Ecco perché Sherlock Holmes non è mai stato considerato un teorico della cospirazione (come, del resto, non dovrebbero esserlo i media alternativi)

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ROBERT BRIDGE
strategic-culture.org

Rimane difficile capire come mai lo scrittore scozzese Arthur Conan Doyle sia oggi ancora così popolare con le avventure del suo famoso detective, mentre ogni pensiero critico che contraddica lo status quo viene liquidato senza troppi complimenti, alla stregua della sfuriata di un pazzo.

In altre parole, al giorno d’oggi, sarebbe stato praticamente impossibile per Sherlock Holmes risolvere molti dei suoi casi, data la propensione dei padroni del vapore ad urlare ‘teoria della cospirazione’ ogni volta che di qualche fatto emerge una spiegazione che si discosta dalla narrativa ufficiale.

Prendete in considerazione il romanzo ‘L’avventura degli uomini danzanti’, pubblicato nel 1903. Qui abbiamo uno dei rari casi in cui uno dei clienti di Holmes riesce a farsi uccidere prima che il famoso detective riesca a risolvere il mistero.

La vittima, Hilton Cubitt, aveva ingaggiato Holmes dopo aver ricevuto un certo numero di strane lettere, dove erano disegnate delle figure stilizzate in varie posizioni, alla maniera dei geroglifici. Veniamo anche informati che Cubitt si era appena sposato con un’Americana, che aveva insistito sul fatto che suo marito non avrebbe mai dovuto indagare sul suo passato che, aveva detto, comprendeva alcune “sgradevoli compagnie”.

Un giorno, Holmes era stato informato che Cubitt era stato trovato morto con una pallottola nel cuore, mentre la moglie, che giaceva al suo fianco, presentava una ferita da arma da fuoco alla testa. La polizia era accorsa sul luogo del delitto ed aveva rapidamente concluso che Cubitt era stato ucciso dalla moglie, che poi aveva rivolto l’arma contro di sé. Un diverbio fra amanti, caso chiuso.

Non così in fretta, aveva detto Holmes, che era riuscito a decifrare il codice delle lettere, scoprendo che l’autore si era servito, nel comporle, di un ingegnoso sistema di cifratura. [Holmes] era poi riuscito a convincere le autorità locali a predisporre una trappola, con l’intento di catturare il vero colpevole. A questo punto, il detective, usando il medesimo cifrario, aveva inviato una lettera al sospettato, un Americano, che aveva creduto che la lettera spedita da Holmes provenisse dalla moglie di Cubitt. Non svelerò ulteriormente la trama perché la cosa che qui interessa è il fatto che ad Holmes fosse stato concesso di seguire un percorso investigativo che contraddiceva in pieno l’interpretazione dei fatti della polizia intervenuta sulla scena. In altre parole, Holmes non era stato messo da parte alla stregua di un pericoloso ciarlatano. Al contrario, gli era stata data l’opportunità di esporre le prove e di perorare il suo caso.

Ciò che era in gioco, in questo caso, era qualcosa di più della sola verità. Era in gioco il destino della moglie di Cubitt, dal momento che era sopravvissuta alla ferita autoprocuratasi (e meno male che non volevo svelare la trama…) e avrebbe passato un lungo periodo in prigione, se non fosse stato per il famoso investigatore e le sue capacità di osservazione e di analisi.

E’ importante non dimenticare che i criminali, proprio a causa della natura del loro lavoro, cercano ovviamente di coprire le proprie le tracce, dal momento che lo sfuggire alla cattura è una parte importante di ogni crimine. Questo fa sì che un investigatore debba pensare come un criminale e, possibilmente, dilettarsi con ipotesi apparentemente inverosimili, per rispondere alla domanda: ‘chi lo ha fatto?’

Che cos’è questa se non democrazia in azione e libertà di parola, il diritto ad un giusto processo e non a quello che vi hanno affibbiato? Quale persona ingiustamente accusata, che langue dietro alle sbarre di una prigione, non vorrebbe qualche ‘teorico della cospirazione’ piantagrane che andasse alla ricerca di quella sfuggente verità che potrebbe riabilitarla?

Ai tempi di Conan Doyle, l’idea che certe ipotesi riguardo ad un crimine fossero troppo estreme per essere prese in considerazione (fintanto che avessero retto ad una analisi rigorosa), era non solo inconcepibile, ma avrebbe ispirato anche un romanzo veramente scadente. E, dal momento che, attualmente, molto poco separa il compito di un detective della polizia da quello di un giornalista investigativo (che, in pratica, è arrivare alla verità) dobbiamo chiederci come mai i secondi siano così determinati a non prendere in considerazione narrative alternative a quelle che poi  propinano al pubblico, tutti quanti all’unisono.

Se i media tradizionali si preoccupassero anche solo minimamente di rivelare la verità su ogni caso particolare, dovrebbero accettare la pluralità delle voci e passare al setaccio i fatti per trovare le pepite d’oro. Se una particolare teoria non regge all’analisi, verrebbe, nel libero mercato delle idee, gettata via come una pietra senza valore. Per come stanno le cose, tuttavia, i media non solo eliminano tutte le visioni alternative, ma hanno pochi (se non nessuno) “giornalisti investigativi” alle loro dipendenze autorizzati a sfidare seriamente la narrativa autorizzata dallo stato. In effetti, gran parte dei “reportages investigativi” arriva sulla scena molto tempo dopo, quando il danno è ormai fatto.

Prendete in considerazione, per esempio, il preludio alla guerra in Iraq del 2003, quando il patriottismo cieco, per non parlare dell’opportunismo politico, era a livelli tossici. Dove erano i media allora? Erano tutti in fila a battere le mani e a prostituirsi per qualche lancio di missili cruise, mentre screditavano i ‘dissidenti’ peggio che se fossero stati delle “scimmie francesi mangiaformaggio e cacasotto appartenenti all’Asse di Furbetti.” Se si volesse avere un quadro reale dei “teorici della cospirazione” che inquinano il flusso mediatico, non si potrebbe fare nulla di peggio di quel patetico esercizio di auto-illusione e di inganno.

Solo dopo aver tenuto Bagdad per 24 ore sotto i bombardamenti, con gli ispettori dell’ONU sul terreno che gridavano di non riuscire a trovare nessuna prova delle armi di distruzione di massa, i media avevano iniziato ad avanzare l’ipotesi che le cose non fossero proprio come si voleva farle credere.

Michel Massing, scrivendo su The New York Review of Books aveva denunciato i media per la loro patetica e tardiva gestione della guerra:

“Negli ultimi mesi, le organizzazioni giornalistiche statunitensi si erano affrettate a denunciare i fallimenti prebellici dell’amministrazione Bush in Iraq. “L’arsenale iracheno era solo sulla carta“, aveva dichiarato recentemente un titolo sul Washington Post. “La pressione aumenta per l’inchiesta del Prewar-Intelligence [Committee]”, aveva scritto il Wall Street Journal. “Allora, cos’è che è andato storto?” Si era chiesto il Time. Sul New Yorker, Seymour Hersh aveva raccontato come il Pentagono avesse creato una propria unità di intelligence, l’Office of Special Plans, per setacciare dati che sostenessero le affermazioni dell’amministrazione sull’Iraq … “

“Guardando e leggendo tutto questo, saremmo tentati di chiederci: ma dove eravate tutti prima della guerra? Perchè non ne abbiamo saputo di più su questi imbrogli e su questi occultamenti nei mesi in cui l’amministrazione stava perorando la causa del cambio di regime, quando, in poche parole, avrebbero potuto fare la differenza?” Si era chiesto Massing.

L’entusiasmo dei media per la guerra in Iraq non aveva però ingannato il pubblico al punto da fargliela accettare a braccia aperte. Infatti [la gente] aveva fatto quello che avrebbero dovuto fare i media, farsi avanti in tutto il mondo, in numeri da record, per mettere in discussione quella spericolata corsa verso la guerra.

Patrick Tyler aveva scritto sul New York Times che le proteste avevano mostrato come al mondo esistessero “due superpotenze: gli Stati Uniti e l’opinione pubblica mondiale”. Sappiamo già quale delle due superpotenze è emersa trionfante, e questo grazie ai media, diventati cagnolini scodinzolanti del potere.

L’Iraq è stato solo l’inizio della perdita di reputazione da parte dei media. Fin dagli albori dell’era Internet e con l’ascesa dei ‘cittadini-giornalisti’, i mass media si sono dimostrati inestricabilmente legati, in numerose occasioni, alla narrativa approvata dallo stato, mentre una teoria del complotto dopo l’altra venivano date in pasto al pubblico, con la favola del Russiagate a fare da madre a tutte quante.

Intanto, in Siria ci manca solo un ulteriore attacco chimico perché si scateni un’altra enorme eruzione di violenza. Quello che è veramente inaccettabile riguardo a simili terribili prospettive è che i giornalisti occidentali (ancora una volta schieratisi dalla parte della macchina della guerra) non parlano mai degli attacchi chimici in Siria chiedendosi: chi ha i mezzi, i motivi e le opportunità per attuarli? La risposta è così semplice e ovvia che potrebbe essere data da un bambino.

Invece, i media vorrebbero che noi accettassimo la teoria del complotto secondo cui il Presidente siriano Bashar Assad, proprio all’apice della vittoria militare, avrebbe scelto, in quel preciso istante, di usare le armi chimiche contro una accozzaglia eterogenea di ribelli, rischiando così l’intervento degli Stati Uniti e la perdita di tutto.

Raramente, se non mai, i media mainstream occidentali hanno accennato alla molto più probabile eventualità che i ribelli, desiderosi di un intervento occidentale dopo le gravi sconfitte subite, sarebbero i candidati ideali per ricorrere a tali, primitivi metodi.

Posso solo immaginare che Arthur Conan Doyle, se oggi fosse ancora vivo, arrossirebbe per la vergogna alla vista dei “giornalisti investigativi” dei media mainstream, che, apparentemente, non solo non hanno imparato nulla dalla storia recente, piena com’è di inutili violenze e spargimenti di sangue, ma che non hanno neanche fatto tesoro delle esperienze di Sherlock Holmes.

Robert Bridge

Fonte: strategic-culture.org
Link: https://www.strategic-culture.org/news/2018/12/07/why-sherlock-holmes-was-never-considered-conspiracy-theorist.html
07.12.2018
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

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