DI WALDEN BELLO
Mentre continuano ad esserci delle accuse attendibili di
brogli, soprattutto nel conteggio dei voti nello stato di Ohio, la maggior
parte degli Stati Uniti, compreso il Partito Democratico, ha riconosciuto
il fatto che George W. Bush è stato ri-eletto presidente con un margine di
vittoria di 3,5 milioni su John Kerry
Blocco Egemonico?
La terribile verità, comunque, è che la vittoria Repubblicana,
anche se non sbilanciata, è stata solida. Un’ulteriore fase delle
rivoluzione politica iniziata da Ronald Reagan nel 1980, le elezioni del
2004 hanno confermato che il centro di gravità della politica statunitense
sta, non nel centro-destra, ma nell’estrema destra. Certo è vero che il
paese è diviso in modo uniforme, ed anche in modo profondo. Però è la
Destra Repubblicana che è riuscita ad offrire una visione irresistibile
per la sua base ed a modellare e mettere in opera una strategia che ha lo
scopo di guadagnarsi il potere a tutti i livelli dell’arena elettorale,
nella società civile e nei media. Mentre i liberali ed i progressisti si
sono impappinati, la Destra Radicale ha unito con una visione
assolutamente semplice le varie componenti della sua base: il Sud e
Sudovest, la maggioranza dei maschi bianchi, i ceti alti e medi che hanno
tratto vantaggio dalla rivoluzione economica neoliberale, l’America
aziendale e gli integralisti cristiani. Questa visione è essenzialmente
subliminale, di un paese indebolito dall’interno da un’alleanza di
liberali a favore di un governo forte, di gay e lesbiche promiscui e di
immigranti clandestini, ed assediato dall’esterno dalle orde piene di
odio, provenenti dal Terzo Mondo e dagli europei fiacchi, invidiosi della
prosperità e del potere americano.
Ci sono, in effetti, due
Americhe, ma una è confusa e disorganizzata, invece l’altra fa trasudare
una sicurezza ed arroganza che soltanto strategia ed organizzazione
possono conferire. La Destra radicale è riuscita, con la sua visione del
ritorno ad una comunità immaginaria — una piccola città americana, linda,
bianca e cristiana, degli anni cinquanta circa, a costruire ciò che il
pensatore italiano Antonio Gramsci chiamò un “blocco egemonico”. E questo
blocco è pronto a continuare il suo dominio per i prossimi 25 anni.
Sembra che il futuro della democrazia, dei diritti economici, dei
diritti dell’individuo e dei diritti delle minoranze sia desolato negli
Stati Uniti, ma forse è soltanto attraverso un secondo elettrochoc — il
primo fu la vittoria di Reagan nel 1980 — che l’America progressista potrà
affrontare finalmente ciò che è necessario per “cambiare il vento”: una
battaglia su tutti i fronti per guadagnarsi l’egemonia ideologica e
organizzativa, una battaglia nella quale non deve aspettarsi ne concedere
nessuna pietà, e nella quale non può più permettersi di fare errori.
La crisi dell’Impero
Ma mentre l’America marcia
verso destra, stenta a trascinare il resto del mondo con sé. Anzi la
maggior parte del resto del mondo è diretta nel senso opposto. Niente
dimostra questo più chiaramente del fatto che proprio nella settimana in
cui Bush è stato ri-eletto, una coalizione di partiti della sinistra è
giunta al potere nell’Uruguay; Hugo Chavez, la nuova nemesi di Washington
nell’America Latina, ha vinto in modo strepitoso le elezioni statali in
Venezuela e l’Ungheria ha annunciato che aveva intenzione di ritirare le
sue 300 truppe dall’Iraq.
Sebbene la Destra Americana stia
consolidando il suo potere a livello interno, non è in grado di fermare il
disfacimento dell’egemonia di Washington a livello globale.
La
principale causa di ciò che abbiamo chiamato la crisi di sovrapproduzione,
oppure la mancanza di corrispondenza fra obiettivi e risorse dovuta
all’ambizione imperialista, è lo sbaglio grossissimo dell’invasione
dell’Iraq. È probabile che la crisi continuerà, se non addirittura
accelererà, durante il secondo mandato di Bush.
Le manifestazioni
del dilemma imperialista si possono vedere in modo molto chiaro
*
Nonostante le recenti elezioni nell’Afghanistan sponsorizzate dagli
americani, il governo Karzai ha il controllo effettivo soltanto di certe
parti di Kabul, e di due o tre altre città. Come ha detto il Segretario
dell’ONU Kofi Annan, malgrado le elezioni, “senza le istituzioni di stato
funzionali in grado di soddisfare i bisogni fondamentali del popolo in
tutto il paese, l’autorità e la legittimità del nuovo governo sarà di
breve durata”. E finché la situazione rimarrà così, l’Afghanistan
impiegherà 13.500 truppe americane all’interno del paese e 35.000
personale di sostegno fuori.
* La guerra statunitense sul terrore
ha fallito completamente, con Al Qaeda ed i suoi alleati più forti oggi
che nel 2001. A questo proposito, il filmato video pre-elezione di Osama
bin Laden valeva mille parole. L’invasione dell’Iraq, secondo Richard
Clarke, l’ex-capo anti-terrorismo di Bush, ha deragliato la guerra al
terrorismo e è servito come il migliore strumento di reclutamento per Al
Qaeda. Ma anche senza Iraq, i metodi maldestri di polizia e militari di
Washington per affrontare il terrorismo alienavano già milioni di
Mussulmani. Questo è molto evidente nella Tailandia Meridionale, dove i
consigli americani sull’anti-terrorismo hanno aiutato a trasformare uno
scontento sommerso in un’insurrezione vera e propria.
* Con il
pieno sostegno della strategia “senza vincitori” di Ariel Sharon di
sabotare l’emergere di uno stato palestinese, Washington ha perso tutto il
capitale politico che aveva guadagnato fra gli arabi quando mediò l’ormai
defunto Accordo di Oslo. Inoltre, la strategia di appoggio a Sharon, più
l’occupazione dell’Iraq, hanno lasciato gli alleati di Washington fra gli
èlite arabi esposti, screditati e vulnerabili. Con la morte di Yasser
Arafat, Tel Aviv e Washington potrebbero nutrire speranze di un accordo
sulla questione palestinese secondo loro condizioni. Questa è
un’illusione.
* L’Alleanza Atlantica è morta, e nel futuro
imminente, i conflitti commerciali si aggregheranno con le differenze
politiche per spingere l’USA e l’Europa ancore più lontani. L’Europa è la
chiave per la sostenibilità dell’impero americano. Come ha scritto
l’autore neo-conservatore Robert Kagan: “Gli Americani avranno bisogno
della legittimazione che l’Europa può offrire, ma gli europei potrebbero
anche non concederla.” Ma il divario Atlantico, sempre in crescita, non
deriva soltanto dagli approcci diversi verso l’assicurazione della
stabilità globale; gli europei hanno sempre più paura che un USA
aggressivamente militaristica sia la minaccia strategica maggiore alla
loro sicurezza regionale.
* Lo spostamento a sinistra dell’America
Latina si accelera. La vittoria della coalizione di sinistra nell’Uruguay
è semplicemente l’ultima di una serie di vittorie elettorali per le forze
di progresso, in seguito a quelle in Venezuela, Ecuador, Argentina e
Brasile. Insieme agli spostamenti a sinistra, potrebbero essere anche
imminenti insurrezioni di massa come quella avvenuta nella Bolivia
nell’ottobre 2003. A proposito della svolta a sinistra che allontana dall’impero, uno degli amici degli americani, l’ex-ministro degli esteri messicano Jorge Castaneda, valuta bene la situazione: “Gli amici degli americani… sentono il fuoco di quest’ira anti-americana. Si trovano a dover cambiare la propria retorica e atteggiamento per scoraggiare la
loro difesa delle politiche viste come pro-americane o ispirate dagli americani, e per rafforzare la loro resistenza alle esigenze ed ai desideri di Washington”.
Fallujah: Crogiuolo della
resistenza Globale
L’Iraq, naturalmente, è la fonte principale
del discioglimento dell’impero. La resistenza del popolo iracheno non ha
soltanto frustrato l’occupazione coloniale americana del loro paese.
Ugualmente importante, ha mostrato una nuove generazione di anti-imperialisti in tutto il mondo, per i quali la guerra del Vietnam è storia antica, che è possibile combattere l’impero fino ad uno stallo e
alla fine fino alla vittoria.
È improbabile, comunque, che
l’amministrazione di Bush riconoscerà i segni nel futuro prossimo. Aveva
ordinato l’attacco sulla città di Fallujah nell’illusione disperata che questo avrebbe distrutto il centro operativo dell’insurrezione.
Fallujah, comunque, non era un centro operativo ma un centro simbolico che aveva già giocato il suo ruolo, e la sua “caduta” non fermerà la diffusione e l’aumento di un movimento di resistenza decentralizzata per tutto l’Iraq. Inoltre, come alcuni avevano previsto,
la maggior parte degli insorgenti di Fallujah si sono ritirati,
scambiando, come a Samara, una difesa tradizionale della città per una presenza guerrigliera che tormenta e inchioda l’esercito americano e i suoi mercenari iracheni.
Man mano che passavano i giorni è emersa
la realtà che il ritiro a Fallujah faceva parte di una brillante
controffensiva strategica da parte dei guerriglieri nella quale la
resistenza ha organizzato insurrezioni a Mosul, Ramadi e nelle altre
città. E anche nel ritiro da Fallujah i guerriglieri non hanno reso facile
la ripresa della città da parte delle forze americane, con una piccola
retroguardia di qualche centinaia di guerriglieri che ha costretto gli
americani a partecipare a molte battaglie nelle strade per conquistare
ogni centimetro di terreno urbano. Addirittura, tre settimane dopo che
l’attacco fosse lanciato l’8 novembre, i marine americani — l’equivalente
attuale delle unità militari della SS nella Seconda Guerra Mondiale — sono
uccisi ancora, e 50 per cento delle case della città devono essere ancora
“pulite”. È una ripetizione del Tet, nel 1968.
L’obiettivo
dichiarato dell’attacco era di spianare la strada per le elezioni
imminenti, ma i guadagni politici che gli americani avevano sperato di
realizzare sono stati dissipati dalla distruzione e dall’uccisione
indiscriminata dei civili provocate dal potere di fuoco e dalle immagini
televisive raccapriccianti di un marine che ammazza un prigioniero
iracheno disarmato e ferito. Come ha commentato il Financial Times, le
speranza per una soluzione elettorale alla tragedia irachena “può essere
sepolta nelle macerie di Fallujah”.
Con 55 città già classificate
come zone off limits per le truppe statunitensi, l’amministrazione Bush si
renderà presto conto che la ripresa e l’occupazione dei centri urbani in
massa semplicemente non funziona. Ci sono 130.000 truppe americane circa
nell’Iraq oggi. Solo combattere i guerriglieri fino ad arrivare ad una
situazione di stallo richiederebbe almeno 500.000 truppe per affrontare il
livello di resistenza che si incontra nell’Iraq oggi. Questo non sarà
possibile a meno che Bush non reintroduca la leva obbligatoria, e questo
sicuramente provocherebbe un disordine civile che minaccerebbe l’egemonia
repubblicana attuale.
L’alternativa di Washington sarà di
ritirarsi e trincerarsi dietro basi super-fortificate e precipitarsi fuori
periodicamente per sfoggiare la bandiera. Mentre questo significherebbe
una sconfitta de facto per l’USA, significherebbe anche che la resistenza
del popolo iracheno non avrà il controllo territoriale de iure dal quale
possa dichiarare la sovranità e cominciare il processo della realizzazione
di un governo veramente nazionale.
Le Sfide al Movimento
Sostenere la lotta del popolo iracheno a creare uno spazio
sovrano nel quale creare un governo nazionale di loro scelta continua ad
essere una delle due priorità essenziali del movimento globale contro la
guerra.
L’altra è di porre fine all’occupazione israeliana della
Palestina e al fatto che i diritti del popolo palestinese siano
calpestati.
In un momento segnato dalla congiunzione di una Destra
risorgente nell’USA ed una crisi continua d’impero al livello globale, che
cosa ci vorrà per raggiungere questo obiettivo?
Prima di tutto, il
movimento deve avanzare oltre la spontaneità e arrivare ad un nuovo
livello di coordinamento oltre i confini, che va oltre la sincronizzazione
di giorni annuali di protesta contro la guerra.
La massa critica
che influenzerà l’esito della guerra non sarà ottenuta senza un’ondata di
proteste globali simili a quelli che hanno accompagnato le mobilitazioni
conto la guerra del Vietnam dal 1968 al 1972 — proteste che impegnano
milioni di persone in uno stato costante di attivismo. La coordinazione,
inoltre, significa non soltanto manifestazioni di massa, ma anche la
disobbedienza civile, il lobbying quotidiano degli ufficiali e
l’istruzione politica. Un coordinamento più efficace e soprattutto la
professionalizzazione del lavoro contro la guerra non devono essere
raggiunte, però, al costo dei processi di partecipazione che sono il
“trademark” del nostro movimento.
Secondo, in termini di tattiche,
bisogna impegnarsi in nuove forme di protesta. Le sanzioni ed i
boicottaggi sono metodi che devono essere adottati. Al World Social Forum
di Bombay all’inizio di quest’anno, Arundhati Roy ha proposto di iniziare
con una o due delle ditte americane che traggono beneficio diretto dalla
guerra, quali Halliburton e Bechtel, e di mobilitare con lo scopo di
chiudere le loro operazioni in tutto il mondo. È giunto il momento di
prendere la sua proposta sul serio, non solo riguardo alle aziende
americane ma anche con le aziende ed i prodotti israeliani.
D’altronde, il livello di militanza deve essere alzato, con
l’incoraggiamento di sempre più disobbedienza civile e di interruzioni
non-violente contro il commercio. Dobbiamo dire a Washington ed ai suoi
alleati che non ci possono essere affari finché la guerra continua.
Il tipo di dibattito che avviene nella Gran Bretagna, se proporre
le manifestazioni pacifiche oppure la disobbedienza civile, è inutile,
siccome tutte e due sono essenziali e devono essere unite in modi
innovativi e efficaci.
Negli Stati Uniti, gli attivisti possono
far ricorso alla tradizione estremamente potente della disobbedienza
civile nei confronti della legge ingiusta che ha motivato persone come gli
abolizionisti, Henry David Thoreau, i Quaccheri ed i Fratelli Berrigan.
Infatti, questo tipo di resistenza potrebbe essere la chiave per fermare
non soltanto la spinta imperialista, ma anche la furia di limitare le
libertà politiche e la democrazia. Mai come oggi è necessario opporsi al
mandato imperialista invocando una legge superiore.
Terzo, è
chiaro che la Gran Bretagna e l’Italia — specialmente la Gran Bretagna —
sono i sostenitori principali della politica di guerra di Bush fuori degli
Stati Uniti. Bush fa riferimento costante a questi governi per legittimare
l’avventura americana. Ciò che succede in Italia incide a turno su ciò che
succede nella Gran Bretagna. Entrambi i paesi hanno maggioranze contro la
guerra solide che adesso devono essere convertite in una forza potente per
distruggere gli affari in questi paesi gestiti dai governi complici nella
guerra americana. Entrambi i paesi hanno la tradizione santificata dello
sciopero generale che, insieme alla disobbedienza civile massiccia,
possono aumentare i costi ai loro governi per il sostegno a Washington.
Quando gli è stato chiesto perché le manifestazioni del 20 marzo 2004 attiravano molto meno persone rispetto a quelle del febbraio, 2003, molti attivisti nella Gran Bretagna e nell’Italia rispondono: perché la gente sentiva che le loro azioni non erano state in grado di impedire che gli USA entrassero in guerra.
Questo tipo di disfattismo e demoralizzazione può essere sconfitto non esigendo meno dalla gente, ma di più, chiedendogli di rischiare e impegnarsi in atti di resistenza civile non-violenta.
Quarto, siccome il Medio Oriente sarà il campo di
battaglia strategico per i prossimi decenni, sarà essenziale rafforzare i
legami tra il movimento della pace globale ed il mondo arabo. I governi
del Medio Oriente sono notoriamente indolenti quando si tratta degli Stati
Uniti, quindi come nell’Europa è nella creazione di legami di solidarietà
fra i movimenti civili che deve esserci la spinta principale di questo
sforzo. Questo sarà, infatti, un passo coraggioso e polemico, perché
alcuni dei movimenti anti-USA più forti sono stati etichettati
“terroristi” o “filo-terroristi” dagli americani a da altri governi
europei. L’importante è di non permettere che le definizioni imposte dagli
americani blocchino la strada per le persone che stendono la mano per
cercare una base dalla quale lavorare insieme.
Ugualmente, è
essenziale che il movimento palestinese ed i movimenti israeliani
anti-sionisti e della pace vadano oltre le etichette imposte dai governi e
trovino modi di cooperare per porre fine all’occupazione israeliana. Il
processo trova un modo di portare insieme le persone provenienti dalle
posizioni politiche apparentemente non-conciliabili. A questo proposito,
l’Assemblea Anti-Guerra di Beirut che si è tenuta a metà settembre 2004,
con forte partecipazione del movimento globale della pace e dei movimenti
sociali da tutto il mondo arabo, ha segnato un passo significativo in
questo senso.
Ma mentre il movimento globale della pace si
concentra sull’Iraq e Palestina, i movimenti nazionali e regionali devono
continuare ad intensificare le lotte esistenti per aprire nuovi fronti
contro l’egemonia statunitense nelle loro aree.
Infatti, c’e un
rapporto dialettico fra le lotte globali e locali contro l’imperialismo.
Indebolire la struttura americana di base nell’Asia Orientale, ad esempio,
inciderà sulle operazioni militari americane nell’Iraq e nell’Afghanistan.
Ugualmente, la creazione di difficoltà per gli americani potrebbe
contribuire ad un senso di isolazionismo negli USA che potrebbe
trasformarsi in pressioni per il ritiro dalle basi e dalle strutture
nell’Asia Orientale.
Mentre inizia il secondo mandato, l’ordine
del giorno di Bush rimane uguale: la dominazione globale. La nostra
risposta è uguale: la resistenza globale. C’è una sola cosa che può
frustrare gli scopi malvagi dell’impero nell’Iraq, nella Palestina e
altrove: la solidarietà militante fra i popoli del mondo. Rendere questa
solidarietà reale e potente e infine trionfante è la sfida davanti a noi.
Walden Bello
Direttore Esecutivo del “Focus on the Global South”, basato
a Bangkok, e Professore della Sociologia e l’Amministrazione Pubblica
presso l’Università delle Filippine
Contributo di Walden
Bello al Convegno “Mediterenum para bellum” promosso dal Comitato per il ritiro immediato delle truppe italiane dall’Iraq Pisa, 11-12 dicembre 2004
Fonte:www.peacelink.it
12.12.04