Sulla diatriba leva sì leva no – Cittadini al servizio, militare o civile, della collettività, o mercenari al servizio dei signori della guerra?

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DI FULVIO GRIMALDI

Mondo Cane

La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici. L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica. (Costituzione, art.52)

A dispetto che me ne verranno alcune ragionate obiezioni e un mucchio di biecamente strumentali anatemi (reazionario, nazionalista, sovranista, populista, rossobruno e via nella scia del sinistro sinistrismo), sento l’urgenza di inserirmi con due parole nella diatriba scatenata da Salvini con la proposta di tornare al servizio di leva obbligatorio, militare o civile. Per otto mesi. Io ne feci 18 e se parto da me non è per il narcisismo di coloro che trattano il mondo come se fosse una giostra di calcio in culo dove tutto è mosso dal perno centrale e gli ruota intorno e quel perno sarebbero loro. Avete presente Luciana Castellina, Furio Colombo, Roberto Saviano, Mattia Feltri, Eugenio Scalfari, per restare sul ramo della comunicazione?

Dal Parnaso alle stalle di Augia

Diciotto mesi sul finire degli anni 50, appena finita l’università, quando avevo ancora poca barba, tantissimo testosterone e lavoravo a Milano all’ufficio Stampa della Mondadori, frequentando e promovendo la creme de la creme (la tastiera non ha l’accento grave) della migliore intellettualità che l’Italia abbia avuto da allora: Montale, Quasimodo, Moretti, Vittorini, Calvino, Fenoglio, Palazzeschi, Bacchelli, Sereni, Arpino, Rea, Pratolini, Buzzati, Moravia… Li elenco e richiamo l’aria che in quelle temperie respirava un giovinastro appassionato di penna e lettura, per paragonarla a quella rancida e pervasa da sudori e disinfettante che girava per le camerate di una caserma. Si può immaginare il trauma. Superato quello già non lieve della visita medica, tutti nudi con le mani incrociate sul bene prezioso e il maresciallo della Sanità che ti tastava le gonadi per vedere se eri affetto da qualcosa. I primi tempi di caserma erano da depressione. Ma non si finiva depressi. Proprio perché si era in tanti e la comunanza dava forza. Incazzati, magari, ma è diverso, è positivo. A me il militare ha fatto capire che ero parte di qualcosa.

Prima i fatti, poi la morale

La prima caserma era quella di Ascoli Piceno e la libera uscita, rigorosamente in divisa, ci vedeva a Piazza del Popolo, inguattati nei portici a occhieggiare ragazze i cui sguardi ci attraversavano come fossimo trasparenti. Il massimo dei massimi era la cena-baraonda nella bettola del vicolo che ci costava un terzo del soldo mensile. La seconda caserma, sempre da allievo ufficiale, era a Caserta, allora mica la scintillante città di oggi, più un borgo espanso e polveroso dove, per la libera uscita, c’era la reggia e una ragazza che ti faceva la prestazione su un lettone dietro a una tenda sorvegliata dall’anziana madre che faceva la maglia e dondolava una culla. Poi vennero, per il comando di un plotone e poi di una compagnia, Roma e quello che allora era il buco di culo del Nord Est e oggi una “ridente cittadina”: Sacile del Friuli, Brigata Corazzata Garibaldi. Infine, il ritorno da Mondadori: allora ai militari si conservava il posto.

Alla scuola allievi di Ascoli dopo i tre mesi, si poteva volontariare per un’arma: cavalleria, fanteria, alpini, commissariato, genio… Di solito, prese le tue misure, venivi accontentati. Ma per i bersaglieri c’erano da superare alcune prove, durette: percorso di guerra, salto mortale, arrampicate e soprattutto una mezza maratona. Arrivai terzo, stremato, strisciando. Il colonello selezionatore per questo decise di ammettermi, nonostante l’handicap inibitore degli occhiali: “Sei un bersagliere”, disse. Scelsi i bersaglieri perché mi piaceva correre e ne avevo letto le imprese nelle guerre d’indipendenza, soprattutto la breccia di Porta Pia e, con quella, la fine dello Stato della Chiesa e, si pensava, la fine del potere temporale del papa. Eppoi li circondava quell’aura da tardo ottocento della Scapigliatura, irriverente e antibigotta, e da primo novecento futurista, intriso di libertà di movimento, velocità, canzoni sbarazzine e ragazze. Tutto questo simboleggiato dalle piume di gallo cedrone (poi di cappone), “l’ala del bersagliere”, che doveva nella formula moderna, con la corsa, spazzare la via ai mezzi corazzati.

Lamarmora, come salvare la pelle

Del generale Lamarmora, il fondatore, non gradito ai Savoia, ma giudicato tra i migliori strateghi della storia militare, mi aveva colpito un cambiamento dell’arte della guerra. Con i suoi bersaglieri aveva posto fine all’avanzata compatta di schiere di soldati, agevolmente falcidiati in massa dal nemico, le “onde umane” usate da secoli con sommo disprezzo per le vite degli uomini. Aveva inventato il metodo di far muovere i bersaglieri sul campo di battaglia in unità di tre, sparpagliate, con sapiente uso dei ripari forniti dal terreno. Grande risparmio di vite. Conservo ancora il cappello piumato, ma di tutto questo non ho la minima nostalgia, anche perché è mescolato alla stupidità intrinseca della gerarchia, a certe violenze implicite in chi si approfittava dell’essere titolare di un rapporto dall’alto in basso, a fatiche immonde, a punizioni immeritate, a un sottile, sempre presente, senso carcerario, del sentirsi alla mercè di una volontà arbitraria. E quello che ai bersaglieri professionisti, insieme alle altre specialità, vien fatto fare da comandi obbedienti a decisori esterni al mio paese, non mi riguarda e mi ripugna.

C’era comunque il buono e il cattivo. C’era il colonello che ti perseguitava con le punizioni e la negazione dei permessi perché, con la tua confidenza data alla truppa da ufficiale giustificavi gravi ma inconsistenti sospetti di omosessualità; e c’era il capitano pittore che ti invitava nella sua stanza a scoprire sul registratore Miles Davis, Brassens e Paul Anka. C’erano le esercitazioni a fuoco in cui qualcuno ci poteva rimettere l’incolumità di un braccio, o peggio, e c’era la soddisfazione per aver passato la prova grazie a un coraggio e una lucidità che pensavi di non avere.

E, per chiudere sul piano personale, di molto buono per me c’è stato che, arrivato in caserma da mangiapreti, sì, visto che venivo da un collegio di frati (per cui Porta Pia), ma anche da destro dichiarato e convinto, e ne uscii da convinto comunista. La prima condizione veniva da un passato infantile e adolescenziale tra Figli della lupa e camicie brune in Germania, la seconda dall’incontro con il carrista Marcello, universitario fiorentino (come me), figlio di ferroviere comunista, comunista saggio ed elastico anche lui. A forza di libere uscite sulla mia moto Zigolo, vane cacce comuni all’entità femminile, estenuanti discussioni e il fatto che lui, nonostante mie ostinate stupidaggini, non mi ha mai mandato a fare in culo, ho attraversato il rubicone.

Ritorno dalla Somalia

Quello che ho, abbiamo, hanno vissuto nei 18, poi 12, mesi di leva militare, mi fanno dire che Salvini, per una volta, ha ragione. E’ un forte sostegno alla sua ragione gli danno coloro che il servizio di leva lo abolirono: D’Alema, caporale Nato in Jugoslavia, nel 1999 ne ventilò la fine, Berlusconi nel 2004 la sancì. Bei tipetti, ottimamente motivati. Dalla Nato. Che tutto propone, pone e dispone nel nostro paese. Un processo avviato e poi imposto a tutti i paesi del giro che aveva iniziato a muoversi verso la fine della sovranità popolare, della democrazia, della pace. Quelli di Stay Behind, Gladio, che avevano mosso le pedine De Lorenzo, Borghese, Gelli e stragisti vari, per un “regime change” in salsa yankee, che allontanasse il PCI dal potere, si erano resi conto che con quattro guardie forestali, un manipolo di ufficiali di medio rango, qualche poliziotto e qualche Delle Chiaie, si andava per fichi. Che ci sarebbe voluto l’esercito, l’aeronautica, la marina, o almeno grossi pezzi di questi.

Ma con un esercito di leva, cioè di cittadini di tutti i colori, perlopiù portati alla pace e alla vita senza avventurismi di sapore fascista, ovviamente niente da fare. E neanche per mandare Giulio il bracciante, Oreste lo studente di architettura, Mario l’operaio Fiat, Riccardo l’infermiere, Palmiro il giornalista di Paese Sera a sparare e farsi sparare in Russia, Serbia, Iraq, Sud Tirolo. Ci sarebbero voluti i volontari, i professionisti, i mercenari. Quale mamma avrebbe potuto presentarsi all’ufficio di leva per strappare il figlio, autodeterminato a fare la guerra, dalle grinfie del maresciallo reclutatore?

Questa è la considerazione basilare per porre fine al turpe allevamento di carne da cannone e di combattenti, in casa e fuori, per il Nuovo Ordine Mondiale dell’élite dollarocratica, a difesa dei confini della patria tra Herat, Mogadiscio, Baghdad, Tripoli e dove cazzo la famiglia Rothschild e il suoi salottini Trilateral, Bilderberg decidono di avanzare verso quel nuovo ordine. Poi ce ne sono altre che con le guerre e armi c’entrano poco o punto. Pensate a otto mesi in cui ragazzi tra i 18 e i 25 anni possono tirare fuori lo smartphone solo la sera, in libera uscita. A questi giovanotti coccolati e rimpinzati dalla famiglia fino a 40 anni (mica per colpa loro, s’intende) senza mai dover subire l’affronto di un monte fisico o psicologico da superare, una difficoltà da contenere o raggirare, un sopruso da subire senza farsene abbattere. Senza mai aver dovuto affrontare un forte disagio ambientale, umano, morale, costretti a convivere anche all’ingiustizia senza poterla scaricare su altri, ma dovendola condividere.

Fare comunità

Ecco condividere. Fare comunità. Da iperindividualisti che si era e come vorrebbero che fossi: mors tua vita mea, competere non cooperare. Ritrovarsi in un destino comune, anche se solo temporaneo. Con gente che altrimenti avresti incontrato mai, con la quale mai avresti pensato di dover, poter, condividere alcunché. Il siciliano e quello della Valsugana, l’umbro e il leccese, quello che rientra dal laboratorio genetico di Londra e quello del Rione Sanità. Il musicista e l’impiegato di banca, lo studente e il figlio del contadino lucano, lo stronzo e il simpatico. E dove tutto quello che hai alle spalle non conta nulla, e tocca remare: siete nella stessa barca, branda, taverna, camera di punizione, guardia alla polveriera, mangiate lo stesso rancio, condividete frustrazioni, attese e resistenze. L’uguaglianza sociale sta lì e si rivela ottima cosa. Stai lì per la collettività.

Dice che oggi l’esercizio delle armi è a livelli tecnologici tali che in otto o 10 mesi non si combina nulla. A parte il fatto che non è vero e che le tecnologie militari e militariste sarebbe bene riconvertirle, anziché misurare l’angolo di impatto del missile sulla base del frattale che si aggira tra il tuo schermo e il satellite, o piuttosto che bardarti di macchinari con cui colpire quella che sembra una famiglia al matrimonio, ma è un’accolita di terroristi, sarebbe bene imparare come intervenire su un argine rotto dall’esondazione. Su un terremoto.

Esercito di popolo

Un esercito di popolo non sarebbe neanche quello che abbiamo conosciuto nei decenni del dopoguerra, sempre intriso di quell’impostazione gerarchica senza basi valoriali civiche e consenso legittimante. Noi di Lotta Continua, con l’organizzazione “Proletari in divisa”, ci impegnammo a fondo negli anni ’70 per strappare alla politica e all’apparato militare sclerotizzato su concetti addirittura pre-napoleonici, il diritto a spazi democratici e di autodeterminazione dei soldati. L’idea, da riproporre oggi per un’eventuale nuova leva, militare o civile, è quella dell’intima connessione tra forze armate e società civile, territorio, istanze e bisogni popolari. Un esercito scuola di costruzione della democrazia a partire dai suoi cittadini organizzati in servizio di leva, dalla compartecipazione di militari, comandi e politica nelle decisione riguardanti attività di difesa e di intervento nelle problematiche nazionali, nell’assoluto rispetto dell’art.11 della Costituzione. Per cui missioni all’estero, che non siano per aiutare a estrarre persone da sotto le macerie del terremoto in Iran o nelle Filippine, neanche a sognarle.

Io che, per i casi della vita, avevo colorature e marcature tedesche profonde, da militare ho scoperto gli italiani e mi sono scoperto uno di loro. A livello personale avevo fatto come Garibaldi, l’unità d’Italia. E non salti ora fuori il solito rampognoso a parlarmi delle nequizie dei garibaldini, del Mazzini e del Garibaldi massoni (altra massoneria quella), magari pagati dagli inglesi (e bene fecero), dei Savoia chiaviche colonialiste, dei briganti del Sud e degli ottimi Borbone. Tutto giusto, ma l’unità d’Italia andava fatta, storicamente, moralmente, politicamente, economicamente, culturalmente. Lo chiedeva la sua lingua. L’avevano chiesto Dante e Leopardi. L’hanno chiesta quelli della repubbliche insorte da Roma a Napoli a Milano, a Venezia. E chiedono di conservarla, mantenerla, coltivarne le radici, senza le quali non si hanno fioriture e passa il glifosato mondialista. Quello che non fa prigionieri.

Un tempo la battaglia per l’esercito di popolo e contro il mercenariato dei professionisti la combattevano quelli che la pensavano come il mio compagno carrista Marcello. Quelli che sono contro l’esercito di popolo sono anche quelli che inneggiano alla cessione della sovranità di popolo a Juncker e a Draghi. Diceva Calamandrei, oggi ricordato dal “Fatto Quotidiano”: “L’esercito di popolo, questo è Garibaldi”. La cui rivoluzione non poteva essere un pranzo di gala. Poteva essere fatta meglio. Come ogni cosa. Ma guai se non ci fosse stata.

 

Fulvio Grimaldi

Fonte: http://fulviogrimaldi.blogspot.com

Link: http://fulviogrimaldi.blogspot.com/2018/08/sulla-diatriba-leva-si-leva-no.html

14.08.2018

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