Un po’ carne e un po’ pesce

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DI JOE H.LESTER

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Rileggendo il mio articolo precedente, mi sono reso conto dell’uso smodato e fastidioso che ho fatto della locuzione un po’. Non che abbia una particolare simpatia per la formula, tutt’altro. Sembra proprio abbia inconsciamente assimilato un modo di fare tipico dei tempi e della nostra società in cui nulla appare veramente brutto né veramente bello, né buono né cattivo. È simile al già citato bispensiero di Orwell, tutto si situa in una grigia posizione mediana che può apparire meglio, ma forse è peggio, o ambedue le cose assieme senza contraddizione. Come un film che è tutto e niente, qualcosa che non è né carne né pesce.

Perché scrivo questo? Oltre per fare una modesta autocritica (ampiamente trascurabile), perché un po’ c’entra anche col cinema commerciale che fruiamo.

Archiviata da tempo la notte degli Oscar, i suoi perbenismi e i suoi “consigli sulla linea politica” a beneficio della parte di mondo occidentale più sensibile alle istanze del politically correct, che nulla hanno a che fare con il buon cinema, i film però restano nelle sale. Spiace soltanto che un ottimo film come Tre manifesti a Ebbing, Missouri, non abbia portato a casa qualche premio in più (come pure I, Tonya), ma che anzi sia stato ridotto a veicolo per l’esaltato, e quasi isterico, monologo della migliore attrice Frances McDormand (bravissima, certo, e di solito anche simpatica) dedicato forse alle donne, più probabilmente rivolto al recente e crediamo passeggero movimento #MeToo. A proposito, posso dire di far parte dell’ampia schiera di donne e uomini che sull’argomento la pensano come James Woods e Terry Gilliam? Pare il primo abbia scritto riguardo queste nuove e pruriginose armi di distrazione di massa: “Puro Maccartismo. Il ritorno delle liste nere”. Mentre ci voleva il vecchio e glorioso Monty Python per una lapidaria pillola di buon senso: “il movimento #MeToo è sciocco e semplicistico”. “Terry Gilliam, tu parli troppo”, le ha risposto Ellen Barkin via Twitter. Vale a dire: hai un’opinione? Tienila per te. Non è molto democratico, ma è un valido consiglio. Cosa potrebbe infatti suggerire, al coraggioso e libero Maestro, uno come me che non lo conosce, ma gli vuole bene quanto un nipotino? Hai il film della tua vita in uscita (almeno della tua terza vita), un film che vogliamo vedere al cinema, finalmente il tuo Don Quixote! Non incasinare tutto anche stavolta, ok?

Per il resto, tornando agli Oscar, per carità, senza dubbio Get Out ha un’ottima sceneggiatura originale, da horror politicamente impegnato alla maniera rude ed efficace di Carpenter e Romero, la quale forse arriva a suggerire che persino l’ex presidente degli Stati Uniti Obama, a dispetto delle apparenze, potrebbe avere “un animo bianco” (“Avrei votato Obama per la terza volta”, dice uno degli inquietanti protagonisti del film), cosa peraltro non colta o volutamente ignorata dall’Accademy per farne il vincitore perfetto dopo le polemiche “Oscar so white”.

E almeno Guadagnino è stato tenuto a freno. Nulla da ridire sulla partecipata messa in scena del primo amore (non ha alcuna importanza se gay), ciò che mi ha irritato del film è come il regista racconta l’Italia (Guadagnino è nato qui, ma si sente straniero) e di conseguenza gli italiani, rappresentati come servi sgradevoli alla vista che parlano italiano peggio degli americani, sempre ai margini dell’inquadratura poi, a insidiare la privacy dei loro angelici padroni, o sotto forma di parenti che ammorbano con insulsi discorsi sulla politica locale questi radical chic calati dall’iperuranio per ereditare proprio nella penisola italica, mannaggia.

Ma a non andarmi giù è stato il premio per il miglior film a La forma dell’acqua di Guillermo Del Toro, film celebrato ben oltre i suoi reali meriti già al festival di Venezia 2017, con un Leone d’Oro andato per la prima volta a un film di genere (e io adoro il cinema di genere), decima fatica del grande regista messicano (e io adoro Guillermo Del Toro!) che, dopo i fasti del passato, qui sembrerebbe essersi forse appena un tantinello riciclato pur di ricevere l’ambita statuetta. È una scelta. E non è che le idee manchino al vecchio Guillermone, tanto sono curate e approfondite le storie dei vari personaggi che popolano la sua pellicola, anche se nell’idea di base, quella della creatura anfibia, che non solo non è originale, soprattutto cita se stesso e il più riuscito Abe Sapien di Hellboy, pur se alcune delle sequenze migliori parrebbero allo spettatore smaliziato provenire da alcuni film di Jeunet e Caro (Delicatessen e Il Favoloso mondo di Amélie in primis). Insomma, nonostante le scenografie c’è molto di moderno e sofisticato mash-up, la maniera giovane per chiamare un qualcosa composto di roba presa un po’ qui e un po’ là (Blob!), senza troppo dosare gli ingredienti, per creare una storia che sembri andare a parare da qualche parte e avere una propria identità, ma che a una più attenta analisi non è detto l’abbia realmente. Né carne, né pesce in definitiva. Purtroppo, infatti, la trama principale si sviluppa stancamente ed è proprio l’amore tra la protagonista muta e il misterioso uomo pesce che poco appassiona, né si spiega in altro modo se non: era quello che le passava il convento. Perché, cos’altro potremmo dire dell’uomo pesce, se non che morde i cattivi e non morde i buoni, che si mangia i gatti cui non viene prima presentato e che a tavola è come tutti gli altri uomini (vuole mangiare)? Per il resto sembra non avere personalità e nemmeno un grande arco narrativo (contrariamente al poliziotto razzista interpretato da Sam Rockwell in Tre Manifesti). E il tutto assume un’ottica ancor più deludente se facciamo il giochino di ridurre a categorie i vari personaggi del film. La protagonista muta (le donne senza voce), l’amico gay (la comunità LGBT), la donna afroamericana (gli afroamericani), il cattivo (i maschi cattivi), il russo buono (i… russi buoni?), l’uomo pesce (i migranti, gli extracomunitari). Sono tutti dei diversi nei mondi creati da Del Toro, come o forse più che nei film di Tim Burton, ma insomma pare proprio che l’immigrato (certo qui contro la propria volontà) sia stavolta quello che meno gli interessi, un semplice MacGuffin, uno stratagemma narrativo utile a muovere gli eventi e parlare di altro, impietosire giurati, convincere pubblici con poche risorse critiche e portare a casa l’Oscar. E questo se non altro è strano, essendo un migrante lo stesso regista.

Volete vedere il vero Guillermo Del Toro? Recuperate La spina del diavolo, ad oggi il suo film migliore, lasciate La lisca di pesce per la seconda serata.

 

Joe H. Lester

Fonte: www.comedonchisciotte.org

marzo/aprile 2018

 

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