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Trattori e spicci

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A cura di Redazione CDC
Il 4 Marzo 2024
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Di Alceste

Roma, 28 febbraio 2024

Diavolo d’una Giorgia. Preoccupatissima del voto in Sardegna (qui si vince un’altra volta!), ha urgentemente rimediato, con la velocità impressionante d’un Fregoli. Andata a scovare il più antipatico candidato del mazzo, fatto fuori quello che assicurava i migliori clientes, ha percorso ventre a terra li cattru mori come la cavaliera della sconfitta, fra boccacce, dichiarazioni a vanvera e selfie NATO, giusto per alienarsi il maggior numero possibile di voti. Eppure non bastava! Questi cretini si rifugiano nell’astensione, ma l’altra non la votano abbastanza! La politica contempla anche l’arte della ritirata, soprattutto quando si dovranno imporre patrimoniali e sangue di drago. Noi li aiuteremo, come sempre, ma la faccia la mettano gli altri! E allora, con cautela, giù passi falsi, divisioni interne, piagnistei e litigate, e la benedizione delle randellate ai liceali utili per il ludibrio h24. Alla fine, dopo un incredibile e sospetto stillicidio dalle sezioni, specchio d’una organizzazione che avrebbe fatto dimettere i ministri dell’Interno di nazioni più strutturate della nostra, dal Gabon alla Guinea Equatoriale, la sospirata débâcle. Salvini sostituito da qualche esponente più vaselineggiante (ha fatto il suo tempo, basta farse sovraniste in nero, ci vogliono leccapiedi in chiaro + IVA), governo in autosmantellamento controllato, l’isola direttamente nelle mani di Jen Stoltenberg-Heiberg. Le felicitazioni dell’israeliana Schlein alla compagna di mille giochi hanno chiuso (con ecumenica festa a sorpresa e scambio di cotillons) anche questa stagione di successo della filodrammatica elettorale.

Le elezioni sono l’indizio chiaro che si vive in una democrazia! Che ci distingue dalla dittatura! La “x” è garanzia di libertà!
E bravo il mio coglione.
Ma cos’è la democrazia? La nostra democrazia attuale, intendo, quella liberale, che dal cul rugge la trombetta della libertà. Ci si interroghi sul perché la democrazia ci ha progressivamente isolati e poi schiacciati in una globalizzazione ben peggiore di quella prefigurata da George Orwell e nell’opera del maestro suo, mai riconosciuto per tale, Evgenij Zamjatin. Alla domanda risponde uno dei pifferai più rispettati del pensiero liberale novecentesco, Norberto Bobbio. Afferma Bobbio ne Il futuro della democrazia (sarebbe bene leggere con accuratezza il pastone che propongo): “La democrazia è nata da una concezione individualistica della società, cioè da quella concezione per cui, contrariamente alla concezione organica, dominante nell’età antica e nell’età di mezzo, secondo la quale il tutto è prima delle parti, la società, ogni forma di società, in specie la società politica, è un prodotto artificiale della volontà degl’individui. Alla formazione della concezione individualistica della società e dello stato e alla dissoluzione di quella organica, concorsero tre eventi che caratterizzano la filosofia sociale dell’età moderna: a) il contrattualismo del Sei e del Settecento, che parte dall’ipotesi che prima della società civile esiste lo stato di natura, in cui sovrani sono gli individui singoli liberi ed eguali, i quali si accordano tra loro per dar vita a un potere comune cui spetti la funzione di garantire la loro vita e la loro libertà (nonché la loro proprietà); b) la nascita dell’economia politica, vale a dire di un’analisi della società e dei rapporti sociali il cui soggetto è ancora una volta il singolo individuo, l’homo oeconomicus, e non il politikón zôon della tradizione, che non viene considerato per se stesso ma solo come membro di una comunità, l’individuo singolo che, secondo Adam Smith, ‘perseguendo il proprio interesse, spesso promuove quello della società in modo più efficace di quanto intenda realmente promuoverlo’ (del resto è nota l’interpretazione recente di Macpherson, secondo cui lo stato di natura di Hobbes e di Locke è una prefigurazione della società di mercato) c) la filosofia utilitaristica da Bentham a Mill, per cui l’unico criterio per fondare un’etica oggettivistica, e quindi di distinguere il bene dal male senza ricorrere a concetti vaghi come ‘natura’ e simili, è quello di partire dalla considerazione di stati essenzialmente individuali, come il piacere e il dolore, e di risolvere il problema tradizionale del bene comune nella somma dei beni individuali o, secondo la formula benthamiana, nella felicità del maggior numero”.

Bobbio cita anche la legge postrivoluzionaria di Le Chapelier (14 giugno 1791) intesa ad abolire “le corporazioni” e “l’apprendistato” introducendo “un delitto di coalizione, penalmente perseguibile”. Distrutte le corporazioni, le associazioni dei lavoratori, tutte le configurazioni intermedie che si frapponevano tra il l’uomo e lo Stato, la democrazia, per farsi compiuta, ha preso a colare direttamente sulla testa dell’individuo, ormai solo. Perché questa è la verità, la democrazia si fonda sull’uomo inerme e senza legami  ovvero su un’astrazione truffaldina. Rousseau e Jeremy Bentham convivono sotto il medesimo tetto postribolare tanto che le rivoluzioni di fine Settecento vantano persino dei generali in comune. Le colonie oltreatlantiche e il bonapartismo diffusero il morbo. La modernità nasce nell’apostasia, la postmodernità è il decorso micidiale di quel primo contagio. E ora siamo pienamente democratici? Macché, nel 2024 non basta ancora. Cambiamento è la parola d’ordine. Altre rivoluzioni, colorate o meno, la cui fonte sorgiva, però, è sempre la stessa. Si cambia, si cambia, non si può mai star fermi, c’è da passare un diserbante più tenace, per disseccare sin alle infime radici non solo il dissenso, ma la possibilità psicologica stessa del dissenso. I turiferari della democrazia hanno equivocato la famiglia per familismo, le corporazioni per lobbies, le confraternite religiose e militari per impacci. Ci è ingannati, calcolando male, calcolando sbagliato. La somma fiducia che un sistema democratico potesse ramificarsi virtuosamente, dall’alto, con equanimità, verso tutti i propri cittadini, senza incontrare ostacoli, si è rivelata, nell’era della tecnica, un incubo. Le vere oligarchie e le secolari lobbies hanno così potuto prendere pieno potere, e soggiogare con agio, democraticamente – un evento epocale di cui già prendeva atto Eugenio Cefis nel 1972. Proprio l’assenza degli stati intermedi ha facilmente trasformato lo Stato in una schiacciante dittatura edulcorata dal permissivismo edonista e anarcoide. I katechon che potevano opporsi allo scatenamento del Potere, comprese la scuola e l’istruzione superiore, sono stati spazzati via, o comprati, o colonizzati. E ora? E ora ci si avvia al sommo dell’utopia democratica: il totalitarismo casual. Ma son tutti contenti. Vestirsi da drag queen è il nuovo sol dell’avvenire.

 

I trattori invadono Roma! Così si fa! È solo l’inizio! Non gliele mandiamo a dire! Imbrattiamo di letame la casa di Giorgetti! E via così.
Come si sia passati dai nichilisti che aspettano il capo dei gendarmi sotto casa per fargli la pelle ai socialisti da social che gonfiano il petto digitale dal divano è cosa che si è trattata a sazietà in tale blog: superomismo da serial americano, abbandono del principio di non contraddizione, incapacità a zappare, masturbazione compulsiva, tecnopuerizia compiaciuta. Le donne si sono autoconvinte, dal canto loro, che vantare diritti, di fatto, inesistenti (il diritto al lavoro, allo studio intersezionale, ai vibratori) è di gran lunga preferibile al loro millenario dominio nei più decisivi ambiti sociali, cui hanno rinunciato in un paio di generazioni. Con le conseguenze isteriche del caso.

L’Italia ridotta a una gabbia di matti impotenti è uno spettacolo che fa rizzare i peli per l’imbarazzo.
Ma i trattori?
I trattoristi avranno più dimestichezza con vacche e trebbiatrici, ma, guidati come sono da inetti o gaglioffi in malafede, non otterranno nulla. Come è accaduto ai Gilet Gialli o ai portuali di Trieste o ai Forconi (la lista, però, è lunga quanto ridicola).
Avranno in cambio del silenzio qualche spicciolo, questo sì. La truffa dello spicciolo (serve un micco, il truffatore e i compari che tifano alternativamente per micco e truffatore) rimane inalterabile e consolidata: io, Partito delle Teste Tonde, ti regalo dieci talleri oggi, somma da cui ne decurterò cinque domani (è giusto! Non ricordi che te ne ho dati dieci!); per poi esigerli quindici, in altro contesto, con le Teste Quadre al comando, dopodomani. Totale: meno dieci talleri. Un affare, come si vede, ma si è sempre proceduto in tal modo. Il lavoratore italiano è divenuto povero a forza di accordi sindacali vantaggiosissimi. La faccia di Landini testimonia in tal senso. Le pezze al culo sono inspiegabilmente apparse, vittoria dopo vittoria, sugli spiazzi di una battaglia campale da prendingiro.
E allora, caro Lei, non dovrebbero chiedere soldi?
Certo, ognuno deve campare, ma la vera sopravvivenza non può fare a meno di un’ideologia precisa, onnicomprensiva, di cui la contingente richiesta di aiuti, a fronte di un crollo epocale del settore agricolo, è solo minuscola parte. Ideologia, forse, è parola inadatta, configurando equivoci a cascata.
Sistema di valori? Sol dell’avvenire? Utopia? Pensiero?
Forse è meglio, in progress, il termine filosofia. Perché occorre conoscere ciò che è accaduto, per distribuire colpe e non ammettere più errori o cialtroni. Inscrivere la minuzia nel quadro totale della contemporaneità perché la devastazione del settore agricolo, dei mestieri e delle professioni, rientra in un più generale piano di riduzione dell’Italia nella schiavitù più abietta. I soldi svaniscono al cospetto di un’operazione antispirituale mai tentata prima. I somari che s’incollano all’asfalto per il clima, la racchia che si denuda davanti alla Lupa Capitolina, lo sguardo porcino di Greta, le sciocchezze sesquipedali della Von der Leyen … sono tasselli di un piano omogeneo di distruzione che ne richiede, per il contrasto, uno altrettanto onnicomprensivo.

Trattare sugli spicci non concederà nulla se non la classica tecnica clientelare del passo in avanti … quale causa, purtroppo!, in un futuro più o meno immediato, di due passi indietro. Ciò che si rimprovera agli agricoltori, il sussidio continuo, è una realtà da decenni. L’agricoltura, l’unico settore che conti veramente, a ben vedere, è stata volontariamente distrutta, nei decenni, e quel che più conta, estirpata totalmente dall’esperienza millenaria degli Italiani. Ormai un ventenne si rapporta ai prodotti della terra grazie alla mediazione nichilista della multinazionale. Non conosce né la tecnica né i sapori legati a quel mondo autosufficiente e conchiuso ch’era la campagna. Il finto ecologismo, poi, ha dato il colpo di grazia: poveri polli d’allevamento, povere galline!, cicala il teen mentre addenta un bisunto petto (di pollo) del Crusty Burgers’. Oppure, a scelta, maledette vacche che consumate tanta acqua necessaria alla Terra per sostenersi! Meglio le pilloline! Meglio la farina di merda secca, come Ezechiele nel famigerato passo biblico. E, poi, cambiando campo, poveri tori! Assassinati, i tori, nel sanguinoso rito fascista della corrida! Gli esserini del futuro se li rimandano a racchettate da un estremo all’altro del campo di battaglia queste fanfaluche, dal finto ecologismo della vacca che scorreggia al consumismo straccione e contradditorio del burger, come in furibonda e interminabile contesa Wilander-Higueras. Tolti di mezzo i contadini fai da te, figli e nipoti degli inurbati, che ancora si divertivano a zappettare orticelli e alberi da frutta nella provincia, s’è creato un ceto professionale del tutto dipendente dagli spicci dell’elemosina, accordata sotto le specie truffaldine di una cornucopia regionale o europea. Macchinari sofisticati, fertilizzanti avveniristici. Il paesaggio, però, cambiava, poiché i trenta denari si danno sempre di qualcosa di occulto, mai rinvenibile nei termini dell’accordo luciferino. Sparivano vigneti, oliveti, qualità di frutta; ciò che sopravviveva di ricco e ubertoso non era che la barzelletta elargita dalla globalizzazione: noci della California, pere cilene, arance egiziane, olio marocchino, braciole romene. Il gusto disimparava a riconoscere i sapori uniformandosi a una monotonia allucinante. Le multinazionali pian piano si insinuavano tanto che i residuati bellici del nostro settore primario ormai lavorano per loro. Eppure non basta ancora, si vuole la monarchia universalis pure su pesche e bistecche … e allora si protesta, ma questi ex burini in processione su trattori fantasmagorici sono la Beresina dell’agricoltura.

Se oggi possiamo ammirare un’altura, un fosso, un ondeggiante canneto o una pianura verdeggiante è perché qualche gens rustica ha dissodato e modificato sub specie aeternitatis la venerabile madre del territorio:

O Regina del cielo, tu feconda Cerere,
prima creatrice delle messi,
che, nella gioia di aver ritrovato tua figlia,
eliminasti l’antica usanza
di nutrirsi di ghiande come le fiere,
rivelando agli uomini un cibo più mite,
ora dimori nella terra di Eleusi

Quel Regina Coeli di Apuleio è assieme eredità e lascito: eredità di un mondo di profondità insondabile e lascito che donò suggestioni ed evocazioni; oggi spente, ma vive sino a pochi decenni or sono. L’odore della legna bruciata in un autunno piovoso, il mosto, lo stillicidio dell’olio, tutto questo posso ancora viverlo nella fibra morente: il che, lo concedo, mi rende un incomprensibile museo vivente; lasciandomi la gioia solitaria di comprendere, nel più intimo significato, cos’è l’Italia.

Il denaro non servirà a nulla, il denaro nemmeno esiste. Il denaro sarà, forse, elargito, lo sappiamo; spacciandolo come un pomo dell’albero delle Esperidi. Un brillocco da tre soldi, in realtà. Se ne accorgeranno quando lo si vorrà impegnare al banco degli usurai. Il denaro è il prezzo della servitù; il denaro va e viene, a piacere: ciò che si dà in cambio, la porzione irrecuperabile d’anima, quella è importante. Se non viene spezzata tale malia, si verrà decimati senza pietà, perché a questo gioco si diviene inessenziali, polvere al vento. Per strappare qualcosa di vivo occorre rivendicare un’esistenza alternativa. Solo così ci si muta in un destino. Annota giustamente Nietzsche: “Ciò che è decisivo si compie, nonostante tutto”.

Il romanzo Furore di John Steinbeck (The grapes of wrath) esce nell’aprile 1939. L’ho sempre usato come un talismano contro quelle sciocche dicotomie che ammorbano ancor oggi, 2024, i palchi italiani della stupidità: la destra, la sinistra, i fascisti, l’antisemitismo. Addirittura i moderati!
Steinbeck scrive di ciò che conosce, la vita dei contadini americani. Ne esce un quadro apparentemente diseguale, impossibile ridurre a un comodo schematismo.
L’incipit è pienamente biblico, descrivendo le tempeste di sabbia (dust bowl) che distrussero i raccolti negli Stati centrali americani durante gli anni Trenta. Le famiglie, rovinate, costrette a esodi improvvisati; migrazioni di milioni di anime, in cerca di pane e casa. Sebbene alcuni storici alla saccarina addebitino le cause di tale rovina ai farmers stessi (mancata rotazione nelle coltivazioni) o al climate change (l’improvvisa siccità), è l’Usura che si occulta nelle pieghe della Storia come Shylock tra le calli più fetide di Venezia.
A noi, però, interessa il livello profondo e reale della scrittura dell’Americano. Starless and Bible black, ecco l’apocalisse:
La notte fu nera come l’inchiostro, perché le stelle non potevano penetrare attraverso la polvere per raggiungere la tetra, e le luci accese nell’interno delle case non arrivavano nemmeno sull’aia. Ora l’aria e la polvere erano mescolate insieme in parti uguali. Le case erano ermeticamente chiuse, con tutte le fessure delle porte e delle finestre otturate da stracci; ma la polvere penetrava ugualmente negli interni, così impalpabile che risultava invisibile, e si posava come polline sui tavoli, sulle seggiole, sui piatti, sulle pietanze. Gli esseri umani se la spazzolavano di dosso, mentre strati di polvere s’erano accumulati sulle soglie delle case. A metà della notte il vento s’allontanò e lasciò il paese in pace, perché l’aria densa di polvere smorzava ancor più della nebbia ogni rumore d’intorno. Le creature umane, coricate nei loro letti, udirono che il vento era caduto: fu il cessare del vento a destarle. Ma non s’alzarono, continuarono a giacere immobili tendendo l’orecchio al silenzio. Poi i galli cantarono, ma con voci smorzate, e le creature umane si rivoltarono impazienti nei loro letti aspettando il mattino. Sapevano che occorreva molto tempo alla polvere per ridiscendere a terra e lasciar pura l’aria. Difatti, venuto il mattino, la polvere restava sospesa come nebbia, e il sole era di sangue“.
Il granturco deperisce, come ogni cosa, al pari degli uomini stessi. S’improvvisano carovane per la sopravvivenza. Qualcuno, come Muley, rimane fra i paesi abbandonati, ramingo fra gli scheletri delle fattorie sabbiose, ultima retroguardia della desolazione, mentre gli agenti dell’Usura, i kapò dell’oro, si aggirano, pistola alla cintola, per sbarazzarsi di chi ancora si ostina tra il fasciame del mondo perduto. Moglie e figli di Muley sono già andati, in cerca di speranza. Ma egli rimane: “[Andar via] non potevo, ecco tutto, c’era qualcosa che m’impediva, non potevo“. E cosa impedisce a Muley di andarsene? “Voialtri mi credete tocco nel cervello, dal modo come vivo, ma è perché non capite. Quando m’hanno intimato lo sfratto, mi sentivo capace di accoppare chiunque mi venisse a tiro. Poi quando i miei m’hanno piantato solo, mi son messo a fare il vagabondo. Senza mai andar lontano. Dormo dove mi trovo. Stanotte avevo stabilito di dormire qui. E tutto il tempo mi figuro di far la guardia alle case abbandonate, nell’interesse degli sfrattati. Ma so che non è vero. Nessuno tornerà mai. Vado attorno come nei cimiteri le anime dei dannati …“. Egli si confessa a Casy e Tom Joad, attorno al fuoco che rischiara la notte, dopo aver macellato sveltamente un coniglio selvatico, fra i relitti di ciò che fu dimora e rifugio: “Il sugo della carne cadeva a gocce nel fuoco e ogni goccia suscitava una fiammella che nel rogo spiccava indipendente. I pezzi di carne cominciavano a raggrinzire e a rosolare … Muley continuava. ‘Come nei cimiteri le anime dei dannati. Vado a visitare i posti che conosco, dove mi son capitati dei fatti indimenticabili. Vicino a casa mia c’è una conca, tutta cespugli. E’ lì dentro che m’ero sverginato, a quattordici anni. Be’, tornavo lì, e mi coricavo a terra, e rivivevo tutto l’episodio. E il posto dietro la stalla dove mio padre è rimasto sbudellato dal toro. Il suo sangue è ancora lì, sotto la terra; nessuno può averlo levato via. Be’, vado lì, e m’inginocchio sulla terra bagnata dal suo sangue. Mi credete proprio tocco nel cervello?‘”.

I tre sono costretti, poi, a nascondersi in un campo di cotone. Gli sgherri dell’Usura li braccano. Muley, però, ci ha già detto tutto. Il sacrificio, il bestiame, la caccia, il padre, il primo amore con una donna. Gli umori del corpo, lo sperma, il sangue, sugo della vita, la terra, il fuoco. Un circolo di sentimenti contro la sterile protervia del denaro.
Il prosieguo del romanzo, con gli insegnamenti socialisti di Casy, non deve ingannare. L’homo oeconomicus è una superfetazione, in tal caso. L’homo oeconomicus nasce e vive solo, democraticamente, in opposizione alla comunità. La comunità dei farmers celebra sé stessa secondo riti né socialisti e né democratici, ma eterni: per questo fu dispersa.

Nel finale del romanzo, censurato nelle prime edizioni italiane, la famiglia di Tom Joad si rifugia in un fienile abbandonato a causa d’un improvviso diluvio. Qui trovano due spettri, padre e figlio: “Un uomo sdraiato sulla schiena, e accanto a lui un ragazzo seduto, che guardava i nuovi venuti con occhi spalancati“. Il padre è malato, sussurra il ragazzino; prima la febbre del cotone, e poi la fame: non mangia da sei giorni per sfamare me! E ora, guardatelo, è finito, non riesce nemmeno a masticare un pezzo di pane, lo rigetta subito … servirebbe del brodo, o del latte, ma chi ne ha? La giovane Rose Tea (Rosesharn) ha da poco partorito un figlio, nato morto; il marito è andato via. Dove sarà? Allontanati i familiari, Ella rinasce al ruolo suo eterno, in un rito iniziatico che la riconsegna al miracolo della vita: “Per un minuto Rosa Tea continuò a sedere nel silenzio frusciante del fienile. Poi si alzò faticosamente in piedi aggiustandosi la coperta attorno al corpo, si diresse a passi lenti verso l’angolo e stette qualche secondo a contemplare la faccia smunta e gli occhi fissi, allucinati. Poi lentamente si sdraiò accanto a lui. L’uomo scosse lentamente la testa in segno di rifiuto. Rosa Tea sollevò un lembo della coperta e si denudò il petto. ‘Su, prendete’, disse. Gli si fece più vicino e gli passò una mano sotto la testa. ‘Qui, qui, così’. Con la mano gli sosteneva la testa e le sue dita lo carezzavano delicatamente tra i capelli. Ella si guardava attorno, e le sue labbra sorridevano, misteriosamente”.
L’attributo della rosa, il parto, il sorriso misterioso, la dolcezza nell’allattare e infondere vita. Chi sa, riconosce subito in Rosa Tea la nostra Cerere, la Madre dei Cieli, e la sua incarnazione postuma, la Vergine, Maryām, novella Parthenos, sì da saldare nella continuità Apuleio, San Giovanni, Iacopone e le innumeri Madonne del Latte cristiane: dalle più materne, come in Bartolomeo Vivarini, a quelle algide e principesche di Nicolas Fouquet.

Non rimpiango nulla, anzi, a dirla tutta, i contadini li ho sempre sopportati male. Sono un mondo a parte, il loro istinto di conservazione, ossessivo, la spina dorsale dei popoli, li spinge a essere inevitabilmente scostanti e disprezzati. L’edulcorazione della figura del contadino è tipica del socialcomunismo più mite, o meglio: di alcuni ideologi socialisti che, infatti, ebbero a rifuggire la zappa come damerini. A confidare nei contadini come arma rivoluzionaria o patriottica a volte si finisce male, come certi aristocratici nell’Ucraina del 1874. Léon Bloy, che combattè a ventiquattro anni nella guerra franco-prussiana, li odiava a morte: “Vili e fangosamente egoisti, impenetrabili al sentimento della Patria e completamente estranei all’idea della Razza, videro, insomma, nella guerra, solo un funesto tiro del destino, una scalogna nera che bisognava vincere, ognuno per sé. Con tutte le mascalzonate e gli imbrogli possibili … La guerra non li riguardava. Loro non l’avevano mai chiesta, e chiamarsi Germania e Francia … che differenza poteva fare per loro?” (Sudore di sangue, 1893).
I contadini, quelli veri, tengono fede solo alla loro sopravvivenza, e la terra è la genitrice di tale miracolo. Accumulare, come formiche, oltre l’indispensabile. Trattenere, mai concedersi ai cambiamenti poiché i cambiamenti fanno perdere di vista proprio le abilità della sopravvivenza. I contadini pregano Dio come fosse un protettore mafioso; la Vergine, invece, è Cerere e Atena Parthenos, le processioni in suo onore culti della fertilità. Ho fatto in tempo a vedere contadini che toglievano il saluto perché un incauto potatore li aveva privati di una frasca di troppo: inevitabile condanna a un etto di olive in meno; e novantenni, poi crepati con decine di milioni sul conto, risparmiare su singoli fiammiferi; tutti imbroglioni, abili a mentire spudoratamente o a chiedere sconti persino su cento lire; o a sfangare la vita con trucchetti picareschi, come il mio compianto vicino di casa che, negli anni Cinquanta, povero in canna, andava con una pagnotta nascosta nei calzoni a chiedere un assaggino ai numerosi porchettari delle fiere; per poi sedersi in santa pace a sbocconcellare quel pranzo tanto più delizioso quanto più era stato abile il raggiro. E lui rimpiangeva quei momenti, quasi con le lacrime agli occhi: “A noi c’ha rovinato la luce”, diceva; a intendere: le bollette della luce, e poi le prime microimposte e fatturine, che costrinsero a usare sistematicamente lo sterco del diavolo, i soldi. “E poi ci hanno rovinato le pensioni”; come a dire: da quando si sono messi in testa di compensare con gli spicci la morte dell’agricoltura, siamo tutti diventati avidi. Ma non di roba, di spicci! La roba, roba mia vientene via con me!, quella era il giusto! Galline, maiali, conigli, insalate, patate, farina. E pane, il pane e le focacce e le pizze da mettere nei forni comuni il sabato e che duravano tutta la settimana; o più. Luoghi perduti nella campagna che conservavano la fisionomia per secoli, i muracci o le pietricce a donare nome a campi delimitati da rovine di abbazie e cimiteri medioevali. Acque e boschetti comuni servivano tutti, retaggio del ius communis che legava i popoli europei in un enfasi di pietà imperiale. Quella era la vita, immarcescibile, incorruttibile; terribile e meschina, incomprensibile, aliena. Minorati mentali, omosessuali, disabili, zitelle e mignotte venivano assorbiti dalla tribù e predisposti al loro ruolo di competenza millenario; il tizio un poco svanito; lo scapolone; quello sfortunato; quella che non se la fila nessuno perché è bassa e storta, ma è lei che non vuole, li ha respinti tutti i pretendenti, la chiedeva pure quello mezzo straniero (e qui si indicava un tizio che abitava a quindici chilometri); e poi la ragazza leggera che la dava un po’ a tutti, ma alla fine un tonto da sposare lo trovava sempre. Nessuno era escluso dal circolo della vita. Gesti di ottusa e gratuita cattiveria (Schadenfreude) convivevano con esistenze al limitare della santità. Le nuove generazioni crescevano, com’era sempre accaduto, al medesimo sole delle rustiche comunità dei Fabii, dei Popilii e degli Anienses; italiani cui si guarda oggi con basita incredulità, animali capaci di sopportare l’insopportabile, gente estinta, di cui residua il fugace lamento funebre fra travertini e marmi alla buona, lo sguardo impassibile e diffidente cristallizzato nei ritratti d’un tempo irrecuperabile.

L’omicidio dell’agricoltura come è vissuto nell’ex sinistra? Poiché quella parte politica è popolata soprattutto da allocchi ideologici, è inevitabile che subisca lo sballottamento tennistico più di ogni altra categoria mentale. Il sinistrato vuole tutto genuino, poiché l’ecologico fa bene alla salute (non si risparmia, peraltro, qualche corsetta mattutina ad allenare la pompa cardiaca); data questa premessa, egli va alla cooperativa perché, nel far ciò, coniuga impegno e lotta alle vene varicose. Sì, lo 0,1% dell’incasso sulle zucchine bio va alle donne maltrattate del Burkina Faso, e però son biologiche, quindi si combatte all’unisono colesterolo e multinazionale. E anche il bracciante fascista che sfrutta Mbembe Mbembe. E poi? E poi ci sono gli orti urbani: i contadini vanno bene se appena fuori della città (ma non di Coldiretti: è di destra), però … però … se mi faccio l’insalata sotto il condominio? Col beneplacito dell’assessorucolo che ci concede questa ulteriore lotta contro le keiretsu mondiali … so cosa mangio, allora, peperoni antifascisti. Ma ora il cappio si stringe, anche gli orti urbani non vanno più bene … nuove direttive, compagni … cosa ci si inventerà per surrogare ancora l’ideologia? Tovarisch, ecco qua, il supercoffee da cicoria green, l’acqua piovana in bottiglia, le farine idroponiche! E il girotondo riprende.

1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144. Tale la successione numerica del pisano Leonardo Fibonacci, che studiò matematica sotto un maestro d’Algeri, magari discendente da Apuleio, cittadino imperiale romano di Madaura. Ogni numero è la somma dei due precedenti.
Variamente correlata a tale successione è la disposizione del fogliame in alcune piante comuni. Facile: partendo da una foglia qualsiasi si conta il numero di giri necessari a ritrovarne un’altra nella medesima posizione, seguendo un tracciato a spirale, dall’interno verso l’esterno. A esempio, se sono necessari tre giri (per un totale di otto foglie, esclusa la prima) si ha un rapporto di 3/8 ovvero la divergenza della foglia.
In una quercia la divergenza è 2/5; nel pero 3/8, nel mandorlo 5/13; e così via: 8/21; 13/34. I numeratori, così come i denominatori, di dispongono come nella successione di Fibonacci. Se moltiplichiamo l’angolo giro (360°) per il rapporto di divergenza avremo l’angolo di divergenza della foglia. Tale angolo si approssima sempre più (360°x3/8=135°; 360°x8/21=137°,14’; 360°x13/34=137°,64’ et cetera) a quello – ideale – di 137°30’28’’.
Ideale per far cosa?
Per esporsi col maggior vantaggio possibile alla luce solare, a non ingombrarsi l’una all’altra recandosi ombra, e godere del beneficio delle piogge.
Improvvisamente, quindi, nella militare regolarità dei numeri, si intravede l’abisso dell’aurea perfezione (1,6180339887 …). Un anelito vano? Certo, ma è la tensione verso un traguardo che mai si raggiungerà a risultare decisiva, sorta di naturale imitatio Christi. L’infinito abita fra noi, invisibile quanto inattingibile, causa prima della volontà di vivere di fronte alla minaccia dell’eterna notte. E tale fulgida disposizione matematica cui la vita aspira per riprodurre sé stessa, in un circolo felice e interminato, ha poi le stimmate del bello. Nessuno può sottrarsi a tale fascino, chiunque egli sia: fermati, sei bello!, potrebbe esclamare un botanico davanti alle irradiazioni spiraliformi d’un girasole o della conchiglia d’una umile chiocciolina.
Supponiamo, però, che un dio dell’Indifferenza giudichi sbagliate tali configurazioni, le reputi in-giuste, e abbia il potere di risistemarle secondo un ordine del tutto nuovo, obbediente a direttrici morali inedite, spesso folli: cosa accadrebbe di un olmo, d’un girasole, d’una quercia secolare? Essi avvizzirebbero, senza scampo, in una torsione innaturale che asseconda un Fibonacci infernale. Ciò che i migliori pre-sentono come Bellezza, infatti, è indizio del giusto, e il giusto è consustanziale a oggetti, sentimenti e parole che vivono da sempre accanto a noi. Lo scotto da pagare all’apostasia del cambiamento è il Nulla, la morte spirituale.

L’omarino è terrorizzato dalla Morte, non vuole nemmeno sentirne parlare. E cosa fa per sfuggirLe? Si consegna alla morte nichilista, solo, inerme, orrendo sin alla propria vista. La Morte, amica dell’uomo, a lui non si confà. Egli ride, il goliarda, vuole divertirsi, dimenticare; folleggiare; farsi beffe dell’Ordine; la barzelletta profanatrice gli sale alle labbra spontanea, irresistibile, appena gli si nomini qualcosa di valoroso ed eminente. Egli, da nanerottolo, cerca sempre la folla, il numero, l’indistinto, i followers.

L’aristocrazia insegna proprio il contrario: a selezionare gli evangelizzatori, a definire, ad allontanare i più. Cristo non scrisse nulla, e in vita adottò un comportamento sdegnoso, a volte apertamente scostante. La verità, infatti, la si persegue solo a costo della verità. “Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?“, si lamentano i discepoli (Giovanni 6, 60). Ma il Maestro pare compiacersi dell’impopolarità: “Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui“. Si ritira dalla venerazione delle folle, difende adultere e samaritani, nega i miracoli; addirittura sfida i Dodici: “Volete andarvene anche voi?“. La porta stretta, il Simurgh, le Termopili, i felici pochi: nell’apparente disfatta cresce la più straripante vittoria.

Nel “di più”, nell’apparente superfluo, si annida la ragione della sopravvivenza dell’uomo in un universo che lo schiaccia, spesso in labirinti d’insensata irrazionalità: ecco un altro calcolo sbagliato. La costituzione apollinea dell’uomo, in cui consiste la logica, il buonsenso, la lealtà, la forma artistica; sciogliere tutto questo, lo smalto sul Nulla, in nome della falsa libertà ci ha donato un’umanità posticcia, debole, puerile, arrogante a negare evidenze chiarissime e visibili a tutti. È proprio tale umanità a presentarsi ogni giorno sulla scena mondiale, impermeabile all’oggettività, l’ottusa e compiaciuta supponenza. La sensazione è di trovarsi su un palco di stupidi cabarettisti che pretendono di migliorare il mondo e battono i piedi quando la realtà li smentisce quotidianamente.

Equivocare lo smalto sul Nulla come un inutile orpello ci ha condotti a una via senza uscita. Tornare sui nostri passi, ammesso di trovare compagni di viaggio in tale anabasi, è impossibile. Analizzare il lastrico dell’inferno che ci ha condotti sin alla cappella aconfessionale di Mark Rothko, almeno, questo, sarebbe un sintomo di lucidità.

Nello spostare una fila di libri impolverati, e prossimi al rogo, mi ricapita fra le mani Parole nel vuoto, di Adolf Loos. Chissà perché l’avevo sempre scambiato per un simpatizzante del nazionalsocialismo; e invece era uno dei tanti Brighella della dissoluzione. Nato a Brno nel 1870, raffinato rappresentante di quel mondo che si molcea il cuore ai tiepidi bagni di pace della Belle Epoque, l’austriaco Loos è “considerato”, cito da Wikipedia, “uno dei pionieri dell’architettura moderna”. I termini “pioniere” e “moderna” già fanno scattare i meccanismi di difesa: qui si annida un impostore. E però alquanto brillante. Loos è nemico giurato dell’ornamento tanto che il suo più noto saggio è il fulmineo Ornamento e delitto (Ornament und verbrechen, 1908). Egli ama le superfici lisce e prive di scanalature, le coperture piane degli edifici; una brutale essenzialità da cui fu permeato durante alcuni anni giovanili trascorsi in America: “Ogni volta i costumi dei paesi anglosassoni sono presi a modello. Per fare le cose nel modo giusto bisogna seguire quello che si fa nel cuore della civiltà, cioè a Londra o a New York”, si cicala nell’introduzione. Loos intuisce genialmente come la figurazione nasca dall’horror vacui; un istinto da rispettare nelle civiltà arretrate, ma considerato inaccettabile per un individuo evoluto: “[Un Papua della Nuova Guinea può tatuare] la sua pelle, la barca, il remo o qualsiasi cosa su cui possa mettere le mani … Non è un delinquente. Ma l’uomo moderno che si tatua è un delinquente o un degenerato. Gli uomini tatuati che non sono in prigione sono o delinquenti latenti o aristocratici degenerati”. La figurazione come degenerazione nell’homo civilis: “Al posto delle forme fantastiche dei secoli trascorsi, al posto dell’arte ornamentale fiorita in passato, doveva sostituirsi la pura e semplice costruzione. Linee diritte, spigoli ad angolo retto”. Casa Scheu (Haus Scheu) rassomiglia un poco alle casette da presepe che assemblavo grazie al traforo; disadorna sin a un depressivo grado zero dell’apprezzamento; di ancor più esacerbata economia la Villa Müller a Praga, sorta di fermacarte in grigio che avrà ispirato, per così dire, la meschina edificazione della chiesa di Fuksas a Foligno. Cubi, parallelepipedi, camere e pareti cieche, mura scialbate, finestre e porte ritagliate col seghetto dell’albagia funzionalista. A compenso di tanta desolazione, Loos sviluppò una particolare erotia per i materiali preziosi da interno coniugando grettezza nichilista e bramosia della preziosità: cupidigia del nulla e ansia da parcella? Suoi committenti migliori furono avvocati socialisti, ricchi ebrei, Tristan Tzara, Josephine Baker. Nel 1930 fu accusato di pedofilia (bimbette men che decenni), un impaccio che gli recò una parziale seppur molesta condanna. L’epitaffio suo fu, però, quello d’un vincente (morì nel 1933): mentre Keats, cultore dell’urna greca, si reputò nome scritto sull’acqua, Loos lasciò un arrogante testamento olografo in cui dannava ab aeterno la posterità: “Sono uscito vittorioso da una battaglia durata trent’anni: ho liberato l’umanità dall’ornamento superfluo. ‘Ornamento’ era un tempo sinonimo di ‘bello’. Oggi, grazie all’impegno di tutta la mia vita, è sinonimo di ‘scadente’”. In esergo l’inevitabile massima di Friedrich Nietzsche: “Ciò che è decisivo si compie, nonostante tutto”.

La lotta contro i presunti orpelli ordita da Loos non risparmia nemmeno la calligrafia. Con Jacob Grimm egli condivide l’odio per l’uso delle maiuscole e la scrittura Fraktur. Di Grimm cita tali parole: “Basterà che una sola generazione si abitui al nuovo modo di scrivere e non ci sarà più nessuno nelle generazioni seguenti a reclamare la vecchia maniera … Se non costruiamo più le nostre case con i timpani e con le travi aggettanti, se non ci incipriamo più i capelli, perché mai dovremmo lasciare tutto il sudiciume nella scrittura?”. Giusto, perché? Perché non abbandonare quella scrittura brutta e informe? Quello di Grimm era uno dei primi focherelli, reputati del tutto innocui. Altri acciarini maligni innescarono roghi ben più imponenti nel secolo a venire. Fra il ripudio del gotico e i liceali che scrivono in stampatello ignorando il corsivo o la costruzione logica soggetto-predicato-complemento ci sono, in fondo, rari gradi di separazione. All’inizio gli errori di rotta son sempre scusabili nella loro ingannevole irrilevanza.

Ascolto un’esecuzione per aulos doppio di Max Brumberg. Le note mi sorprendono nell’ora perfetta, al calare della sera. Dapprima intuisco un lamento funebre, di lancinante bellezza, ad annunciare la morte di un nume celeste, o di un eroe; quindi il suono si smorza in un compianto più mesto e intimo: il dolore per una perdita familiare o, forse, più precisamente, la nostalgia indefinita di tale perdita, a farsi universale. Non sorprende che l’aulos fosse strumento dionisiaco. Tale il sentimento di questo dio che evocava misticamente la primordiale unità fra uomo e natura. A suo contrasto la lira apollinea, su cui è noto l’apprezzamento di Aristotele; il suono della lira sancisce il reintegro nella virtù civile e istituzionale dopo quell’immersione panica: due momenti distinti di una sola cerimonia lustrale. Spesso mi chiedo se le grandi opposizioni dialettiche di Nietzsche, assai più antiche dei Greci e dell’Occidente storico, non siano sopravvissute entro di noi. Se la lira e l’aulos non risveglino ritmi biologici; cadenze neurali che ci connettono a un’etica precisa, a una civiltà esclusiva. Louis Ferdinand Céline confessa: “Mi sono beccato la guerra nella testa. Ce l’ho chiusa nella testa”; a vent’anni la morte lo sfiora attraversandogli il corpo come un refolo gelato. Ha la “cagnara nella crapa”. Si risveglia o, forse, diventa pazzo: “Quello che ci infastidisce di più negli Ebrei, quando si esamina la situazione, è la loro arroganza, il loro rivendicazionismo, la loro perpetua martirologodervisceria, il loro sudicio tam-tam. In Africa, fra gli stessi negri, o loro cugini, nel Camerun, ho vissuto per anni solo, in uno dei loro villaggi, nel cuore della foresta, sotto la stessa capanna, alla stessa zucca. In Africa, era brava gente. Qui, mi infastidiscono, mi fanno schifo. In Camerun diventavano veramente insopportabili solo in periodo di luna piena, erano una tortura con il loro tam-tam… Ma le altre notti, vi lasciavano ronfare tranquillamente, in tutta sicurezza. Parlo del paese ‘pahoin’, il più negro paese di negri. Ma qui, ora, in Francia, Luna o non Luna, sempre tam-tam!… Negri per negri, preferisco gli antropofagi… e poi non qui… a casa loro… In fondo, è il solo danno che mi procurano, un danno estetico, non mi piace il tam-tam”. Forse abbiamo dimenticato aulos e lira lasciandoci cullare nella progressiva tamtamizzazione d’Europa. Possiamo tornare indietro? Ma no, no … avete letto Jacob Grimm? “Basterà che una sola generazione si abitui al nuovo … e non ci sarà più nessuno nelle generazioni seguenti a reclamare la vecchia maniera”. Per questo esistevano segreti iniziatici e custodi: per preservare il meglio dalla legge termodinamica del falso progresso. E ora? E ora tam-tam, congas e darabuka ci fanno saltare, ci fanno ballare, ci fan dimenare! Al gioca-jouer della dissoluzione.

Ci son sempre stati fanatici al mondo. Questi dei tempi moderni, però, non difendono mura, porte o compagni, ma quell’impalpabile diaframma che li separa dalla verità di ciò che sono: il che li renderebbe folli e disperati.

Un conoscente m’invia una citazione di Erik von Kuehnelt-Leddihn: “Per l’uomo medio ogni problema risale alla Seconda Guerra Mondiale; per i più informati alla Prima Guerra Mondiale; per il vero storico alla Rivoluzione Francese“. Una frase che potrebbe piacere ai reazionari più superficiali. Chi ama immergersi nelle camere di deprivazione sensoriale della Storia, sa che le cose presero la piega sbagliata allorché il primo ominino si pose in meditazione delle proprie mani – o delle proprie zampe – iniziando a formare un abbozzo di coscienza. La pura volontà di vivere ne fu annebbiata tanto che, lentissimamente, egli, proprio per sopravvivere, dovette ingegnarsi a costruire lo smalto sul Nulla: la Bellezza, la Santità, la Guerra, l’Arte.
Il suicidio vero e proprio, invece, principiò a ordirsi quando un minchione, specchiandosi in qualche pozzanghera dell’amore ecumenico, decretò, gonfiando il petto, di voler migliorare l’umanità. Da quella prosopopea fitta d’inesistenti divinità e buone intenzioni non siamo ancora fuori; faremo fatica, temo, a uscirne vivi.

Per indovinare il futuro, e farsi quattro risate, è doveroso compulsare da chiromanti l’appena ieri. Sfoglio uno dei tanti sciocchi magazine degli interconnessi progressisti più saputi,  “Wired”. Un numero speciale del 2013. Titolo da copertina: “L’anno dei robot”. Sottotitolo: “Dialogheranno con noi. Saranno autonomi e supercognitivi. Diventeranno morbidi e amichevoli. Sapranno addirittura cambiare forma”. Dopo undici anni è dura connettersi oltre i trecento metri dell’Appennino, e di robot morbidi nemmeno l’ombra. A metà rivista l’inserto speciale: tutto quello che vivremo nei prossimi dodici mesi (cioè dal 2013 al 2014): l’avvento del li-fi, i transformer sono tra noi, gli automi rilanceranno l’industria italiana, i radar diventano personal. E Poi: una nuova filiera per la bioplastica, potere ai batteri, il proteoma ci dirà chi siamo, lo stipendio lo fa l’algoritmo, pop economy con web e condivisione contro la recessione … sembra di assistere a un concerto per tam-tam illuministi e pernacchie diretto da Nicholas Negroponte e Beppe Grillo. Il quale ultimo, se ben ricorderete, ammansiva i fessi proprio con queste trovatine effimere. E, però, fra le pieghe del prendingiro, affermava pure la nuda e cruda verità: i vecchi ci costano troppo, l’agricoltura si deve serializzare, la democrazia ha da farsi digitale e diretta, se vuoi ammazzarti viva la libertà e così via. Di tutto il cucuzzaro della Bengodi tecnologica le uniche promesse mantenute sono proprie quelle verità che emergevano dal bollito misto del sol dell’avvenire; a stento riconosciute, fra risate di consenso e urla di disprezzo, per quel che sono in realtà, prossime e agghiaccianti profezie. Camere suicidarie, cibo liofilizzato, totalitarismo casual, estinzione del lavoro, lockdown dell’istruzione, tecnopuerizia.

C’è una antica pineta secolare non molto distante dalla mia tana. O meglio: c’era. Le voglie dei palazzinari, e qualche sciame di parassiti recati dalla globalizzazione, l’hanno decimata in pochi anni. Ne rimangono degli esemplari malaticci, dalla chioma sparuta, storti e rassegnati. Un tempo ci si dava qui convegno per una breve escursione, o una merenda domenicale. Tra le fronde ombrose s’intuivano brani della volta cilestrina, amica di noi mortali. Mi torna alla mente, con una intensità sorprendente, un gruppo di giostrine, nello spiazzo antistante; luminarie intermittenti, musiche da carillon, l’ovvia meraviglia di noi tutti bambini. Il mondo pareva semplice, senza troppe pretese, la vita scorreva, predisposta entro sentieri già tracciati. Ogni tanto torno ancora qui, a passeggiare, fra gli immondezzai lasciati da filippini e prostituti. Rendo sacri al ricordo, al pari di Muley, brani della vita passata. Attorno a me, però, non c’è nessuno. Ognuno ha da fare, ma cosa? Vorrei trattenerli, solo un poco, ammiccando a quegli alberi morenti: “Restate! Una volta qui … proprio qui …“, ma non capirebbero. Gli Italiani non hanno tempo, non hanno più tempo. Come punti da uno scorpione, via, senza tregua, avanti a sé, credendo di sopravvivere. Non sanno che lo scampo è una trappola, una ley de fugas, come quella concessa ai prigionieri da giustiziare in una finta evasione.
Devo lasciarti! Scappo! Ne riparliamo! Ti ritelefono! Mando una mail, un whatsapp! Ci aggiorniamo! E nessuno che, andandosene, abbia la gentilezza di dirmi: “Ti saluto, Muley, mio buon amico! Arrivederci, Muley!“.

Non riesco a compatirli.

Dove credono di fuggire?

Non sanno che la loro casa è ancora qui?

Di Alceste

28.02.2024

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