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La Redazione

 

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NUOVI E VECCHI GIOCHI DI POTERE

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A cura di supervice
Il 27 Luglio 2011
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Postato da GioCo

Mi diletto a volte a vedere come la penserei nel sostuirmi al mio prossimo, per capire il suo punto di vista: un gioco interessante e istruttivo, soprattutto se si pratica nel tentativo di capire colui o coloro che almeno in via teorica osteggiamo. Spesso, se si è veramente onesti con sé stessi, si finisce con lo scoprire con sconcerto che le posizioni che ci parevano così opposte e distanti dalle nostre, non sono ne opposte ne distanti, solo diverse. Diversità di vedute dunque, dovute più che altro al ruolo sociale che il destino ci ha riservato. Chi sono i potenti oggi? Che differenza hanno i potenti moderni da quelli del passato?
Rimane evidente come i regnanti del passato non avevano alcuna necessità di rendere occulto l’esercizio del potere: anzi, era loro premura far si che la loro immagine fosse radicalmente “il” potere, con la P maiuscola, con ogni mezzo possibile. Da ciò deriva gran parte della cultura moderna, come ben evidenziato dall’etimologia, cioè dalla storia della comunicazione: un piccolo esempio lo possiamo trovare nella parola “principale” o “principio”, che deriva da principe, il primogenito della coppia reale, per definizione quindi “il più importante”.

Facilmente si può anche notare come “il principe” o “la principessa” è spesso un protagonista per una favola. Oggi i regnanti sono molto più discreti anche se i loro giochi di potere non sono più evidenti di prima: è la loro immagine che viene incensata pubblicamente molto più di rado e senza l’ostentazione del passato, se non in casi particolari (come per il principe William ad esempio, o con la recente vicenda Rockefeller).
Questo è un evidente prodotto della cultura britannico/angolosassone moderna che per rimanere fortemente classista ha provato (e di fatto è riuscita) a ridefinire i contorni dell’immagine del potere secondo nuovi paradigmi.

Il problema che si poneva ai nuovi regnanti dell’inizio dell’era industriale, era un cambio di sfruttamento: l’asse dell’interesse principale del potere cambiò dall’amministrazione della terra, cosa concreta e misurabile, al dominio della coscienza sull’individuo. Dato che il vecchio potere temporale e spirituale era legato alla terra, ciò implicitamente avrebbe anche spostato l’asse del potere stesso verso altre mani. Doveva quindi essere preservato il preservabile e contemporaneamente dovevano essere istituite una serie di nuovi strumenti organizzativi e sociali più adatti al nuovo genere di sfruttamento.

Contrariamente a come viene spesso detto, quello fu l’inizio della massima esacerbazione dell’idea classista. Non è mai stata in discussione infatti l’appartenenza o meno alla classe di potere, ma la discendenza: è noto ieri come oggi che, se nasci in certi ambienti, ne fai parte, altrimenti entrarne a far parte è come per Gilgamesh pretendere di diventare un Dio, cioè devi partire con delle possibilità minime, sarai costretto a fare tante scelte sgradevoli e alla fine quasi certamente fallirai.
Tra l’altro l’affinità tra potere e divino non l’accenno in modo causale, anche se ci vorrebbe ben altro che questo povero articolo per parlarne in modo adeguato. Ammesso che io sia il più ideneo a farlo ovviamente.

Dicevamo quindi che l’asse del potere si spostò dalla terra alla persona. Dall’appezzamento di terreno che Dio assegnava all’uomo affinché gli donasse nutrimento, alla fabbrica che chiedeva braccia in cambio di denaro. Se prima quindi il potere ruotava attorno alla chiesa e al Castello del Signore che per tramite e concessione divina amministrava la terra, dopo ruotava attorno alla corporazione, o “società” intesa in senso industriale (chiaro sintomo di come fin dagli inizi la politica, l’economia e la società in genere non stava riproponendo nulla di nuovo) e per concessione economica amministrava le persone.
Per ciò se da un lato il vero campo di battaglia (la coscienza, cioè cosa noi intendiamo per “realtà” e cosa noi percepiamo come “vero/falso” di quella realtà) non è mai cambiato, dall’altro il classismo ha fatto un balzo evolutivo ed è divenuto “affermazione imperativa unilaterale”, legandosi alla scienza di Darwin per darsi delle basi razionali forti e “non criticabili”, identicamente a come lo erano le attribuzioni divine della precedente generazione di potere.

Grazie all’intervento inglese (che storicamente vedeva convergere i suoi interessi con quelli della nuova forma di potere) e sotto l’attenta direzione di maestri delle arti dell’inganno, la plebe (vera e unica forza del potere da sempre) fu indottrinata affinché sostenesse con entusiasmo i nuovi strumenti, dando una spallata a quelli vecchi. L’economia divenne quindi più importante della fede. Falsi miti, come “l’uomo da strada che si fa da sé” furono diffusi con grande successo, contribuendo a sostenere i vecchi modelli, che erano garantiti dal fatto che i nuovi strumenti di potere rimanevano saldamente in mano alle famiglie dominanti.
Nuovi concetti, come “legalità”, “fraternità” e “uguaglianza” venivano indotti parallelamente al concetto di “civiltà” e “supremazia”, cioè inducendo le persone a credere che questi valori davano “diritti”, esattamente come “il volere divino” per un fedele. Diritti che per ricaduta rendevano “superiore” l’uomo civile dall’uomo estraneo ai canoni della civiltà.

Così le guerre di liberazione dalla schiavitù costituirono la base strategica e motivazionale per quelle coloniali espansioniste che, come in Europa accadeva per il “potere reale”, eliminavano solo formalmente la schiavitù per introdurre il concetto di supremazia occidentale. Ma veniamo ora al giochino di cui accennavo all’inizio di questo veloce trattato. Cosa accade se provo a sostituirmi al potente? Come vivrei dal suo punto di vista queste trasformazioni, sociali, economiche e civili?
Ripartiamo da un cencetto sociale semplice: il rapporto che l’individuo ha con il potere. Il potere è di fatto “il controllo delle possibilità da parte di un individuo per nome e per conto del resto della collettività”. So che non è una definizione che troverete sulla Treccani, ma aiuta i miei scopi e credo sia facilmente condivisibile. Per poter esercitare quindi il potere abbiamo bisogno di almeno due cose: il consenso della comunità e il controllo della possibilità. Se vuoi coltivare un terreno per sfamarti, il terreno non ti chiede il consenso: semplicemente la vita su di esso si opporrà ai tuoi sforzi nella misura in cui potrà profittare della tua opera e cederà nutrimento nella misura in cui subirà quegli stessi sforzi.
Ma se quel terreno è amministrato da un Re che per mandato divino “ti può concedere di coltivarlo oppure no”, o è “di proprietà di qualcuno” che ti può dare la stessa concessione, dovrai prima chiedere un permesso.

Abbiamo allora una struttura del potere di tipo verticale incatenata all’attributo di classe che ne suggelli “il diritto” come per tutte le organizzazioni verticali, cioè strutturate su un principio ereditario ed evolutivo. Le organizzazioni verticali non sono le sole possibili, le reti sono esempi di organizzazioni planari. Ma le reti non hanno bisogno di identificare un vertice, di demandare, cioè di concedere qualcosa a qualcuno.
Per capirci meglio: se colgo un frutto di una pianta selvatica di un terreno demaniale, opero a livello di rete; se colgo lo stesso frutto sullo stesso terreno e per la stessa pianta, ma ho la concessione di una legge speciale che mi da il diritto di farlo, opero a livello di classe e per ciò “mi distinguo” da chi non può farlo. Da ciò discende tutta una serie di ricadute, tra cui quella di dover “difendere” questo mio diritto da chi “non vuole accettare” la legge.

Dato che chi gestisce il potere ha ben presente questi limiti, sa perfettamente che può perdere il potere in qualsiasi momento e per ciò è coerentemente spaventato da questa possibilità. Per questo è logico che “difenda” con maggior vigore il suo diritto e tenda a indottrinare tutti perché facciano la stessa cosa. Supponendo che non esista l’umano che persegua il proprio male e il male della propria specie, se non per un fine superiore o per completa perdita del senno e sapendo che i potenti non sono né alieni né senza senno (almeno per ciò che ci è dato sapere), è sensato dire che, dal momento in cui l’esercizio del potere ha interessato la persona, il progetto per una umanità nuova e migliore sia diventato centrale.
Cioè “possibile”, là dove prima, con la terra e la fede era più difficile, perché non era richiesto di “modellare continuamente il comportamento della persona” per esercitare il potere, era sufficiente tenere la massa in uno stato di incoscienza culturale. In questo senso lo sforzo nell’esercizio del potere era minimo, ma anche meno appagante. Oggi quindi il potente si trova di fronte a un bivio paradossale: per la necessità intriseca di dover conservare il potere è per lui vitale che certi concetti, come civiltà, diritti, giustizia, rimangano intatti il più possibile nella coscienza collettiva, ma dall’altro il suo stesso esistere mette continuamente a rischio questo indottrinamento.

Al contempo si creano due forze di consenso umano, una che spinge il potente ad atti efferati e di sfruttamento verso un altra parte d’umanità, per conservare quei diritti di classe che egli stesso non può negare a sé stesso, mentre l’altra è quella umanità che invece subisce e che vorrebbe la fine del proprio sfruttamento. A questo quadro si aggiunge una complicazione. Il potente che volesse la fine dello sfruttamento per un ipotetico “guizzo d’umanità”, oltre a perdere il proprio potere e a correre il rischio di venire emarginato, finirebbe per ledere i diritti (a cascata) di tutti i suoi “dipendenti”, suscitandone le ire.
In altre parole diverrebbe martire, ma senza alcuna possibilità di riscatto perché verrebbe ricordato per i diritti che ha negato alla società che lo riconosceva detentore del suo potere e non per l’umanità “esterna” che salvato.

Tuttavia nessuno può essere contento di esercitare un potere così orrendo a lungo. Fosse anche soltanto per l’idea che possiamo avere di noi stessi a livello incosciente, senza un necessario riscatto, anche molto improbabile, anche futuro, anche rischioso. L’idea ad esempio di creare una società nuova, in cui nell’esercizio del potere non sia più necessario sfruttare l’umanità, né indottrinare, perché di nuovo sarà una divisione di classe rigida, tra dominanti e dominati a garantire il potere.
Solo che non sarà più il divino il sigillo di questa divisione, ma la tecnologia. Per cui il potente non avrà più bisogno degli inutili orpelli del diritto, gli basterà un bottone per avere tutto il consenso che gli serve. Non solo, il potente a questo punto, tramite un logico passaggio, diverrà il dispensatore di ogni bene, il distributore di grazia e abbondanza e il garante che il passato (cioé l’attuale caotico mondo basato sul denaro e la corruzione) non sarà mai più.

Chiaro che una simile prospettiva può (in potenza) sedurre ogni potente o quantomeno garantirsi un ferreo e perdurevole appoggio da parte di chi ha potere, ed è chiaro come una simile prospettiva richiami una profusione di risorse per la sua realizzazione quali mai sono stati visti prima. Ma è anche chiaro che una prospettiva di medioevo tecnologico come questo apre scenari più inquietanti di quelli che può chiudere.
Non ultimo la guerra che potrebbe scoppiare tra chi può legittimamente aspirare a diventare il novello Dio, cioè entrare nella stanza dei futuri bottoni. E’ chiaro inoltre a chi (come me) può solo osservare e disquisire sul tragico destino umano, finché gli sarà dato possibile farlo, che non c’è una opposizione a tutto questo.
Manca proprio nella sostanza una alternativa, accettabile, sostenibile o anche solo sensata. E’ chiaro, ad esempio, come le migliori risposte che l’attuale ingengno sociale ha prodotto, sicuramente lodevoli, nuove e di grandissimo interesse, appaiano assurde se messe di fronte al problema del consenso: i potenti andranno a bussare alla porta di ogni casa per garantirsi il futuro che hanno disegnato per sé stessi.

Tuttavia una lotta pacifica, come una lotta armata appaiono identicamente sensa senso, la prima perché non avrebbe fine, la seconda perché non avrebbe mezzi. Forse una resistenza attiva, fatta di dissenso e diffusione di cultura, che si ponga degli obbiettivi a lungo termine, come la rinuncia a ogni forma di gerarchia nelle strutture di potere e il libero accesso alle risorse, risolvendo il problema della competizione con l’abbondanza, ci fornisce una parziale risposta.

Rimane che su questo pianeta siamo sei miliardi e che se domani i cinesi dovessero cambiare abitudini, per assurdo tutti assieme e pretendere d’usare la carta igenica per andare in gabinetto, la foresta amazzonica sparirebbe in brevissimo tempo. Per ciò non è possibile garantire a tutti abbondanza senza abbassare drasticamente il numero di persone che abitano questo pianeta che, per quando sia grande non è “infinito”. Questo triste discorso, crudo ma vero, apre purtroppo altri scenari orrendi, come scegliere tra annientare una parte di popolazione umana o continuare a sfruttarne una parte come ora, il tutto per mezzo di guerre, devastazioni, malattie e moderna schiavitù economica.
Niente di più cioè di quanto stanno mettendo in opera i dominanti. Voglio concludere con un piccolo e semplice esercizio profetico, che invero ho in mente da tempo: la fine della presente era “economica” e l’inizio del nuovo medioevo tecnologico arriverà con un apparecchio tecnologico salutato (forse) dalla maggioranza come la più grande delle invenzioni umane. Un apparecchio in grado di fare una cosa molto semplice: istruire, cioè copiare nella mente delle persone “le istruzioni” circa qualunque sapienza umana.

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