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La Redazione

 

La crociata dei bambini

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A cura di Sonia Milone
Il 6 Novembre 2023
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Di Sonia Milone per ComeDonChisciotte.org

Non chiamiamola guerra, perché anche in guerra ci sono dei codici d’onore e delle regole che fanno di un uomo un soldato – e non una bestia – che, ad armi pari, combatte contro un altro soldato.

Non chiamiamola guerra quando i numeri delle vittime sono, soprattutto, civili inermi colpiti dentro le case, le ambulanze e gli ospedali.

Non chiamiamola guerra quando l’obiettivo da colpire sono proprio i bambini in quanto discendenza, futuro da cancellare, seme da sradicare per sempre dalla faccia della Terra.

L’Unicef ha dichiarato che Gaza è “un cimitero di bambini”: 3.450 in sole tre settimane.

E’ la strage degli innocenti, un infanticidio di massa.

Di poco inferiore deve essere anche il numero delle madri dato che i piccoli stanno loro accanto. Ma se anche il numero fosse molto più basso, le hanno uccise lo stesso, non nel fisico ma nel cuore.

I bambini sono sempre le vittime principali di ogni guerra. Lo ha descritto come nessun altro Bertold Brecht nel poema “La crociata dei bambini” (1942) in cui traspone un evento storico di epoca medievale ambientandolo fra le nevi della Polonia all’inizio della Seconda Guerra Mondiale: un gruppo di orfani attraversa macerie, morte e distruzione, cercando la via per una terra di pace.

Durante la fuga i bambini tentano di sopravvivere riproducendo i legami di solidarietà che la società degli adulti non è stata in grado di fare: c’è il bimbo che fa da papà guidando gli altri, la bimba che si prende cura dei più piccoli, quello che fa da maestro, ecc. E quando catturano un cane per i morsi della fame, alla fine, diventa una bocca in più da sfamare.

C’è il figlio dell’ebreo, il figlio del nazista, il figlio del polacco, del tedesco…ma lì non ci sono bandiere, sono in gruppo tutti insieme in un mondo che non è capace di proteggerli schiantandoli dentro la crudeltà della guerra.

Dalla Seconda Guerra Mondiale, le file di quella crociata si sono allungate ogni giorno di più: bambini palestinesi, israeliani, del Donbass, ucraini, bosniaci, afghani, siriani, libici, ecc.

I bambini di Gaza non sono solo figli dei Palestinesi, sono figli di tutti noi.

La crociata dei bambini 

In Polonia, nel Trentanove,
una battaglia grande ci fu
che fece rovina e deserto
di tanti paesi e città.

La sorella ci perse il fratello,
la moglie il marito soldato,
tra fuoco e macerie i figliuoli
i genitori non trovano più.

Dalla Polonia non si è saputo più nulla,
né lettere né bollettini;
ma nei paesi dell’Est
una storia strana raccontano.

La neve cadeva quando in quei posti
si senti che la gente parlava
d’una crociata di ragazzi
che in Polonia era cominciata.

Trottavano sugli stradali
ragazzi affamati attruppati,
e dai villaggi bombardati
altri portavano con sé.

Dalle battaglie volevano
fuggire, da tutti quegli incubi
e finalmente un giorno,
venire a una terra di pace.

Avevano un piccolo capo
che li aveva guidati fin là;
ma una gran pena aveva nel cuore:
la strada non la sapeva.

Una d’undici anni menava
un bambino di quattro anni;
come una mamma farebbe
ma non fino a un paese di pace.

Marciava nel gruppo un piccolo ebreo
col suo bavero di velluto;
lui, avvezzo al pane più bianco,
da coraggioso s’era battuto.

E due fratelli venivano avanti,
che erano grandi strateghi
per assalire una fattoria
abbandonata, che lasciarono alla pioggia.

Un ragazzo esile e grigio si teneva
in disparte, evitava le provocazioni;
era marcato da una colpa tremenda:
veniva da un’ambasciata nazista.

E c’era tra loro un musicista
che in un negozio distrutto
aveva trovato un tamburo ma,
per non farli scoprire,
non lo poteva suonare.

E anche un cane c’era:
lo avevano catturato per mangiarlo
ma gli era mancato il coraggio
e ora mangiava con loro.

C’era una scuola ed un piccolo
maestro che si sgolava;
sulla corazza di un carro, uno scolaro
sillabava, di «pace», «p» e «a».

E al fragore di un freddo torrente
anche un concerto ci fu:
nessuno li avrebbe sentiti
e il tamburo allora suonò.

E anche c’era un amore,
lei dodici, lui quindici anni;
in un cortile di macerie, lei
i capelli gli pettinava.

Ma l’amore non dura per sempre,
non nella morsa del freddo;
come possono le piante fiorire
se cade così tanta neve?

E anche una guerra ci fu,
perché un’altra banda comparve,
ma la guerra fu presto finita,
ché non c’era ragione di farla.

Ma mentre ancora infuriava
intorno a un casello distrutto,
si dice che uno dei gruppi
a un tratto fu a corto di viveri.

E quando gli altri lo seppero
mandarono uno dei loro
con un sacco di patate;
perché chi non mangia la guerra non fa.

E ci fu anche un processo,
e ardevano due candele;
e fu un’inchiesta penosa,
il giudice venne condannato.

E il funerale ci fu di un ragazzo
che portava il colletto di velluto;
lo calarono due tedeschi
e due polacchi nella fossa.

C’erano protestanti,
cattolici e nazisti
per consegnarlo alla terra;
e alla fine un piccolo socialista
parlò del futuro dei vivi.

Così c’erano fede e speranza
ma non c’era né carne né pane;
chi non gli dette un tetto
non mi venga ora a dire che rubavano.

E nessuno dia colpa a quei poveri
che non li invitarono a tavola;
per cinquanta ragazzi, farina
ci voleva, non solo bontà.

Pareva che andassero a sud,
il sud è dove il sole
all’ora di mezzogiorno
proprio ti sta davanti.

Trovarono anche un soldato
tra gli aghi dei pini, ferito;
lo curarono per sette giorni
perché gli indicasse la via.

Lui disse: «A Bilgoray!»,
tremava tutto di febbre,
l’ottavo giorno mori
e così anche lui seppellirono.

Sebbene coperti di neve
c’erano frecce e cartelli;
ma non mostravano più la via giusta,
qualcuno li aveva scambiati.

Non era un scherzo malvagio,
era per ragioni di guerra:
cercando così Bilgoray
nessuno mai ci arrivò.

Erano in cerchio intorno al loro capo,
lui guardava nell’aria di neve,
accennò con la piccola mano
e disse: «Dev’esser laggiù».

Una notte videro un fuoco
ma non gli andarono incontro;
tre carri armati, una volta, passarono
e dentro c’erano uomini.

E una volta giunsero presso
a una città, e le girarono attorno,
camminando soltanto di notte
finché la città non passò.

Dove una volta c’era la Polonia del sud,
furono visti nella neve
della tormenta, quei cinquantacinque,
per un’ultima volta.

Quando io chiudo gli occhi
li vedo come vagano
dalle rovine di una fattoria
alle rovine di un’altra.

Su di loro, lassù nelle nuvole,
vedo altri cortei, nuovi, grandi!
Vanno a fatica contro i venti freddi,
i senza patria, i senza meta,

cercando una terra di pace,
senza il tuono, senza l’incendio,
non come quella che lasciano.
E immenso diventa il corteo.

E dentro il buio del crepuscolo
non mi pare già più quel che era;
altri piccoli visi vi scorgo,
spagnoli, francesi, orientali.

In Polonia, in quel mese di gennaio,
un cane per caso fu preso;
c’era un cartello appeso
al suo collo smagrito,

e c’era scritto: «Aiutateci,
abbiamo perduto la strada,
siamo cinquantacinque,
il cane vi guiderà.

Se non potete venire,
lasciatelo andar via.
Non gli sparate.
Dove siamo, lui solo lo sa».

Era una scrittura infantile,
la lessero quei contadini;
un anno e mezzo da allora è passato,
il cane moriva di fame.

Bertold Brecht

 

Nel 1968 Benjamin Britten farà del poema del drammaturgo tedesco un’opera musicale, una ballata per voci bianche, due pianoforti, organi e percussioni. Quest’anno, anche il cantautore Vinicio Capossela si è ispirato alle strofe di Brecht per la sua canzone “La crociata dei bambini“, estratta dall’album “13 canzoni urgenti”.

Di Sonia Milone per ComeDonChisciotte.org

4.11.2023

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