La vicenda di Giulio Regeni, il caso Patrick Zaky (il giovane copto, studente all’università di Bologna, arrestato al suo rientro al Cairo nel febbraio scorso per dei post su Facebook che costituirebbero propaganda sovversiva, e da allora in stato di custodia cautelare in carcere rinnovata dai tribunali ogni 45 giorni – ndr), i 60 mila prigionieri politici sempre in attesa di processo, la politica aggressiva in Libia a favore del generale Khalifa Haftar e dunque contro la comunità internazionale che riconosce Fayez al Sarraj… C’è da chiedersi perché l’Egitto ancora non sia su una di quelle liste di «Stati canaglia» da sanzionare che tanto appassionano l’Occidente democratico e liberale. E il presidente Al-Sisi non sia messo all’indice come avviene, per esempio, con Putin o Erdogan.
Alcune ragioni sono evidenti. La posizione strategica, tra Africa e Mediterraneo, dell’Egitto. L’atteggiamento conciliatorio (e per quanto riguarda il controllo del Sinai, di vera alleanza) nei confronti di Israele. Il ruolo di baluardo anti-terrorismo islamista che il presidente Abdel Fattah Al-Sisi fa abilmente valere. La collaborazione alle strategie di contenimento dell’immigrazione irregolare che muove verso l’Europa. Più raramente si sottolinea la strategia economica scelta da Al-Sisi, che invece pare fatta apposta per spingere il maggior numero possibile di Paesi a condividere, o a far passare sotto silenzio, anche le più criticabili scelte politiche del Cairo.
In ordine di importanza finanziaria, al primo posto viene la strategia del debito. Il debito estero forma ormai il 32% dell’intero debito egiziano e corrisponde alla somma di 111,3 miliardi di dollari. Tutto «merito» degli alti tassi d’interesse (13% nel luglio di quest’anno) che l’Egitto offre al cosiddetto hot money, cioè gli investimenti a breve termine che lo riforniscono di denaro contante in valuta forte. Per dare un’idea della corsa a prestare soldi all’Egitto: nel 2016 l’investimento estero nei bond egiziani a breve termine era pari a 60 milioni di dollari, nel 2019 a 20 miliardi.
Secondo fattore: il commercio delle armi. Da quando si è insediato, Al-Sisi ha cominciato a comprare armi in giro per il mondo, triplicando le somme spese prima del 2014. Tanto che nel periodo 2014-2019 l’Egitto è stato il terzo importatore di armi al mondo. Ne hanno beneficiato soprattutto la Francia (che esaudisce il 35% delle richieste egiziane) ma anche i soliti Russia e Stati Uniti. L’Italia, per parte sua, nel 2019 ha triplicato la sua vendita di armi all’Egitto, con un affare da 9,2 miliardi di lire che comprendeva anche due navi da guerra. Una di queste, la fregata “Spartaco”, dagli egiziani ribattezzata “Al Galala”, è stata consegnata proprio pochi giorni fa.
Terzo fattore: gas e petrolio. Oggi l’Egitto è il primo Paese dell’Africa per gli investimenti diretti dall’estero (9 miliardi di dollari nel 2019), che vanno in gran parte proprio al settore energetico. Nel 2019 il governo di Al-Sisi ha reso i termini di sfruttamento dei giacimenti più favorevoli alle compagnie straniere e i risultati non sono mancati. Nel giacimento offshore di gas chiamato Zhor, la sola italiana Eni (che detiene il 50% delle quote, con partecipazioni inferiori dell’inglese British Petroleum e della russa Rosneft) ha finora investito 13 miliardi di dollari.
Questi tre pilastri della politica economica egiziana hanno due chiari effetti collaterali: rafforzano l’attuale regime e legano gli altri Paesi alla permanenza di Al-Sisi al potere. La politica degli alti interessi per i prestiti a breve termine conviene agli investitori stranieri ma nello stesso tempo consente alla casta militare di continuare ad arricchirsi, usando quei prestiti per la politica dei mega-progetti infrastrutturali (il raddoppio del canale di Suez, per esempio) che impiegano soprattutto le aziende gestite dai militari stessi. La vendita di armi mette l’Egitto in stretta connessione con le politiche di difesa dei Paesi fornitori, oltre che procurare alle forze di sicurezza di Al-Sisi gli strumenti di controllo del dissenso. E i forti investimenti esteri nel settore energetico, che come molti altri settori strategici dell’economia egiziana è appannaggio dei militari, certo non spingono i rispettivi governi a premere per un cambiamento dello status quo al Cairo.
Fulvio Scaglione
Questo articolo è stato originariamente pubblicato in Terrasanta.net