Chris Hedges
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Sono in un’aula di un carcere di massima sicurezza. È la prima lezione del semestre. Ho di fronte 20 studenti. In carcere hanno passato anni, a volte decenni. Vengono da alcune delle città e delle comunità più povere del Paese. Per la maggior parte sono persone di colore.
Nei prossimi quattro mesi studieranno filosofi politici come Platone, Aristotele, Thomas Hobbes, Niccolò Machiavelli, Friedrich Nietzsche, Karl Marx e John Locke, spesso liquidati come anacronistici dalla cultura di sinistra.
Non che le critiche mosse a questi filosofi siano errate. Erano accecati dai loro pregiudizi, come noi siamo accecati dai nostri. Avevano l’abitudine di elevare la propria cultura al di sopra delle altre. Spesso difendevano il patriarcato, potevano essere razzisti e, nel caso di Platone e Aristotele, appoggiavano una società schiavista.
Che cosa possono dirci questi filosofi riguardo ai problemi che dobbiamo affrontare oggi: il dominio globale delle imprese, la crisi climatica, la guerra nucleare e un universo digitale in cui le informazioni, spesso manipolate e talvolta false, viaggiano istantaneamente in tutto il mondo? Questi pensatori sono forse reliquie antiquate? Nessuno nelle facoltà di medicina studia sui testi del XIX secolo. La psicoanalisi ha superato Sigmund Freud. I fisici sono passati dalla legge del moto di Isaac Newton alla relatività generale e alla meccanica quantistica. Gli economisti non sono più fermi a John Stuart Mill.
Ma lo studio della filosofia politica, così come dell’etica, è diverso. Non per le risposte, ma per le domande. Le domande non sono cambiate da quando Platone aveva scritto “La Repubblica“. Che cos’è la giustizia? Tutte le società decadono inevitabilmente? Siamo noi gli artefici della nostra vita? Il nostro destino è determinato da forze che sfuggono al nostro controllo o da una serie di incidenti fortuiti o sfortunati? Come dovrebbe essere distribuito il potere? Il buon statista, come sosteneva Platone, è davvero un re-filosofo che antepone la verità e l’apprendimento all’avidità e alla lussuria e che sa comprendere la realtà? Oppure, come credeva Aristotele, il buon statista deve essere abile nell’esercizio del potere e deliberare in modo ponderato? Quali sono le qualità necessarie per esercitare il potere? Secondo Machiavelli, queste includono l’immoralità, l’inganno e la violenza. Hobbes scrive che in guerra la violenza e la frode diventano virtù. Quali forze possono essere organizzate per contrapporre il potere del demos, il popolo, ai governanti, per garantire la giustizia? Quali sono i nostri ruoli e i doveri di cittadini? Come dobbiamo educare i giovani? Quando è lecito infrangere la legge? Come si previene o si abbatte una tirannia? È possibile trasformare la natura umana, come credevano i giacobini e i comunisti? Come proteggere la nostra dignità e la nostra libertà? Che cos’è l’amicizia? Che cos’è la virtù? Che cos’è il male? Che cos’è l’amore? Come si definisce una buona vita? Esiste un Dio? Se Dio non esiste, dobbiamo rispettare un codice morale?
Queste domande si susseguono nei secoli, poste in epoche e circostanze diverse. I filosofi contemporanei più radicali, tra cui Frantz Fanon autore de I miserabili della terra, hanno costruito i loro edifici sulle fondamenta dei filosofi politici che li hanno preceduti. Nel caso di Fanon si tratta di Friedrich Hegel. Come Vladimir Lenin aveva giustamente detto di Marx, la maggior parte delle sue idee avrebbero potuto essere ricondotte a filosofi precedenti. Paulo Freire, l’autore della “Pedagogia degli oppressi“, aveva studiato filosofia. Hannah Arendt, che aveva scritto “Le origini del totalitarismo“, aveva studiato gli antichi greci e Agostino.
“È infatti difficile e persino fuorviante parlare di politica e dei suoi principi più profondi senza attingere in qualche misura alle esperienze dell’antichità greca e romana, e questo per la sola ragione che gli uomini non hanno mai, né prima né dopo, pensato così tanto all’attività politica e conferito così tanta dignità al suo ambito”, scriveva la Arendt in “Tra passato e futuro“.
Cornel West, uno dei più importanti filosofi morali contemporanei, che una volta mi aveva rimproverato di non aver letto il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, conosce tanto Søren Kierkegaard, che aveva insegnato ad Harvard, e Immanuel Kant quanto W.E.B. DuBois, Fanon, Malcolm X e bell hooks.
Gli antichi filosofi non erano oracoli. Non molti di noi vorrebbero abitare nella repubblica autoritaria di Platone, soprattutto le donne, né nel “Leviatano” di Hobbes, un precursore degli Stati totalitari sorti nel XX secolo. Marx aveva anticipato il potere monolitico del capitalismo globale, ma non aveva capito che, contrariamente alla sua visione utopica, avrebbe schiacciato il socialismo. Ma ignorare questi filosofi politici, liquidarli a causa dei loro fallimenti piuttosto che studiarli per le loro intuizioni, significa tagliarsi fuori dalle proprie radici intellettuali. Se non sappiamo da dove veniamo, non possiamo sapere dove stiamo andando.
Se non riusciamo a porci queste domande fondamentali, se non riflettiamo su questi concetti, se non comprendiamo la natura umana, diventiamo più deboli. Diventiamo degli analfabeti politici accecati dall’amnesia storica. Ecco perché lo studio delle discipline umanistiche è importante. Ed è per questo che la chiusura dei dipartimenti universitari di lettere e filosofia è un segno inquietante della nostra morte culturale e intellettuale.
La teoria politica non riguarda la pratica politica. Riguarda il suo significato. Riguarda l’essenza del potere, come funziona e come si mantiene. L’attività più importante nella vita, come ci ricordano Socrate e Platone, facendo eco alla saggezza racchiusa nella filosofia orientale, non è l’azione, ma la contemplazione. Non possiamo cambiare il mondo se non riusciamo a comprenderlo. Studiando e criticando i filosofi del passato, diventiamo pensatori indipendenti nel presente. Siamo in grado di articolare i nostri valori e le nostre convinzioni, spesso in opposizione a quanto sostenuto da questi antichi filosofi.
Nella mia prima lezione ho parlato della distinzione aristotelica tra il buon cittadino e la persona buona. La lealtà della persona buona non è verso lo Stato. La persona buona “agisce e vive virtuosamente e trae felicità da questa virtù”. Il buon cittadino, invece, è definito dal patriottismo e dall’obbedienza allo Stato. La persona buona, come Socrate o Martin Luther King, Jr. entra inevitabilmente in conflitto con lo Stato quando vede che questo si allontana dal bene. La persona buona viene spesso condannata come sovversiva. Raramente la persona buona viene premiata o celebrata dallo Stato. Questi riconoscimenti sono riservati al buon cittadino, la cui bussola morale è influenzata dai potenti.
Il concetto di buon cittadino e di brava persona ha affascinato la mia classe, perché lo Stato, fin dall’infanzia, è sempre stato per loro una forza ostile. Il mondo esterno non vede i detenuti, e spesso i poveri, come buoni cittadini. Sono esclusi da quel club. Come emarginati, conoscono l’immoralità e l’ipocrisia del sistema. Ciò rende vitale l’articolazione delle domande poste da questi filosofi politici.
Sheldon Wolin, il nostro più importante filosofo politico contemporaneo e radicale, che aveva fatto da mentore ad un giovane Cornel West, il primo candidato nero al dottorato in filosofia dell’Università di Princeton, ci ha fornito il vocabolario e i concetti per comprendere la tirannia del potere corporativo globale, un sistema che egli ha definito “totalitarismo invertito“. Come professore a Berkeley, Wolin aveva sostenuto il Free Speech Movement. Mentre insegnava a Princeton, Wolin era stato uno dei pochi professori a sostenere gli studenti che occupavano gli edifici per protestare contro l’apartheid sudafricana. Ad un certo punto, mi aveva detto Wolin, gli altri professori del dipartimento di scienze politiche di Princeton si erano rifiutati di parlare con lui.
La critica radicale di Wolin era fondata su questi filosofi politici, come scrive nella sua opera magistrale, “Politica e visione“, che i miei studenti stanno leggendo.
“La storia del pensiero politico”, scrive Wolin, “all’inizio è essenzialmente una serie di commenti, a volte favorevoli, spesso ostili”.
Qui potete vedere una mia intervista di tre ore con Wolin registrata poco prima della sua morte.
Wolin sostiene che “una prospettiva storica è più efficace di qualsiasi altra nell’esporre la natura delle nostre attuali difficoltà; se non è la fonte della saggezza politica, ne è almeno il presupposto”.
Il neoliberismo come teoria economica, scrive, è un’assurdità. Nessuna delle sue millantate promesse è neanche lontanamente possibile. Concentrare la ricchezza nelle mani di un’élite oligarchica globale – l’1,2% della popolazione mondiale detiene il 47,8% della ricchezza globale delle famiglie – demolendo i controlli e le regolamentazioni governative, crea una massiccia disuguaglianza di reddito e un potere monopolistico. Alimenta l’estremismo politico e distrugge la democrazia. Ma la razionalità economica non è il punto. Lo scopo del neoliberismo è fornire una copertura ideologica che consenta agli oligarchi al potere di aumentare la ricchezza e il controllo politico.
Questo è un punto che Marx aveva reso famoso nelle sue Tesi su Feuerbach:
Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti, cioè la classe, che è la forza materiale dominante della società, è, allo stesso tempo, la sua forza intellettuale dominante. La classe che ha a disposizione i mezzi di produzione materiale ha, allo stesso tempo, il controllo sui mezzi di produzione mentale, cosicché, in generale, le idee di coloro che non hanno i mezzi di produzione mentale sono soggette ad essa. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, i rapporti materiali dominanti colti come idee.
Come ideologia dominante, il neoliberismo ha avuto un brillante successo. A partire dagli anni ’70, i suoi critici mainstream keynesiani sono stati espulsi dal mondo accademico, dalle istituzioni statali e da organizzazioni finanziarie come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale, e tagliati fuori dai media. Wolin, che un tempo collaborava regolarmente a pubblicazioni come la New York Review of Books, aveva scoperto che, a causa del suo astio nei confronti del neoliberismo, aveva difficoltà a pubblicare. A impostori intellettuali come Milton Friedman erano state concesse importanti piattaforme mediatiche e lauti finanziamenti aziendali. Avevano diffuso il mantra ufficiale di teorie economiche marginali e screditate rese popolari da Friedrich Hayek e dalla scrittrice di terza categoria Ayn Rand. Una volta che ci fossimo inginocchiati davanti ai dettami del mercato e avessimo eliminato i regolamenti governativi, ridotto le tasse per i ricchi, permesso un libero flusso di denaro attraverso le frontiere, distrutto i sindacati e firmato accordi commerciali che trasferivano i posti di lavoro in fabbriche sfruttatrici in Messico e in Cina, il mondo sarebbe stato un posto più felice, più libero e più ricco. Era una truffa. Ma ha funzionato.
Le idee, per quanto esoteriche possano apparire al pubblico, sono importanti. Queste idee plasmano una società, anche se la maggior parte della società non conosce le sfumature e i dettagli di queste teorie.
“Le idee degli economisti e dei filosofi politici, sia quando sono giuste sia quando sono sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si pensi”, scriveva l’economista John Maynard Keynes. “In effetti il mondo è governato da poco altro. Gli uomini pratici, che si ritengono del tutto esenti da qualsiasi influenza intellettuale, sono di solito schiavi di qualche economista defunto. I pazzi al potere, che sentono le voci nell’aria, distillano la loro frenesia da qualche scribacchino accademico di qualche anno fa”.
La maggior parte delle grandi opere di filosofia politica è stata scritta durante un periodo di crisi. La disgregazione della società, le guerre, le rivoluzioni e i crolli istituzionali ed economici cancellano i sistemi di credenze consolidati e rendono vuoti i luoghi comuni e gli slogan utilizzati per giustificarli. Queste instabilità e queste vicissitudini fanno emergere nuove idee, nuovi concetti, nuove risposte alle vecchie domande. Il pensiero politico, come scrive Wolin, “non è tanto una tradizione di scoperta, quanto una tradizione di significato estesa nel tempo”.
Le risposte alle domande fondamentali poste dai filosofi politici variano a seconda delle circostanze. Le risposte nella mia classe di detenuti non saranno le stesse di quelle che vengono date in un’università d’élite dove gli studenti provengono dalla classe dirigente e cercano di farne parte. I miei studenti rispondono a dinamiche molto diverse. Le loro risposte nascono dalle ingiustizie e dalle sofferenze subite da loro e dalle loro famiglie. Sono perfettamente consapevoli della perfidia della classe dirigente. La supremazia bianca, la deindustrializzazione, il collasso del sistema giudiziario, gli eserciti interni di occupazione che terrorizzano le loro comunità e la povertà non sono astrazioni. Le loro risposte saranno inevitabilmente sovversive.
C’è un motivo per cui la classe dirigente, come le classi dirigenti di tutta la storia, cerca di mantenere i poveri e gli oppressi senza istruzione. Non vogliono che coloro che vengono messi da parte dalla società ricevano il linguaggio, i concetti e gli strumenti intellettuali per poter reagire.
Chris Hedges
Fonte: scheerpost.com
Link: https://scheerpost.com/2023/09/10/chris-hedges-the-pedagogy-of-power/
10.09.2023
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org
Chris Hedges è un giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per 15 anni per il New York Times, periodo in cui è stato capo ufficio per il Medio Oriente e capo ufficio per i Balcani. In precedenza aveva lavorato all’estero per il Dallas Morning News, il Christian Science Monitor e la NPR. È il conduttore del programma “The Chris Hedges Report.”