Il nostro “corrispondente per gli affari francesi” ci propone oggi un articolo dello scorso dicembre, a firma dell’ottimo Jacques Sapir, sul tema delle privatizzazioni-deindustrializzazione. Ad un certo punto Alceste mi diceva di essere rimasto molto sorpreso quando Sapir afferma che in Francia siano state addirittura maggiori che in Italia. Strano invero, continuava Alceste, dato che solitamente la voce è che le privatizzazioni in Italia siano state le più massicce dell’Europa occidentale…, ad ogni modo anche lì hanno giocato le stesse tendenze. Portate avanti dai partiti “di sinistra”, ma naturalmente anche da quelli “di destra” (da noi inoltre hanno lasciato il lavoro sporco ai governi “tecnici”), il che ci mostra come certi percorsi politici nei confronti delle privatizzazioni non siano poi tanti dissimili tra noi ed i nostri “cugini d’oltralpe”. Grazie Alceste, a presto rileggerti.
Jacques Sapir – Front Populaire – 08 dicembre 2022
È uno dei più grandi misteri del nostro tempo. Come ha fatto la sinistra istituzionale, negli anni ’80, a compiere una completa inversione di rotta in materia di economia? Qual è l’origine di questo brusco cambiamento di dottrina, che ha portato il Partito socialista ad abbandonare la sua predilezione per l’industria e la proprietà pubblica, per impegnarsi in un discorso a favore dell’economia dei servizi e della proprietà privata?
Quando François Mitterrand si insediò all’Eliseo nel 1981, non vi erano dubbi sulla sua visione industrialista e statalista dell’economia. Essa era incarnata in particolare nel Programma comune di governo del 1974 e nelle 110 proposte presentate dal candidato socialista durante la sua campagna presidenziale. Eppure, quarant’anni dopo, nessuno può negare che la Francia abbia subito, in quel periodo, una spietata politica di privatizzazioni e deindustrializzazione, molto più intensa che in Italia, in Spagna e a fortiori in Germania.
Naturalmente, ci fu la “svolta verso il rigore”, a partire dal marzo 1983, che non è mai terminata. Vi fu anche la grande deregolamentazione dei mercati finanziari, intrapresa dal ministro dell’Economia socialista Pierre Bérégovoy dal 1984 al 1986, che ha segnato la conversione delle élite di sinistra alla finanziarizzazione globale. Ci fu anche, e forse bisogna dire “soprattutto”, la firma dell’Atto unico europeo nel 1986, testo che ha modificato profondamente il trattato di Roma del 1957, e che ha orientato la Comunità economica europea (CEE) verso un altro modello, culminato nell’Unione europea (UE). In concreto, la politica europeista è stata una delle principali cause, insieme all’euro, della deindustrializzazione della Francia.
Mancanza di ambizione
Il declino della nostra industria e il fascino per le privatizzazioni sono concomitanti all’abbandono del “piano alla francese”, che aveva sostenuto l’imperativo industriale fino alla fine degli anni 1970. Dal 1981 al 1988, gli alti commissari del Piano si sono succeduti in un valzer sfrenato. Ce ne furono tre in sette anni (Hubert Prévot, Henri Guillaume e Bertrand Fragonard), mentre il solo Pierre Massé aveva ricoperto la carica dal 1959 al 1966, e René Montjoie aveva diretto il Piano come vice e poi come alto commissario dal 1966 al 1974. A dimostrazione della mancanza di ambizione del nuovo governo in materia di pianificazione, la nozione di “programmi” fu sostituita, all’interno dell’istituzione stessa, con quella di “azioni prioritarie”. Da allora, il Ministero della Pianificazione, affidato a Michel Rocard all’inizio del mandato di François Mitterrand, si rivelò una gabbia dorata destinata a immobilizzare un avversario politico del capo dello Stato, mentre le vere decisioni economiche venivano prese dall’allora primo ministro (Pierre Mauroy), dal suo vicecapo di gabinetto (Jean Peyrelevade) e dal ministro dell’Economia (Jacques Delors), tutti e tre al servizio di un’agenda neoliberista ed europeista.
Le tergiversazioni in materia monetaria non hanno aiutato. Mentre il franco era chiaramente molto sopravvalutato alla fine del mandato di Valéry Giscard d’Estaing, il nuovo Presidente, le cui conoscenze economiche erano tanto scarse quanto grandi le sue ambizioni, si oppose a qualsiasi azione drastica in questo campo, con il pretesto che svalutare il franco equivaleva a svalutare la Francia. Così, quando la moneta francese si svalutò due volte (4 ottobre 1981 e 12 giugno 1982), le riduzioni del tasso di cambio decise furono troppo ridotte (3% e 5,75%) per essere efficaci. Un errore che si spiega con l’influenza dei funzionari del Ministero delle Finanze e della Banque de France, ma anche con la ferma volontà di François Mitterrand di rafforzare il quadro europeo “a qualsiasi costo”. Il risultato fu un netto aumento del deficit commerciale. La “svolta verso il rigore” fu accompagnata da un riaggiustamento monetario globale delle valute europee nel marzo 1983, che causò un deprezzamento del franco dell’8% rispetto al marco tedesco, tanto che quest’ultimo entrò dopo il 1985 in una fase di crescente sopravalutazione con effetti deleteri.
In tale contesto, la deindustrializzazione e le privatizzazioni hanno costituito la norma di tutte le politiche economiche intraprese in Francia, per tutto il periodo compreso tra il 1984 e la comparsa della Covid. La nostra industria era stretta in una morsa tra un problema di competitività, da un lato, in gran parte indotto dalla politica del “franco forte” condotta dal 1983 alla fine degli anni 1990 (che prefigurava il passaggio all’euro) e, dall’altro, un disinteresse da parte delle autorità pubbliche per l’industria, con le élite, in particolare socialiste, convinte che la globalizzazione rappresentasse l’alfa e l’omega dell’economia.
Viva le privatizzazioni…
La questione delle privatizzazioni è più complessa. Infatti sono state avviate un po’ più tardi, e dalla destra, durante la prima convivenza (1986-1988). In questo periodo, il governo Chirac trasferì al settore privato un valore totale di 100 miliardi di franchi in capitale industriale e commerciale (l’equivalente di 25 miliardi di euro oggi). Tuttavia quando i socialisti, dopo il ritorno di François Mitterrand all’Eliseo nel 1988, ripresero la maggioranza dell’Assemblea nazionale, non ci fu alcun tentativo di revocare le decisioni del governo Chirac. Michel Rocard, nominato allora primo ministro, perseguì la stessa politica.
Anche il governo socialista di Edith Cresson, che gli succedette, attuò delle privatizzazioni, sotto l’influenza di Dominique Strauss-Kahn, allora ministro dell’Industria e del Commercio estero. È vero che inizialmente l’idea era di usare il denaro ricavato da queste privatizzazioni per ricapitalizzare le imprese industriali. Ma il ministro dell’Economia dell’epoca, niente meno che Pierre Bérégovoy, si oppose, facendo in modo che le somme derivanti dalle privatizzazioni confluissero su un conto del Tesoro.
Colpisce il fatto che delle 22 aziende privatizzate, in tutto o in parte, sotto i due mandati di François Mitterrand, 10 appartenevano al settore bancario e 5 a quello dell’energia, i due settori che erano stati nazionalizzati in via prioritaria, alla Liberazione, dal Consiglio nazionale della resistenza (CNR). In altre parole, tra il 1981 e il 1995, i socialisti hanno permesso o contribuito direttamente allo smantellamento del “cuore” del modello francese. Naturalmente, le privatizzazioni non si sono fermate qui. I governi, di centro-destra o di sinistra, che si sono succeduti dopo il 1995, hanno seguito la stessa strada.
I due governi del primo mandato di Jacques Chirac, quello di Alain Juppé e quello di convivenza di Lionel Jospin, hanno infatti un bilancio molto simile in materia di privatizzazioni; il governo della cosiddetta “sinistra plurale” di Lionel Jospin è addirittura tornato alla logica delle privatizzazioni nel settore bancario. La sinistra istituzionale, plurale o semplicemente socialista, aveva del tutto completato la sua mutazione.
Adora ciò che hai bruciato, brucia ciò che hai adorato
Ripercorriamo le fasi della conversione intellettuale delle élite socialiste, che scoprirono “l’ebbrezza del potere” nel 1981 e poi quella del neoliberismo e le gioie della finanza – lasciando le pene alle classi inferiori. L’opportunità per queste élite di passare dal potere politico all’alta amministrazione, e da quest’ultima alla direzione di aziende pubbliche (in particolare le banche), che venivano gradualmente privatizzate, rappresentò certamente un forte incentivo. Ma l’aspetto materiale, la collusione, la connivenza e il nepotismo non spiegano tutto. Sarebbe sbagliato trascurare la dimensione ideologica di questa conversione, molto evidente ad esempio in Pierre Bérégovoy dopo il 1983. Senza la battaglia delle idee, i cambiamenti nelle pratiche sono più lenti e quindi richiedono più tempo per manifestarsi. Ebbene, ciò che colpisce in questo momento storico è la velocità del ribaltamento, che ha portato alla deindustrializzazione e alla privatizzazione della Francia. Nel 2001 Bernard Lavilliers ha cantato una canzone stupenda, Les Mains d’or, che fa un tragico bilancio di questa svolta:
« Un grande sole nero / gira sulla valle / Camini muti / cancelli chiusi / Vagoni immobili / torri abbandonate / Nessuna fiamma arancione / nel cielo umido
Sembrano di notte / vecchi castelli / divorati dai rovi / il gelo e la morte / Un grande vento gelido / fa battere i denti / Mostro di metallo che va alla deriva
Vorrei lavorare ancora / lavorare ancora / Forgiare l’acciaio rosso / con le mie mani d’oro / Lavorare ancora lavorare ancora / Acciaio rosso e mani d’oro.»
Proviamo quindi a capire le basi ideologiche di questa conversione. C’è fin dall’inizio un elemento di vaghezza: a che scopo le nazionalizzazioni? Avevamo nazionalizzato per rimettere in piedi alcune aziende, con l’obiettivo di privatizzarle in seguito? O piuttosto avevamo mirato a una salvaguardia perenne dell’occupazione, che non implicasse privatizzazioni in un secondo momento? O avevamo cercato di costituire una solida base industriale nazionale, nell’ambito di una politica di sviluppo francese? La terza ipotesi si scontrava con l’ideologia pro-europea di Mitterrand e del suo entourage. La seconda ipotesi era poco coerente: si trattava di una forma di socializzazione delle perdite. La prima ipotesi era, invece, perfettamente coerente con lo spirito del neoliberismo, che si affida al potere dello Stato per portare avanti le idee del settore privato.
L’evoluzione del discorso, dalla svolta del 1983 al governo di Edith Cresson nel 1992, mostra la combinazione dell’orientamento pro-CEE (l’Atto unico) e della prima ipotesi (ossia la nazionalizzazione come fatto temporaneo ndt). In effetti, il principio di una base pubblica utile per lo sviluppo dell’industria fu sistematicamente screditato – all’epoca si diceva che era “superato” – anche all’interno dell’élite socialista. Dietro l’attacco all’uso del settore pubblico per salvaguardare l’occupazione si delineava un assenso generale alle regole della globalizzazione, sostenuta dalla CEE, non ancora diventata l’UE. Ciò sarebbe divenuto esplicito in alcune opere che seguirono. A partire da una serie di constatazioni, che non erano del tutto false (come l’incoerenza delle nazionalizzazioni come mezzo per preservare l’occupazione), si procedette, per gradi, ad organizzare l’impotenza della Francia, in modo da rendere ineludibile la necessità di fonderla in un insieme più ampio; e poi la necessità di accettare le regole dell’economia globalizzata. Quindi si è diffuso un odio tenace contro coloro che contestavano queste regole. I termini usati allora da un economista come Élie Cohen, figura emblematica di questa conversione, sono assai più interessanti dei suoi argomenti. Era chiaramente il suo inconscio politico a parlare apertamente, senza rimozioni, quando nel 2001 scriveva: “(…) La protesta sta diventando più audace e l’improbabile coalizione di sovranisti, terzo-mondisti, ambientalisti e sindacalisti chiede niente meno che la soppressione del FMI, dell’OMC e della Banca Mondiale”. Ho analizzato in profondità questa retorica in un libro ormai vecchio (Les Économistes contre la démocratie, 2002).
La deindustrializzazione e le privatizzazioni, due movimenti che sono costati molto cari alla Francia e ai Francesi, hanno origine nelle convinzioni e nelle scelte delle élite socialiste degli anni Ottanta. Le cause sono diverse, da un presunto europeismo – oggi ripreso da Emmanuel Macron – a una particolare ideologia ispirata dall’Ispettorato delle finanze, passando per l’interesse personale di molti di loro. Le conseguenze, tuttavia, si misurano in anni di sofferenza e declino.
Jacques Sapir è il direttore del Centro per lo studio dei modi di industrializzazione presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (Parigi). Il suo ultimo libro: L’euro contro la Francia, l’euro contro l’Europa (Cerf, 2016)
Link: https://frontpopulaire.fr/articles/le-ps-et-la-fin-de-lindustrie-en-france_ma_17710711
Scelto e tradotto da Alceste de Ambris per ComeDonChisciotte
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