DI ALCESTE
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Un tratto del carattere che può chiamarsi nobilmente caparbietà, fede, resilienza, ostinazione, purezza.
Ah, quante volte avrei potuto approfittare delle mollezze del presente!
Molte volte.
La vita si schiudeva piana; bastava dire “sì” e avrei ereditato la carriera facile, il posto immacolato e, soprattutto, il dolce sopore del conformismo – quel conformismo che, ricordiamolo, è una droga. Il conformismo rilascia nel corpo, lentamente, sostanze moralmente emollienti; si insinua nelle fibre migliori; scava negli anfratti più riposti.
Il conformista passeggia sicuro, il disprezzo già pronto sullo scaffale dell’ovvio, i giudizi che scivolano sulla vaselina della maggioranza; i conformisti entrano nella vita, come direbbe Gadda, a culo indietro, sempre sul velluto. La mediocrità gli si confà mirabilmente.Sì, i conformisti sono mediocri. Non di quella mediocrità aurea formata dalla tradizione; no, è una mediocrità che riposa su poche parole d’ordine forgiate dal potere. L’Italia è stata distrutta da tale mediocrità; persino in ambiti in cui deve naturalmente rifuggire, essa impera. Il mediocre lo si riconosce subito: spesso è un tecnico. Il tecnico cerca di stupire o, addirittura, di umiliare l’interlocutore grattando il barattolo della competenza; poi, adescato verso pur minuscoli settori della vera conoscenza, crolla miseramente: preti che ignorano la resurrezione della carne, avvocati edaci che spalancano gli occhi di fronte a una citazione di Ulpiano, architetti e geometri all’oscuro di Arnolfo di Cambio, studenti liceali, benché cresciutelli, con una contezza assai stenta del concetto di sillogismo (“Il sillogismo è quando le cose si scambiano fra di loro”).
La mediocrità dei fanti a Gallipoli o a Verdun è altro: lì vige l’uniformità di uno schema educativo, pur spietato e crudelissimo; la mediocrità di un professionista italiano agli albori del 2020 è, invece, un largo analfabetismo di sé stessi, dei luoghi in cui si vive, di ciò che ci ha preceduti.
Sì, il conformista nasce ieri, Alceste almeno tremila anni fa.
Il mediocre cicala di frattali e logica fuzzy sbagliando le “h”; il sottoscritto conosce a menadito il punk hardcore americano, il cinema muto di Harold Lloyd e la tecnica della pittura grassa, oltre a varie questioncelle che ineriscono la sua vita, sempre più meschina.
Holmes riscosse, infatti, un successo irrefrenabile. Ignorava l’eliocentrismo, ma estendeva trattatelli minuziosi sui residui della cenere di tabacco.
Egli era efficace, ma non intelligente. Come gli Inglesi del nuovo conio e i loro derivati antropologici, insomma, pragmatici e ottusi, inarrestabili e inutilmente produttivi.
Il padre, riunita la famiglia, trae alcuni simulacri di colomba, intagliati, pazientemente, nel legno odoroso, con amore e reverenza. Li pone su alte pertiche che, a loro volta, vengono infitte nel terreno attorno la casa. Questo popolo di uccelli immaginari, mansueti e pii, immobili come lari benigni, si staglia, allora, contro i cieli chiarissimi dell’Italia medioevale; ognuno, madre, figli, nipoti, antenati, osservano tali creature con occhio fermo e fede invincibile, gravidi d’una speranza che è inavvertita poiché naturale e sorgiva: quelle colombe, infatti, “indicano la strada di casa a coloro che sono morti lontano”.
Solo Pupi Avati, nel misconosciuto Magnificat (1993), ha reso gloria a questa tradizione.
Jaufré Rudel sente parlare di Melisenda, principessa di Tripoli. Benché Melisenda sia solo un’immagine remota, se ne innamora, per le virtù e la bellezza che i molti pellegrini testimoniano di lei. Jaufré sacrifica sé stesso, si mette in viaggio come crociato. Forse compone poesie: le sei che ci sono rimaste. In mare, però, si ammala gravemente e viene trasportato in Africa, agonizzante; supplica Dio di tenerlo in vita solo per vederla, per vedere lei, Melisenda. Dio esaudisce il desiderio: muore fra le sue braccia. La principessa tumula l’amante con ogni onore, piangendo, e lo stesso giorno “per il fortissimo dolore che ebbe dalla morte di lui”, si ritira dal secolo, presso un convento.
Questi miracoli, impossibili eppure reali, non sono credenze medioevali bensì manifestazioni dell’uomo, ripiene di una forza pura, infinita. Infinito è, infatti, il groviglio di sentimenti che qui si attorcono assieme, ricco come un tesoro che non riusciamo a quantificare. La quantità, lo sappiamo, uccide, rende poveri, meschini, non umani. Lo sapeva pure Catullo che non voleva che gli altri, gli invidiosi, i meschini, contassero i baci rivolti a Lesbia:
dammene altri mille e ancora cento,
sempre, sempre mille e ancora cento.
E quando alla fine saranno migliaia
per scordare tutto ne imbroglieremo il conto,
perché nessuno possa stringere in malie
un numero di baci così grande”.Il Regno della Quantità! Chi ne parla più oramai?
Io vi capisco; vi capisco tutti. Non è facile lasciar filtrare i bagliori di questi mondi, abituati come siete al dileggio, al cinismo, alla provocazione grossolana, alla faciloneria, all’insulto stupido, gratuito. Eppure: così eravamo. Lo siamo stati per millenni. Ritengo impossibile, per una questione di pura entropia, riuscire a invertire la deriva psicologica che il Potere ha progettato per noi. E tuttavia non si riesce a mollare la speranza di rinascere, nemmeno in assenza di tradizione; e in presenza del Nulla. Come fece l’imberbe costruttore di campane in Andrej Rublëv, contro tutti, contro il destino, il conformismo, la tentazione di cedere, la volgare e piacevole rassegnazione. La campana, forgiata ex novo, fondando ex novo una volontà, risuonò perfettamente, di una perfezione inaudita, incredibile.
Di tutto il ciarpame che ingombra l’attualità, migrantismo, ecologismo da multinazionale, femminicidio, omofilia, evasione fiscale, dittature antidemocratiche, i morti in mare, l’egalitarismo, la scuola aperta, la coppia aperta, i figli in comodato d’uso, i panda in pericolo – di tutto me ne frego.
Alceste
Fonte: http://alcesteilblog.blogspot.com
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11.10.2019