DI ROBERTO MINERVINI
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A mia madre piace giocare al lotto affidandosi completamente al caso. Io, invece, affronto le scommesse con una buona dose di pragmatismo. Pertanto, quando scommettiamo insieme, i numeri preferisco sceglierli io, basandomi su certezze fattuali. Nell’estate 2017 chiamai mia madre da New Orleans, dove stavo eseguendo le riprese del mio nuovo film, per fornirle una cinquina da giocare su tutte le ruote: 40, 10, 4, 1, 39. Il fatto che non vincemmo niente non mi sorprese. Avevamo infatti giocato una serie di numeri “perdenti”, che contengono in sé il germe della débâcle sociale più infausta dell’America contemporanea: gli afroamericani ammontano a 40 milioni (pari al 12% della popolazione USA), dei quali 10 milioni vive ben al di sotto della soglia di povertà, 4 milioni sono ufficialmente disoccupati e 1 milione marcisce in carcere. Il numero 39 si riferisce invece ad uno dei fenomeni politici e sociologici più discussi dell’America post-Jim Crow: i crimini delle forze dell’ordine nei confronti dei neri. Nel 2016, la polizia ha ucciso 39 suspicious unarmed blacks, neri disarmati, freddati sulla base di un vago sospetto. Quest’anno le cose stanno andando ancora peggio: nel primo quadrimestre del 2018 i neri giustiziati dalla polizia sono stati 69 (uno dei tanti effetti nefasti della presidenza Trump).
Il mese più caldo
Torniamo per un attimo al 2016, per la precisione a martedì 5 luglio, a Baton Rouge, in Louisiana: un vagabondo bianco effettua una chiamata al 911 (il 113 americano) per segnalare la presenza di un nero armato, di fronte alla bottega Triple S Food Mart. Il nero è Alton Sterling, trentasettenne corpulento, soprannominato “CD man” dalla comunità locale perché ogni giorno si trova lì, davanti al Triple S, con il suo bancone a vendere CD di musica hip hop. Quel giorno Alton perse la pazienza nei confronti del vagabondo che continuava a chiedergli soldi e finì per mandarlo a quel paese. Cinque minuti dopo la chiamata al 911 arriva sul posto una volante della polizia. Dalla macchina scendono due poliziotti, Howie Lake II e Blane Salamoni, pistola alla mano. I poliziotti spingono Sterling a terra. Salamoni gli salta addosso e gli punta la pistola al petto. Sterling, in preda al panico, ripete più volte di non essere armato. Salamoni spara un colpo e Lake ne spara due. Sterling muore sul colpo e il suo nome si va ad aggiungere alla lunga lista di neri americani uccisi a sangue freddo dalla polizia, pur non essendo armati. Ma non finisce qua: il giorno dopo, mercoledì 6 luglio 2016, muore Philando Castile, freddato da un poliziotto mentre è seduto sul posto di guida della sua macchina. Insieme a lui c’erano la fidanzata, che filma tutto con il telefonino, e la figlia di quattro anni. Per la prima volta nella storia recente americana, i neri non ci stanno e passano al contrattacco: giovedì 7 luglio 2016, un ragazzo nero di nome Micah Xavier Johnson uccide cinque poliziotti a Dallas per vendicare l’omicidio di Castile. Sabato 16 luglio 2016, Gavin Eugene Long ne fa fuori tre a Baton Rouge, prima di venire a sua volta ucciso nello scontro a fuoco con la polizia. Long aveva con sé una lettera con scritto “spero che questo mio atto di violenza serva a far cambiare le cose in America, dove le forze dell’ordine, così come tutto il sistema giudiziario, continuano a massacrare i neri, giorno dopo giorno”. Senza dubbio, alla luce di quanto accaduto, il luglio 2016 passerà alla storia come uno dei mesi più caldi della costante diatriba tra afroamericani e forze dell’ordine. Per quanto mi riguarda, i ricordi di tale periodo sono legati non solo agli efferati scontri tra neri e polizia, ma anche e soprattutto alla ricomparsa in pompa magna di un sentimento popolare che pareva essersi estinto: la “paura dell’Uomo Nero”.
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