All’estero sta incontrando un entusiasmo sempre più crescente la terapia con larve di mosca verde (lucilia sericata) utilizzata come cura in diversi ambulatori e anche ospedali (soprattutto inglesi e tedeschi) in caso di ferite necrotiche e infette come, ad esempio, ulcere del piede diabetico, ulcere da decubito, da stasi venosa e ustioni che non rimarginano. È stato il quotidiano britannico The Guardian, recentemente, a puntare i riflettori su questo trattamento (noto anche come “terapia larvale”, “terapia di sbrigliamento dei vermi” o “biochirurgia”) che in realtà, però, non è affatto nuovo, dal momento che ha una storia antica che risale agli inizi della civiltà.
Si sa, ad esempio, che i guaritori Maya dell’America Centrale inzuppavano le medicazioni nel sangue del bestiame e le esponevano al sole prima di applicarle su determinate lesioni, aspettando che le medicazioni si contorcessero di vermi. Anche la tribù aborigena Ngemba del Nuovo Galles del Sud e il popolo delle colline del Myanma settentrionale (Birmania) vi hanno fatto ricorso per la cura delle ferite lente a guarire.
Alla fine del 1500 il chirurgo francese Ambroise Pare fu il primo medico a notare l’effetto benefico delle larve di mosca (nello specifico il caso riguardò una profonda ferita alla testa di un suo paziente che si riprese totalmente, dopo che ne uscirono fuori numerosi vermi) e un altro chirurgo francese, il barone Dominique‐Jean Larrey, curando i feriti dell’esercito di Napoleone durante la spedizione egiziana in Siria, osservò che i vermi della “mosca blu” rimuovevano solo i tessuti morti e avevano un effetto positivo sul restante tessuto sano.
In America, invece, tra l’inizio del 1800 e l’inizio del 1900 vari chirurghi militari hanno assistito agli effetti trasformativi positivi che le larve riuscivano ad avere sulle ferite dei soldati, ma si deve arrivare alla guerra civile americana del XIX secolo per avere il primo uso ufficialmente documentato in medicina delle larve di mosca sulle ferite e lo si deve al chirurgo militare John Forney Zacharias. Successivamente, durante la prima guerra mondiale, quando la mortalità per ferite aperte era aumentata del 70%, un altro chirurgo militare, William S Baer, curò fratture aperte e ferite allo stomaco con i vermi di mosca e nel 1929, quando fu nominato Professore di Chirurgia Ortopedica presso la Johns Hopkins University, Baer ricordò le sue esperienze sul campo utilizzandole di nuovo: scelse 21 pazienti con trattamento primario fallito per l’osteomielite, espose le ferite alle larve di mosca e, 2 mesi dopo l’inizio del trattamento, scoprì che tutte le lesioni erano guarite.
La terapia larvale divenne, da lì in poi, la modalità di trattamento più rapida e di maggior successo per l’osteomielite cronica. Baer, inoltre, lavorò per creare mosche specifiche per l’uso in terapia, soprattutto sviluppò una serie di metodi diversi per sterilizzare le uova e, da quel momento in poi, la “terapia dei vermi” conobbe un vero e proprio boom: tra il 1930 e il 1940 più di 300 ospedali statunitensi introdussero le larve nel loro programma di guarigione delle ferite e in questo periodo apparvero più di 100 pubblicazioni scientifiche a riguardo.
A un certo punto, tuttavia, con l’avvento degli antibiotici nella prima metà degli anni ’40 (la penicillina è stata prodotta industrialmente a partire dal 1944) e lo sviluppo di nuovi antisettici, c’è stato un rapido declino dell’uso della terapia larvale e, ad eccezione di sporadiche pubblicazioni di casi disperati in cui l’uso di larve di mosca ha avuto successo, l’interesse accademico è andato perdendosi per poi rifiorire, dopo circa 50 anni di oblio, negli Stati Uniti grazie a Ronald Sherman e Edward Pechter e, quasi in contemporanea, nel Regno Unito ad opera di John Church, un chirurgo ortopedico in pensione che, con Stephen Thomas, ha fondato “l’Unità di ricerca biochirurgica” a Bridgend, nel Galles meridionale che, dal 1995, distribuisce larve sterili ad aziende tedesche e belghe che le commerciano poi in tutta l’Europa centrale.
Dal 1996, addirittura, si tiene un incontro mondiale annuale sulla terapia larvale o biochirurgia che è chiamato Conferenza Internazionale sulla Bioterapia ed è organizzato dalla Società Internazionale di Bioterapia (IBS) ma, soprattutto in questi ultimi anni, in cui il fenomeno dell’antibiotico resistenza è sempre più preoccupante, questo trattamento è tornato in auge come risorsa valida ed efficace proprio là dove gli antibiotici hanno fallito.
A dire il vero, solo una minoranza delle circa 80.000 specie di mosche ha proprietà che ne consentono l’uso medico e, in particolare, quelle attualmente più utilizzate sono le larve della mosca verde, L sericata.
Le larve sono fatte schiudere in ambienti sterili in condizioni controllate e, una volta disinfettate, vengono inserite in sacchettini simili a quelli del the da posizionare sulle ferite per quattro giorni e che devono essere fermati con una benda adesiva. In sostanza la medicazione deve essere fissata con un cerotto traspirante per evitare la fuoriuscita delle larve e permettere al contempo il drenaggio del tessuto necrotico liquefatto e lo scambio gassoso di cui le larve hanno bisogno.
Una volta a contatto con la pelle, infatti, le larve si nutrono del tessuto morto che trovano nella carne infetta e di conseguenza dei batteri che vi proliferano, trasformano il tessuto in liquido e lo digeriscono lasciando intatte le cellule sane. Nel frattempo, secernono alcune sostanze che agiscono come cicatrizzanti e anche ammoniaca, facendo diventare le ferite più alcaline (il che, ritengono gli studiosi, contribuisce a inibire la crescita batterica).
Inizialmente le larve hanno le dimensioni di un chicco di riso crudo, ma in quattro giorni crescono di 10-12 mm. Non avendo denti né pungiglioni, però, non mordono e non si moltiplicano, non essendo ancora individui maturi. Si limitano a mangiare i tessuti necrotizzati, di conseguenza eliminano anche gli odori sgradevoli, riuscendo nel frattempo a guarire ulcere e ferite anche molto gravi.
L’utilità della terapia sbrigliante con larve è ben documentata nella letteratura scientifica. Dunque, siamo di fronte a un’alternativa reale che le strutture ospedaliere dovrebbero tenere in considerazione, a maggior ragione se si pensa alle conseguenze che possono derivare dalla mancata guarigione delle ferite croniche, ad esempio dolorosi interventi chirurgici di ripulitura delle lesioni e, in certi casi, addirittura amputazione. Dal punto di vista economico, inoltre, le ferite infette rappresentano una spesa non indifferente per i sistemi sanitari.
Si tratta, quindi, di superare l’iniziale disgusto (da parte dei pazienti) e di acquisire maggiore familiarità con questo metodo di trattamento (da parte degli operatori sanitari). Infatti, si sta parlando pur sempre di un atto medico che richiede particolari accortezze e cautele, ad esempio, evitare di posizionare le larve vicino agli occhi, alle vie superiori del tratto gastrointestinale o respiratorio. Inoltre, la terapia larvale non è indicata in caso di ferite con vasi sanguigni esposti eventualmente connessi a organi vitali profondi e occorre prestare attenzione in modo da evitare che le ferite si chiudano al di sopra delle larve.
In ogni caso, una volta che il personale è adeguatamente informato, vari ricercatori concordano sul fatto che la terapia larvale può essere eseguita facilmente e rapidamente in modo sicuro e conveniente.
Di fronte alla crescente resistenza agli antibiotici, alle infezioni croniche, alle malattie immunosoppressive e al diabete, questo antico rimedio potrebbe essere davvero un’arma formidabile. Secondo alcuni autori, persino contro i casi difficili di Staphylococcus Aureus resistente alla meticillina.
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VB