo, ma solo quali offensive manifestazioni di vanità di classe; il pelo di visone o ermellino, gli sparati impeccabili, metaforizzavano un periodo storico di ingiustizie da sovvertire colle conquiste nel lavoro e nell’educazione, la lotta in fabbrica, il ciclostile e il dialogo-scontro, duro, con le istituzioni. I secondi, invece, avevano in orrore le uova e le vernici katanga per due motivi: in quanto latori delle pellicce e degli sparati medesimi, ovviamente; e perché (questo, però, lo scoprimmo decenni più tardi) le Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare e i Direttori Meganaturali, gli industrialotti, i vescovoni e i dignitari statali, rappresentavano, pur nella parodia, uno degli ultimi lasciti vitali e produttivi dell’essenza italiana; a differenza dei Katanga, mosconi improduttivi e fuoricorso, di cui annusavano, a pelle, l’antitalianità oggi trionfante.

I Katanga dei Settanta sono, infatti, divenuti, paradossalmente, gli spettatori della Scala nel 2018.

È pur vero che residua una blanda contestazione alla sfilata di signorotte e signorotti; essa, però, appare limitata al consueto teatrino:

“Circa 200 manifestanti hanno sfilato per le vie attorno a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, scandendo slogan contro esponenti del Governo. Al corteo hanno partecipato una trentina di giovani con gilet gialli, Lavoratori della Cub e giovani del centro sociale “Il Cantiere”. Il corteo si è concluso davanti al Municipio, a poche decine di metri dall’ingresso del teatro, protetto da transenne e carabinieri in assetto antisommossa. In via San Paolo, dove si terrà la cena di gala dopo la rappresentazione, i manifestanti hanno lanciato uova e vernice bianca. In piazza alla Scala sono stati fatti esplodere diversi petardi”.

Un teatrino i cui frusti protagonisti hanno riaffermato una pervicace, insopprimibile e onnicomprensiva capacità di non capire nulla.

I Katanga che son intervenuti alla prima, invece, sono, oggi, l’unica classe dominante; tanto che, dai giornali bene alle televisioni, urbi et orbi, è stato affermato: “La Scala, l’ultimo rifugio della democrazia”.
La Scala ultimo rifugio della democrazia. E perché? Perché lì si celebrano i fasti dell’Illuminismo; fuori, infatti, c’è il buio dell’irrazionalità, i barbari, l’antieuropeismo, il freddo pericolo del revanscismo del Blut und Boden.

L’ultimo rifugio della democrazia.
Decrittiamo tali parole. Cinque. Due sono costituite da articolo determinativo e preposizione articolata: le ignoriamo, perciò. Abbiamo, quindi:

ultimo – rifugio – democrazia.
Ultimo e rifugio: son vocaboli perfetti per il mondo al contrario. Il potere si basa, sempre, sul vittimismo poiché chi lo contrasta è, necessariamente, un carnefice, un razzista, un fascista, un troglodita del pensiero. Il potere è la luce, la luce del mondo: chi vi si oppone reca le tenebre. Le tenebre del Medioevo. Della regressione.
Democrazia: la parola evoca ancora sentimenti novecenteschi: la lotta contro la dittatura, contro il nazifascicomunismo, contro il nazionalismo, l’egoismo. In bocca a tali mascheroni, però, essa significa qualcosa di irriducibilmente diverso: democrazia è anomia, negazione della legge e della regola, della morale e dell’etica e del passato storico. In nome dell’oligarchia antipopolare e, in futuro, della monarchia plutocratica universale. “Democrazia” è, infatti, l’esatto contrario di “democrazia”. Le parole son sempre quelle, ma oggi custodiscono la loro negazione, il ribaltamento truffaldino dell’etimologia. Si crede di vedere un mirabile quadro secentesco, ma quella è una copia volgarissima, approntata dal falsario su commissione del ladro: l’originale è stato trafugato ed esorna le pareti di qualche salottino miliardario.

“Un successo dal punto di vista dello spettacolo (15 minuti di applausi), degli incassi (2.532.701 euro), della partecipazione del pubblico (1.888 i fortunati in sala, tanti di più quelli della Prima diffusa). L’Attila di Giuseppe Verdi ha conquistato la Scala, ma gli applausi, scroscianti, hanno interessato in egual misura gli artisti e l’ospite principale della serata, il presidente della Repubblica Mattarella che al direttore Riccardo Chailly … E la cultura ha vinto anche negli ascolti televisivi che hanno premiato l’opera trasmessa in diretta su Rai 1: gli spettatori sono stati quasi due milioni. Più esattamente, a vedere la trasmissione di Rai Cultura è stato 1 milione 938 mila con uno share del 10,8%. Si tratta di un risultato solo leggermente inferiore ai 2 milioni 77 mila spettatori che hanno seguito lo scorso anno Andrea Chénier, nonostante Attila sia uno dei titoli meno popolari di Verdi”.
Un successone, insomma. Un tale successo che gli spettatori, rispetto allo scorso anno, sono calati. Di 139.000 unità. Come sempre sorge alle labbra una domanda: se due milioni scarsi erano abbacinati dall’Attila, gli altri 58 abbondanti dov’erano? Se ne fregavano. E poiché la piattaforma RAI ha una visibilità estesa oltre i confini nazionali, un malintenzionato potrebbe persino arguire che il menefreghismo aveva a travalicare le centinaia di milioni di unità (di menefreghisti). Basti pensare che Sereno Variabile, onesta e nazionalpopolare rassegna di eccellenze italiane, conta, all’estero, come cicala un periodico, “35 milioni di spettatori”. Solo all’estero: 33 in più dell’Attila.

I Democratici della Scala (tutti: dagli ex rifondatori del comunismo ai gilet gialli della Confindustria) non si fermano, però, di fronte ai dati, questi brutali numerini. Se i dati non danno loro ragione li addomesticano alla ragione: come i sondaggi dei craxiani negli anni Ottanta. Chi è il vostro statista preferito? Il 18% ha detto “Bettino Craxi”, l’1% non ha fatto motto, l’81% ha sbagliato risposta. I dati devono dar loro ragione poiché, loro, la ragione se la portano in tasca. Loro sono la ragione tanto da fargli scegliere un titolo, Attila, proprio per denigrare i barbari politici. I Democratici alla Scala, come detto, non sono certo del PD; sono il patriziato italiano che ho descritto varie volte; interconnesso, trasversale, meschino; una lampreda che continua a succhiare le ultime risorse pubbliche della nazione. Perché lì, alla Scala, il collante è il soldo pubblico: il soldo pubblico dei barbari, soprattutto, quelli che, quando accendono la luce, pagano la luce della Scala; per intenderci. Gli spettatori nell’ultimo rifugio della democrazia vantano una ideologia unica, mutuata integralmente dalla sinistra psicopatica: sono bifronti: da una parte credono davvero di essere un argine alla barbarie (i razzisti! i populisti! gli antieuropeisti!); dall’altra sanno che il soldo dei barbari (il soldo pubblico, dell’erario, insomma, delle tasse, delle imposte, delle razzie annuali di IVA, 730, Unico) è la cornucopia a cui attingere.

Una cornucopia che si accresce grazie (anche) all’annichilazione della vera cultura, della scuola, dell’università. La scuola, soprattutto, devastata decreto dopo decreto, legge dopo legge, ridotta a una serie di locali pubblici in cui imbonire dei poveri semianalfabeti. Aule in cui il Natale diviene la Festa del Gelo e dove l’ignoranza di ciò che si è, in nome della bontà, viene declinata giorno dopo giorno, con feroce assiduità. Diciottenni che confondono Attila con Gengiz Khan, Verdi con un centrocampista del Napoli, i Bizantini con i Turchi e i Turchi con i Troiani sono il nucleo fondante degli ammiratori di un altro spettacolo: Sfera Ebbasta. Un imitatore della sottocontrocultura dei bassifondi metropolitani americani: a tanto si è arrivati, a forza di confondere “è” con “e’”; i mandanti erano tutti alla Scala, grassi e lustri, pur vittime, essi stessi, della deculturazione imposta al Paese che si piccano di amministrare con fare illuminato. La tragedia della morte di sei persone, ovviamente, qui non interessa; così come il bilancino delle responsabilità. A interessare è il milieu in cui tale tragedia si è verificata. Mille ragazzini a gustare e apprezzare la scolatura di una tendenza sottoculturale nichilista (il rap gangsta-coatto) già putrefatta negli anni Novanta. Lo posso affermare con sicurezza, quale ammiratore dei primissimi rapper (Public Enemy, Afrika Bambaata, Run DMC), la Old Skool a cavallo fra Settanta e Ottanta, e denigratore dei successivi cicalatori, al soldo delle majors e già ampiamente normalizzati. In tutta questa storia, che induce persino al pianto, voglio estendere il mio appoggio a Sfera Ebbasta, incolpevole latore della dissoluzione, una foglia secca recata via dal vento apocalittico, fra le macerie calcinate di ciò che fummo.

A tutte queste considerazioni si può aggiungere una sensazione che, ogni volta che compulso gli articoli autocelebranti del patriziato, mi attanaglia: la piccineria. La puerilità della classe dirigente. La superficialità. Il giudizio sciocco. La sterilità monodimensionale. La ritenutezza della visione storica. Il feroce abbarbicamento alle proprie isole di potere. La mancanza d’ogni sapere sorgivo. L’angustia delle menti, la stupidità eretta a sistema, la fallacia delle argomentazioni logiche.
Dichiarazioni di raggelante meschinità, da ogni parte politica, come se l’opera di uno dei maggiori musicisti italiani costituisca l’arengo e il pretesto di una depravata supponenza. L’Attila come spunto per la polemica di partito (Attila leghista! No, Attila autonomista!, Attila che governa a lungo, a differenza di voi! Attila barbaro come gli antimigrazionisti!), per uno scontro (peraltro falso: sono tutti attori, come testimonia l’incontro, affabile, fra ministri del Tesoro dell’attuale governo, dello scorso governo e del peggior governo tecnico che l’Italia abbia mai avuto) fra i (presunti) lumi del mondialismo e le tenebre della regressione nazionalista. Uno sconcio deprimente, un uragano di cretineria: da cui Giuseppe Verdi e Attila sono avvinti, loro malgrado.

Fra le spire di cotanta bolgia ecco far capolino un tizio che i controinformatori hanno voluto fortemente alla RAI. A far cosa? E chi lo sa. Poteva rifiutarsi di partecipare? Certo. Ma era lì. A testimoniare, di grazia? Probabilmente l’asineria di chi ancora crede a tali miracoli. Tutte le volte che osservo questi ritrovati della controcultura che, in pochi mesi, divengono araldi dell’unica cultura concessaci, la memoria richiama con vividezza alcuni nomi: il Mascetti, il Necchi, il Sassaroli, il Perozzi. Amici miei, atto secondo.

Renzo Montagnani, il Necchi, è fatto becco dalla moglie, tanto che si ritrova nelle tasche la patente del cornificatore. Medita, perciò, vendetta. I vitelloni suoi amici, una parodia delle belle brigate trecentesche, si divertono un mondo. Uno, Adolfo Celi mi pare, gli sussurra: “La vendetta è un piatto che va mangiato freddo!”; e un altro, forse il Mascetti, consiglia sfottente: “Attento! Sii astuto come un cervo!”. Al che Montagnani gli fa: “O che tu dici? Il cervo non è mica astuto!”. E l’altro: “Però ha le corna!”. Voi direte: ma che c’entra? Non lo so, ma a vedere questi rivoluzionari sedati, belli floridi, sedati e ora seduti, comodamente in poltrona, locupletati con i soldi di chi accende la luce nel suo monolocale da controinformatore, mi ritorna in mente l’astutissimo cervo Montagnani. Il nesso trovatelo voi.

Al Canuto Coagulo della Nazione, Difensore del Bene e della Luce contro il Male, chiedono se gli sia piaciuto il primo atto. “Molto”, risponde Quello, con cortesia istituzionale e liquidatoria. Un giudizio, acuto e circostanziato, vivido d’amor di Patria, da cui trapelano, innegabili, la passione e la devozione per le creazioni degli Ottimi d’Italia.
La medesima risposta la diedi a una bimba, qualche tempo fa, quando mi preparò, in un miniforno che le avevo donato, alcune frittelle. Informi e bruciacchiate, con cristalli di zucchero raggrumati e un’anarchica rigatura rossa di sciroppo; sicuramente artigianali, però, e servite con dovizia di tovaglioli e amore. “Ti piacciono le frittelle?”, mi chiese. “Molto”, le dissi; e, in questo caso, era vero.

Se avessero domandato a Groucho Marx: “Le è piaciuto il primo atto?”, egli avrebbe risposto: “Neanche un po’!”. Con sincerità. Groucho era ebreo e la denigrazione dell’opera lirica rientrava nelle sue corde culturali. In Una notte all’opera (A night at the Opera, 1935: egli impersona l’immortale Otis B. Driftwood) si diverte a sabotare il Trovatore di Verdi: vende noccioline fra il pubblico, fa le boccacce a tenori e soprano, improvvisa discorsi sconclusionati dalle balconate, fa calare sipari incongrui; Chico e Harpo, dal canto loro, si limitano a suonare un trombone con l’archetto, a giocare a baseball fra gli orchestrali e irrompere in scena vestiti da zingare.
La devastazione dell’opera lirica più definitiva ed esacerbata appartiene, però, a Carlo Emilio Gadda. Le dieci paginette di Teatro (1927), ne La Madonna dei filosofi, sono una fucilazione senza appello di una rappresentazione (scalcagnata) dai toni rossinian-verdiani. Ho letto quelle pagine centinaia di volte e per cento volte ho riso. L’umiliante presa per i fondelli del direttore d’orchestra, delle scenografie o della tronfia versificazione dei libretti d’opera, irta di “orsù” e “Ahi, lassa”, e recitata “sbraitando sull’impiantito”, tocca vertici atrabiliari: “[I cantanti] presero a delirare tutti in una volta … urlavano a perdifiato le più roboanti stravaganze, le più imprevedibili assurdità, senza muoversi, senza guardarsi, rossi, gonfi, turgidi le vene del collo, il mastoide indafarato come un ascensore … e come rivolti al nulla e a nessuno; e come assolti da ogni riferimento alla realtà delle cose. Ogni faccia, maschera della follia, defecava la sua voce totale nella cisterna vuota dell’insensatezza”. E cosa pensa, capitano Gaddus, del terzo atto? “Non ne ho afferrato compiutamente lo spirito informatore poiché, durante la prima parte, mi accadde ciò che non mai altra volta, al conspetto di un capolavoro del genio umano: mi appisolai. Tentarono le bombe orchestrali di strapparmi al sopore … non gli riuscì a riscotermi se non verso l’una, col rinnovare tali scoppi concomitanti de’ loro uténsili, che sembrava ne meditassero l’esplosione, presi in un’orgia di annientamento … Mi destai allucinato”.

Mi scusi, ma perché ci parla di Groucho Marx e Gadda in un articolo sull’attualità stringente? Forse perché è giusto vedere Groucho e leggere Gadda.

Attila, Atilla, Atli, Etzel, Atila, Etele, Hötli. Un suono, come quello di “Kurtz” in Cuore di tenebra, si sfaccetta lungo le vie che dall’Oriente menano all’Occidente: i popoli traducono nell’intimità della lingua un’idea di condottiero, una paura, come avvenne per Alessandro Magno. I fabulatori, la lontananza, la rarefazione delle notizie, spesso di quarta mano, la grandezza dell’azione inducono benigne alla fioritura feconda delle narrazioni. Dal Mediterraneo sino alla Germania, dall’Inghilterra alle estreme propaggini del Baltico, risuona la voce: Attila. Attila, colui che, risalendo contro il moto avverso della Terra, costituì un Impero alle porte dei due Imperi romani. Attila, il barbaro, chiamato nell’Occidente dagli occidentali stessi, da Ezio, prima alleato poi vincitore, contro i Visigoti cristiani.
Attila e Ezio, confusi nella polvere dei Campi Catalaunici e nella gloria degli aedi, diverranno l’Etzel dei Nibelunghi.
Comprendere davvero i Nibelunghi è impossibile. Ritengo giusto, quasi doveroso, mentre si legge una tale epopea, permettere la frode delle eco e gli inganni della tradizione. Lasciarsi suggestionare da quelle righe, infatti, equivale a divenire altre persone; più ricche, aristocratiche; assumere un pathos della distanza dalla vicenda dell’uomo che è sempre stata dei migliori: scettici, magnanimi, amanti del bel gesto, sapienti. Crimilde, Sigfrido, il drago; le prove contro Brunilde, regina degli Islandesi; Crimilde che sposa Etzel per vendicare Sigfrido e annientare i Burgundi; l’eroismo di Hagen, assediato nella sala del banchetto; le esitazioni di Teodorico da Verona, anch’egli generatore di saghe e nomi (Þiudareiks; Þiðrekr af Bern, Teodorico di Bern, Dietrich von Bern: Bern è Verona nel germanico altomedioevale), stretto fra giuramento e solidarietà amicale; lo strazio di Rüdiger “legato ad entrambi [Crimilde e Burgundi] da un dovere, da una triuwa. Alla regina alla quale promise … che l’avrebbe difesa e … vendicata da ogni offesa che le fosse stata arrecata, a Gunther [re dei Burgundi] perché sua figlia è stata da lui promessa in isposa a Giselher, il giovanissimo fratello del re”.
Nella sala della strage, nel clamore altissimo dei combattimenti furiosi, fra elmi spezzati e pietre chiazzate di sangue, Teodorico “incominciò a gridare così forte che la sua voce risuonava come quella di un corno e tutto il vasto castello ne era pieno e veramente grande era la forza di Teodorico”. Un eroe raggela la scena, placa il tumulto, propone una tregua in nome di un codice mai scritto e impossibile da derogare. La storia stessa si ferma, come in una miniatura medioevale, immobilizzata figurativamente dalla mancanza di prospettiva, eppure straordinariamente profonda; ogni colore o gesto adombrano il simbolo: ecco la bellezza.
Tali fervori, i felici anacronismi, l’aspro strazio della scelta, la vendetta: costellazioni di colori infinitesimali e improvvise discese in un mondo inesauribile di vita e passioni si accendono di continuo davanti ai nostri occhi. Teodorico da Verona è lo stesso che, affondando la spada nell’inerme Odoacre, colui che depose Romolo Augustolo, l’ultimo dei Latini, affermò: “Questo verme non ha ossa”; oppure è chi, dilaniato dalla responsabilità, forse per placare i rimorsi, blocca la battaglia con un grido altissimo?
L’uno e l’altro; e altri cento. Nelle gesta è la vita che si afferma nella pienezza; così come trionfa l’arte, rinnovata da centinaia di cantori e lingue ove la storia europea traluce continuamente, in una scoperta vasta e mirabile: Verona, Pavia, Aquisgrana, Strasburgo, Metz, Treviri. O Venezia, verso cui affluirono i profughi patavini dopo il saccheggio della città da parte di Attila.
A colpire non è la verità dei fatti, che verranno sezionati a parte, con cura e amore, ma la ricchezza insopprimibile, debordante, dell’animo, ovvero della bellezza: l’intuizione assieme violenta e dolce della grandezza della favola dell’uomo: ciò che abbiamo perduto.
“Attila e Teodorico presero a lamentarsi e, con loro, amici e vassalli … come sempre ogni gioia finisce con lo sfociare nel dolore … non … si vedevano [che] donne, cavalieri e nobili scudieri piangere la morte dei loro cari amici …”.
Ma cos’è il pianto e il canto di chi resta se non la forza che spinge nuova vita e passione, indefinitamente, nel tempo?

 

Alceste

Fonte: http://alcesteilblog.blogspot.com

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10.12.2018

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