DI MASSIMO BORDIN
micidial.it
Non ho vissuto la stagione politica di Enrico Berlinguer per il semplice fatto che negli anni Settanta ero un bambino. Ho conosciuto però la stagione della sua apologia, che dura tutt’ora. I compagni hanno sempre descritto il leader del PCI come un uomo onesto, capace di dare dignità al popolo della sinistra grazie alla sua rettitudine morale e alla sua abnegazione alla causa. Non avevo motivi per dubitare di tutto ciò da giovane, e non ne ho nemmeno oggi.
Riprendendo un’argomentazione cara a Vittorio Sgarbi, direi tuttavia che sotto il profilo della strategia, l’essere onesti non significa niente. Io non ho mai fatto la cresta sulla spesa ed ho sempre restituito i portafogli che trovavo per strada, ma questo non fa di me Alessandro Magno o Winston Churchill, nè Immanuel Kant o Federico Hegel.
Berlinguer è stato un gran lavoratore, pacato e deciso, risoluto nei toni e lucido, ma ha trasformato il partito comunista italiano nella Lega e nel partito democratico con ben 30 anni d’anticipo.
E’ curioso notare come alcuni compagni della sinistra più radicale gli imputino di non essere stato un autentico rivoluzionario, di non essere stato un vero comunista. Berlinguer era intelligente ed aveva capito benissimo che nei paesi dell’area atlantica come l’Italia individuati a Yalta nel 1945 (con il placet di Stalin), non ci poteva essere una vera rivoluzione. A farlo capire a Berlinguer non furono i libri e non fu nemmeno la Cia che lo voleva corrompere, come pensa qualche duro e puro con la maglietta di Che Guevara. Semmai furono “cosette” come il Cile nel 1973, ad esempio. L’assalto alla Moneda suggerì alla sinistra parlamentare italiana di promuovere l’alternanza governativa o addirittura un compromesso con i democristiani piuttosto che fare la fine di Salvador Allende.
Berlinguer, sotto un profilo tattico, non fu tanto diverso da un Filippo Turati qualunque, con l’attenuante – comprensibile – che i comunisti italiani facevano politica all’interno di uno stato membro della Nato.
I limiti strategici e tattici di Enrico Berlinguer sono ben altri.
La figura del segretario del Pci è tornata in auge da quando Matteo Salvini ha detto di considerarlo un esempio e che la Lega rispecchia i valori del proletariato.
Purtroppo, Matteo Salvini ha perfettamente ragione.
L’errore di Berlinguer non fu affatto quello di tradire la rivoluzione. Giova ripeterlo ancora: se il segretario del PCI negli anni Settanta avesse fatto quello che Roberto Benigni gli chiedeva nel film “Berlinguer ti voglio bene”, e cioè dare il via alla rivolta armata, sarebbe stato travolto da qualche governo dei colonnelli.
Il suo tradimento, semmai, fu culturale. Quel comunismo, infatti, passò dalla solidarietà delle società di mutuo soccorso e dalle case del lavoro frequentate anche solo per mangiare un po’ di pane e salame, alle civettuole segreterie del partito, con tanto di annoiati militanti (quasi sempre impiegati e insegnanti) si contendevano l’organizzazione della gita sindacale a Roma, dopo lo shopping.
Chiunque abbia frequentato anche di recente quegli ambienti (tranne, forse, in Emilia) sa benissimo di cosa parlo. E a traghettare studenti, lavoratori e intellettuali da quel comunismo pragmatico, popolare e solidaristico a quello radical chic fu un certo Enrico, di cognome Berlinguer.
Meglio del sottoscritto lo spiegava, nel 2013, il compianto filosofo torinese Costanzo Preve.
«Se mi chiedessero chi ha fatto di più per il capitalismo italiano, se Giovanni Agnelli o Enrico Berlinguer, non avrei affatto dubbi nel dire Enrico Berlinguer. Questo può sembrare paradossale, ma lo è solo per chi ignora il concetto di Vico di eterogenesi dei fini ed il concetto di Marx di falsa coscienza socialmente organizzata. Non si tratta di riconoscere kantianamente la “pura intenzione” dei soggetti storici “in buona fede”. Si tratta di disgelare marxianamente gli effetti oggettivi di un insieme di azioni storiche. A livello lungo, così come la DC è stato il principale fattore politico della scristianizzazione del popolo italiano, nello stesso modo il PCI è stato il principale fattore politico della sua decomunistizzazione. Cerco di spiegarmi meglio. Gli elementi comunitari precapitalistici, che già Marx nella sua lettera a Vera Zasulic aveva individuato come elementi potenzialmente anticapitalistici da non trascurare, non potevano essere dissolti né dalla pretoneria cattolica clericale né dalla cultura laica liberale. Ci voleva il PCI per metabolizzarli nella cultura identitaria di appartenenza di partito, nella paranoia autoritaria contro i dissenzienti “pagati dai padroni”, nello zoo-parco recintato per intellettuali teologi, ed infine nel demenziale patriottismo sportivo elettorale tendente al “sorpasso” della DC. L’espressione PCI-PDS-DS non è affatto solo una maligna invenzione del Berlusca pelato con la sua bandana da miliardario di cattivo gusto da “isola dei famosi”. Il PCI storicamente ha consumato in mezzo secolo quanto restava della cultura comunitaria di estraneità alla società capitalistica ed ai suoi valori, ed una volta realizzata questa consumazione si è trasformato in DS dopo il breve periodo della camera iperbarica PDS».
Massimo Bordin
Fonte: http://micidial.it
Link: http://micidial.it/2020/07/berlinguer-ti-voglio-meno-bene/
11.07.2020