Francis Fukuyama e La Fine della Storia

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di Fabrizio Bertolami per comedochisciotte.org

 

Se Brzezinski può essere considerato tra i dei Padri della Geopolitica, per la sua opera di ordine strategico, Fukuyama rappresenta la filosofia sottostante l’espansione del “modello americano” in ogni dove sul globo, inelluttabile e senza rivali almeno quanto la visione dell’espansione NATO nell’ex spazio sovietico del Consigliere di Carter.

Nel 1989 Francis Fukuyama pubblica un articolo dal titolo “The End of History?” sulle pagine del “The National Interest”,divenuto poi un libro nel 1992, che avrà un’influenza enorme sul dibattito intellettuale durante gli ultimi anni del XX Secolo e nei primi dieci del nuovo millennio.

Fukuyama afferma che dopo la sconfitta militare del fascismo e con la fine dell’ideologia socialista all’umanità non resta che il liberalismo di stampo borghese quale forma politica. La Storia pertanto non potrà d’ora in poi che svolgersi entro una cornice che è quella disegnata dai valori che appunto supportano quel sistema, conducendo tutte le nazioni verso di esso entro breve tempo. Già nel ’91 Samuel Huntington ne La Terza Ondata aveva dimostrato il progressivo avanzare della forma democratica tra i governi delle nazioni mondiali. Fukuyama non afferma certo la fine della Storia tout court, ma:

la fine della ricerca di una forma di organizzazione sociale alternativa a quella che si realizza in un sistema democratico basato su una economia di mercato di tipo liberale.

E’ questa la forma che in definitiva ha vinto le tre guerre mondiali del ‘900 e ne è uscita sempre più forte e più attraente. L’assunto geopolitico implicito che ne deriva è che gli Stati Uniti restano il centro imprescindibile del sistema internazionale. Secondo l’autore anche la Russia dovrà necessariamente venire a patti con il sistema liberal-democratico. Nel ’91 il fallito golpe in Russia e l’elezione di Eltsin alla presidenza della Federazione Russa, daranno corpo a questa tesi così come la trasformazione economica della Cina a partire dal ’92 verrà vista come prodromica a una trasformazione del gigante asiatico in una democrazia pienamente compiuta.

Fukuyama ribadisce la validità del concetto lineare e progressivo della Storia stessa tramite due argomentazioni, una di carattere economico e l’altra correlata al concetto di “lotta per il riconoscimento” ovvero alla spinta che “l’amor proprio” impone a ogni individuo nella ricerca della propria affermazione. Fondamento del suo ragionamento è l’importanza dello sviluppo delle scienze moderne in quanto esse “costituiscono l’unica attività sociale che per unanime consenso è sia cumulativa che direzionale”. Tale sviluppo comporta un effetto uniforme in tutte le società in cui si è verificato per due motivi:

  1. La tecnologia reca importanti vantaggi militari a chi la possiede. Essa è quindi un elemento imprescindibile della lotta per il riconoscimento che le nazioni sostengono le une contro le altre.
  2. Le scienze moderne conducono a una uniformità fattiva nelle possibilità di produzione economica.

Ne consegue una tendenza all’accumulazione di capitale favorita dallo sviluppo di un mercato globale e alla diffusione di una cultura universale dei consumi. Pertanto, secondo Fukuyama, il processo di sviluppo e padroneggiamento della tecnologia porta a una omogeneizzazione di tutte le società, indipendentemente dal sostrato culturale e storico antecedente, verso un punto di convergenza che nel lungo periodo diviene anche economico e in ultima istanza culturale. In sintesi l’autore afferma che:

“la logica delle scienze moderne è in realtà un’interpretazione economica del cambiamento storico e tale logica […] conduce al capitalismo”

un’interpretazione che è chiaramente figlia dell’ottica liberal-democratica che permea da sempre la cultura americana di cui Fukuyama è intriso avendo vissuto, studiato e insegnato negli Stati Uniti.

Come detto uno dei due pilastri dell’analisi del politologo americano è legata al concetto di “riconoscimento” che viene declinato tanto al livello del singolo individuo quanto a quello di rapporto tra le nazioni facenti parte del sistema internazionale. Il saggio è chiaramente ispirato da un’ottica storico-filosofica e il termine “Geopolitica” è citato solo raramente nelle oltre trecento pagine in cui si dispiega l’argomentazione.

Gli strumenti dialettici e gli esempi storici utilizzati generano però un quadro cognitivo utilizzabile dai “decision maker” dell’era unipolare per imporre la loro visione al resto del mondo.

Il sillogismo che lega la ricerca di riconoscimento al liberalismo politico, alla democrazia porta in ultima istanza al liberismo economico.

Ciò permette all’autore lo sviluppo di una interpretazione della Storia che nega l’impossibilità a un ritorno alle forme politiche precedenti rappresentate dal nazionalismo, dal fascismo, dal comunismo o da forme di potere teocratico. Ne risulta perciò che i portatori dei valori liberali, in primis gli Stati Uniti, non potranno che essere guida e faro dell’evoluzione storica e quindi egemoni in quanto dotati di una congenita inclinazione verso quegli stessi valori. A tale riguardo egli fonda la sua visione geopolitica internazionalista in un capitolo esplicitamente dedicato all’ottica realista dei rapporti internazionali e nei due capitoli seguenti, confutandone i principi, per giungere alla conclusione nel capitolo intitolato, non a caso, “Verso un’Unione Pacifica”. Egli afferma infatti che l’esistenza di una Storia direzionale, il cui approdo è la diffusione globale della forma di stato liberale, porta con sé l’instaurazione non solo del riconoscimento razionale a livello individuale ma anche tra le nazioni a livello di rapporti internazionali e pertanto alla fine dell’imperialismo e la conseguente fine delle guerre basate sull’imperialismo stesso.

L’autore però riconosce che gli avvenimenti del XX secolo hanno generato un profondo pessimismo in fatto di rapporti tra stati e l’affermarsi, pressoché ovunque, di una visione realista delle relazioni internazionali.

Secondo la scuola realista non è necessario conoscere le dinamiche interne dei singoli paesi per descrivere e prescrivere i rispettivi orientamenti in politica estera. E’ sufficiente  comprendere che in un contesto internazionale considerato anarchico, ovvero senza un ente regolatore superiore, tutti gli Stati si sentiranno portati a una politica di potenza e tenderanno naturalmente a armarsi per difendersi da (o attaccare i) potenziali nemici, ovvero tutti gli altri paesi.

Il fattore che determina o meno la possibilità della guerra non è però l’aggressività degli stati, o anche solo di uno di essi, ma l’equilibrio della potenza all’interno del sistema internazionale.

I realisti sostengono che la distribuzione della potenza è quindi il fattore determinante per il verificarsi della guerra o della pace; la bipolarità del periodo 1945-1989 e l’equilibrio di forze conseguente spiegherebbe quindi il lungo periodo di pace. All’opposto si trova un sistema “multipolare”, ovvero in cui la potenza è distribuita tra più stati come nell’Europa del XVIII e XIX Secolo. Tale sistema non è però necessariamente più incline alla generazione di conflitti poiché è in realtà la modalità di interazione tra i diversi stati a renderne  reale la possibilità.

Fukuyama afferma che il realismo pretende di essere al contempo descrittivo e prescrittivo nei confronti delle relazioni internazionali. Esso disegna perciò un panorama piuttosto statico dei rapporti tra gli stati, quasi fossero personaggi dal carattere immutabile su un palcoscenico dietro il quale cambia solamente la scenografia, ovvero il periodo storico.

Il realismo prescrittivo, che per essere valido non può prescindere da una necessaria accuratezza descrittiva, ha quindi le sue regole che Fukuyama così sintetizza:

  1. Gli Stati non possono fare affidamento sui Trattati Internazionali o istituzioni sovranazionali come l’ONU o la Società delle nazioni di wilsoniana memoria ma devono necessariamente essere abbastanza forti da potersi difendere proprio in virtù della natura hobbesiana del sistema stesso.
  2. Sia gli “amici” che i “nemici” devono essere scelti in base alla loro potenza militare e non in virtù dell’ideologia o del tipo di regime da cui sono retti. Si spiegano così le alleanze “spurie” come quella tra USA e URSS per sconfiggere la Germania hitleriana o il riavvicinamento USA-Cina concluso da Kissinger negli anni ’70 del XX Secolo.
  3. Per interpretare le minacce straniere è necessario valutare primariamente le capacità militari e non le intenzioni poiché queste ultime possono cambiare rapidamente ma la forza militare impiega più tempo per essere costituita e rappresenta di per sé un indicatore di intenti.
  4. E’ necessario escludere il moralismo dalla politica estera così come già nel ‘500 Machiavelli consigliava di fare al Principe. A questo proposito Fukuyama cita Kissinger il quale afferma che esistono due tipi di Sistemi di Stati:
  • a) Sistemi Legittimi: quelli in cui tutti gli Stati membri accettano ognuno la legittimità di tutti gli altri e nessuno cerca di minacciare l’esistenza degli altri . Potremmo anche definire questo un sistema di tipo “Westfaliano” (dal nome del trattato di Westfalia che pose fine alla guerra dei trent’anni nel 1648).
  • b)Sistemi Rivoluzionari: quelli in cui uno più stati mettono a rischio la pace minacciando altri membri in quanto non soddisfatti dello Status Quo. In questo caso si parlerà anche di Stati “revisionisti” dell’ordine internazionale. Ovviamente i sistemi di questo tipo sono più inclini al conflitto rispetto ai primi.

Il paradosso intrinseco nell’ultimo punto è che i realisti sono quindi più inclini a venire a patti, anziché combattere, con nemici potenti al fine di mantenere un equilibrio di potenza e quindi la pace. La conclusione di Fukuyama è che l’ottica realista ha avuto un ruolo importante e benefico per la politica estera americana del secondo dopoguerra, sfrondandola dall’ingenuo idealismo wilsoniano e da una ricerca di sicurezza fondata su un internazionalismo impossibile da raggiungere con i soli mezzi dell’armamentario liberale come i trattati Internazionali o la fallita Società delle nazioni divenuta poi l’ONU.

Il realismo ha inoltre permesso una comprensione adeguata della politica internazionale in un periodo difficile come quello della coesistenza di due superpotenze nucleari, in quanto grazie a esso il mondo ha potuto agire su presupposti, appunto, realistici senza cedere al massimalismo insito in una visione troppo idealista delle priorità in agenda.

Egli però riconosce che sebbene l’ottica realista sia stata necessaria durante la Guerra Fredda essa è oggi (ovvero allora ndr)  un’eredità che rischia di distorcere la visione del mondo nato dal crollo dell’ideologia socialista. Essa può permettere il permanere di una mentalità non più utile alle necessità non solo degli Stati Uniti ma anche dell’Europa nel perseguimento del loro obiettivo primario: l’allargamento dei valori liberali a tutto il Mondo e non più solamente più al cosiddetto “Mondo Libero”. L’argomentazione di Fukuyama è che il paradigma interpretativo debba passare dallo stato di natura minaccioso prospettato da Hobbes a quello pacifico descritto da Rousseau il quale afferma che la paura e l’insicurezza portano l’uomo all’isolamento e alla tranquillità, al fine di esaudire i suoi  bisogni egoistici di autoconservazione, più che alla ricerca di maggiore potere. L’anarchia originale perciò produrrebbe pace sebbene la ricerca di autoconservazione da parte di alcuni Stati più di altri abbia portato, nei fatti, a una storia fatta di conflitti. Dilatando l’interpretazione di Morgenthau, secondo il quale alcuni Stati cercano di mantenere la Potenza (e quindi la propria conservazione) attraverso politiche che mantengono lo Status Quo mentre altri lo fanno perseguendo logiche imperialistiche, Fukuyama afferma che:

“Uno Stato non ha bisogno di massimizzare la propria Potenza attraverso i canali tradizionali dell’espansione territoriale e militare: esso lo può fare egualmente attraverso la crescita economica o mettendosi alla testa della lotta per la Libertà e la Democrazia”.

Il concetto di potenza non basta quindi a descrivere da solo la ricerca di autoconservazione né tanto meno può essere la sola causa dei cambiamenti avvenuti nel corso della Storia.

Ad esso si affianca pertanto il concetto di legittimità il quale può essere addirittura messo in discussione da un uso spregiudicato della potenza, sia essa economica o militare, come nel caso del progressivo abbandono del regime coloniale da parte della Gran Bretagna nel secondo dopoguerra o nel caso degli avvenimenti seguiti alla caduta del muro di Berlino del 1989. L’argomento della legittimità mette in crisi i concetti assoluti e prescrittivi della visione realista.

Esso inserisce un elemento che non viene preso in considerazione nell’analisi descrittiva il cui fondamento è la valutazione dei fatti concreti (militari) e non delle intenzioni nell’evoluzione dei fatti storici. Secondo Fukuyama è la Storia stessa a non essere presa in considerazione dalla scuola realista nel suo interpretare gli stati come entità dotate di un carattere immutabile. Secondo la teoria realista, ad esempio, la democratizzazione dell’Unione Sovietica non avrebbe dovuto portare a mutamenti strategici nel suo operato. Al contrario l’avvento al potere di Michail S. Gorbachov e il suo “nuovo pensiero”, fondato sui principi della perestrojka (cambiamento) e della glasnost (trasparenza), hanno determinato un atteggiamento nuovo e una modifica della percezione dell’ambito internazionale che ha portato in definitiva a una riconsiderazione delle minacce esterne all’Unione Sovietica e al venir meno della necessità del mantenimento del costoso apparato difensivo atto a scongiurarle.

In seguito lo stesso Gorbachov si spinse fino a ricercare e a perseguire una politica di collaborazione con l’Europa dell’ovest coniando lo slogan “Casa Comune Europea” azzerando di colpo un clima di diffidenza durato più di 70 anni. La paura dell’Unione Sovietica dopo il 1945 aveva favorito, congiuntamente al ricordo delle distruzioni portate dal secondo conflitto mondiale, la creazione della NATO. Cessata la minaccia, poteva quest’ultima subire la stessa disgregazione a causa dell’assenza della sua fondamentale raison d’etre? Era possibile ipotizzare un ritorno a uno stato di conflitti tra le nazioni europee? Fukuyama non può che rispondere negativamente in base all’assunto che le nazioni europee non solo avevano ormai l’una dell’altra una conoscenza tale da scongiurare nuove lotte fratricide, ma anche in virtù della presenza di un tessuto economico sia intrastatale che interstatale che mal si conciliava con lo spirito bellicoso necessario al risorgere dei nazionalismi che avevano portato l’Europa alla distruzione nella prima metà del secolo.

I mercanti e l’etica commerciale avevano ormai del tutto soppiantato l’aristocrazia e la sua idea di grandezza nazionale e non fornivano più quel sostrato culturale e ideologico che aveva alimento e supportato le ambizioni militariste degli stati europei. Secondo Fukuyama, infatti, la nascita della Comunità Europea è frutto del processo che ha portato i popoli europei dalla ricerca di riconoscimento al livello nazionale a quello individuale attraverso l’attività economica.

L’autore ammette che il nazionalismo non è scomparso totalmente ma, al pari di quanto accaduto con la religione, sia stato sempre più relegato al campo della cultura scomparendo dal campo della politica. Paradossalmente egli afferma che con la fine della Guerra Fredda bisognerà però attendersi un aumento della conflittualità associata al nazionalismo a causa proprio dei processi di democratizzazione in quanto i gruppi etnici presenti all’interno del blocco sovietico, e da esso repressi per decenni, perseguiranno politiche di autonomia e indipendenza.

Inoltre anche le folte comunità di lingua russa presenti nelle repubbliche ex-sovietiche potranno essere fonte di tensioni nazionalistiche che potrebbero sfociare in rivendicazioni di indipendenza o guerre civili  (comunità di lingua russa sono presenti nelle tre repubbliche baltiche così come nelle repubblica caucasiche di Georgia e Armenia) .

Il politologo americano ammette però che questo tipo di nazionalismo non avrà la forza distruttrice che ha portato il mondo e l’Europa alla prima e alla seconda guerra mondiale principalmente per tre motivi:

  1. Nuove manifestazioni di nazionalismo potranno verificarsi nelle zone meno modernizzate d’Europa come i Balcani o nel sud dell’ex impero sovietico ma è improbabile che possano espandersi sino a toccare i nazionalismi europei più antichi anche a causa della maggiore tolleranza nata dopo la fine della seconda guerra mondiale.
  2. L’impatto dei nuovi conflitti nazionalistici sarà infinitamente minore di quello avutosi nel 1914 poiché nessuna delle nazioni europee avrà interesse a sfruttare conflitti del genere per migliorare la propria posizione strategica. Al contrario gli stati più grandi cercheranno di non farsi coinvolgere in queste controversie o, al più agiranno dietro le quinte sfruttando le proprie abilità diplomatiche per strappare accordi vantaggiosi con i nuovi soggetti (1).
  3. Le lotte nazionalistiche di questo periodo avranno un carattere transitorio e si esauriranno non appena un nuovo ordine europeo di stampo democratico e liberale avrà preso forma (2). cento dell’Ucraina, in primis la Crimea, è abitata da cittadini di etnia e lingua russa e le repubbliche centroasiatiche del Turkmenistan, Khazakhstan e Tajikstan vedono una folta presenza di abitanti russofoni anche a causa della forte presenza militare che permane nonostante la fine dell’Unione Sovietica.

Secondo Fukuyama nel mondo post-storico l’interazione tra gli stati poststorici e quelli che Fukuyama definisce storici sarà soprattutto di natura economica e le vecchie regole della potenza politica avranno un’importanza sempre minore così come molti aspetti tradizionali legati al concetto di sovranità. Egli prospetta la creazione di un’Europa multipolare guidata dalla forza economica della Germania in cui però i vicini, specialmente a est, di quest’ultima non si sentiranno minacciati ma avranno al contrario forti incentivi alla cooperazione con essa.

Un secondo asse di interazione sarà legato all‘immigrazione o all’utilizzo della forza lavoro proveniente dai paesi storici nelle nazioni post-storiche. Infatti in un mercato globale unico la competizione economico incoraggerà la creazione di mercati regionali del lavoro. Inoltre le particolari condizioni demografiche delle nazioni più sviluppate (età media in forte innalzamento e calo delle nascite) implicherà la necessità di “importare” forza lavoro dall’esterno.

L’ultimo asse di interazione sarà legato a alcune questioni che riguardano l’”ordine mondiale” come la possibilità di impedire il trasferimento di certe tecnologie, come quelle militari specialmente in ambito nucleare,dagli stati post-storici agli stati storici. Le democrazie post-storiche, nella loro ricerca di sicurezza, potrebbero addirittura spingersi oltre tentando di in tutte le nuove entità nate dalla lotta per il riconoscimento e per l’indipendenza.

Egli chiama in causa un presunto processo di “turchificazione” dell’Europa occidentale, ovvero simile a quanto avvenuto in Turchia negli anni ’20 del XX Secolo. Mustafà Kemal “Ataturk” riuscì infatti nell’impresa di rendere laico uno Stato storicamente musulmano, dotarlo di istituzioni modellate su quelle in uso nei sistemi occidentali e riposizionando la Turchia stabilmente nel campo occidentale sradicando così tradizioni antiche di secoli. Il suo auspicio è pertanto che si possa “promuovere” la causa della democrazia anche in quei paesi storici in cui ora non esiste (3). L’autore ammette che in qualità di dottrina prescrittiva il realismo continua a essere appropriato in questa fase storica in quanto i rapporti tra le democrazie e le non democrazie continueranno a essere improntati alla sfiducia reciproca e quindi la minaccia dell’uso della forza resterà ancora un opzione. In quanto modello descrittivo però i principi fondanti del pensiero realista, ovvero la massimizzazione della potenza e la ricerca di sicurezza, non basteranno a spiegare ed interpretare il mondo a venire.

Nel mondo post-storico la pace scaturirà dalla natura specifica della legittimità democratica, che nel corso dei secoli ha soppiantato le precedenti forme di legittimità, (4) e la sua capacità di soddisfare il desiderio umano di riconoscimento. A tale proposito egli afferma chiaramente la sua visione “idealista” quando afferma che:

“…il tradizionale moralismo della politica estera americana, con la sua preoccupazione per i diritti umani ed i valori democratici, non sia del tutto mal riposto”.

L’interesse a preservare la sfera della democrazia, da parte degli USA e delle altre democrazie occidentali, è funzionale al mantenimento della pace duratura in quanto nei duecento anni precedenti (ovvero dal 1789) nessun paese democratico ha mai combattuto un altro paese democratico.

Ecco quindi che un altro assunto della dottrina realista viene a decadere ovvero quello secondo il quale non bisogna scegliere i propri alleati in base a considerazioni ideologiche ma solo in base a considerazioni di tipo materiale. In questo caso scegliere alleati democratici garantisce, a lungo andare, alleanze più forti e durature in quanto fondate sugli stessi principi e valori democratici e liberali. In conclusione il pensatore americano rivaluta il pensiero kantiano che sta alla base dell’internazionalismo liberale contemporaneo suggerendo che il fallimento della Società delle nazioni nel fornire una cornice di sicurezza collettiva contro le sfide totalitarie degli anni ’20 e ’30 del XX secolo sia proprio dovuto al non aver seguito i precetti enunciati dallo stesso Kant. Pertanto tale fallimento deve essere visto come un effetto della sfiducia verso l’internazionalismo di stampo kantiano e non quest’ultimo come la sua causa.

I due principi definitori enunciati da Kant per la pace perpetua che Fukuyama chiama in causa sono:

  1. La costituzione degli stati del sistema deve essere repubblicana cioè essi devono essere delle democrazie liberali.
  2. Il diritto delle nazioni deve essere fondato su una federazione di stati liberi ovvero aventi costituzioni repubblicane.

Le nazioni Unite hanno però sin da principio mancato di attenersi a questi due principi in quanto hanno accettato il principio più debole dell’”eguale sovranità di tutti i suoi membri” quale requisito di ammissione all’organizzazione. Le sanzioni imposte dall’ONU all’Iraq di Saddam Hussein, a seguito dell’invasione del Kuwait, furono interpretate da Fukuyama come una possibile evoluzione in senso positivo ed un precedente applicabile in futuro (5). Il dubbio che però le Nazioni Unite possano in futuro divenire realmente il fulcro di un “nuovo ordine mondiale” starà nell’uso che ne faranno le grandi potenze mondiali a cominciare da Russia e Cina. Una Società delle Nazioni basata sui precetti kantiani dovrebbe, secondo Fukuyama, essere modellata sull’esempio della NATO ovvero una società di stati interamente democratici e liberali.

Implicitamente l’autore risponde alla domanda che egli stesso si è posto precedentemente suggerendo che:

la NATO possa cambiare la sua raison d’etre da baluardo antisovietico a faro e propugnatore dei valori democratici e liberali nel mondo

o, almeno, sullo scenario euroasiatico allargato al nord Africa e al medioriente. Egli afferma infatti che le democrazie industriali sono ad oggi tutte connesse da una rete di organizzazioni ed accordi giuridici prevalentemente di natura economica e che sia del tutto impensabile che per risolvere i problemi di governance globale esse possano ricorrere all’uso della forza.

Una cosa per il politologo americano è però certa: gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali dovranno riconoscere che il mondo che sta nascendo al termine del periodo bipolare avrà regole e metodi diversi dal “vecchio mondo geopolitico”. I maggiori problemi nel mondo post-storico saranno di natura economica come la promozione della competitività e dell’innovazione, il risanamento dei deficit interni (figli della commistione tra sistema capitalista ed istanze socialiste), il mantenimento della piena occupazione e così via.

Fukuyama chiude questa sua digressione sul futuro assetto (geo)politico del mondo affermando che

“la democrazia liberale è di gran lunga preferibile ai suoi concorrenti, il fascismo ed il comunismo”.

I dubbi dell’autore riguardano semmai la sfera individuale, dubbi ai quali risponde in maniera perentoriamente pro liberale nell’ultima parte del saggio, quella dedicata all’ultimo uomo, quello che dovrà abitare per sempra nell’era da lui preconizzata.

 

di Fabrizio Bertolami per comedonchisciotte.org

 

Articoli Precedenti nella stessa serie:

L’ERA DELLA GEOPOLITICA

TERRA E CONQUISTA: IDEE IN GUERRA

MARE CONTRO TERRA: LA STORIA INFINITA

QUANDO BRZEZINSKI ORDINO’: ALLA CONQUISTA DELL’EURASIA!

 

Compendio:

Non avrai altra Propaganda che non sia la mia!

 

Note:

1. Durante gli eventi cruenti che portarono all’esplosione della repubblica Jugoslava, e alle successive guerre, la neonata repubblica di Slovenia fu immediatamente riconosciuta dalla Germania. Tale appoggio fu probabilmente il motivo per cui la neonata repubblica fu coinvolta dal conflitto solo durante le prime fasi, e per un brevissimo periodo di tempo (la cosiddetta guerra dei dieci giorni).

2. Fukuyama si augura che il processo porti all’instaurazione di regimi democratici

3. Fukuyama scrisse il suo saggio quasi dieci anni prima dell’invasione americana dell’Iraq e dell’Afghanistan, avvenute con il presunto scopo, secondo la propaganda americana, di “esportare la democrazia”.

4. ‘autore cita la legittimità dinastica,religiosa,nazionalistica e quella ideologica.

5. Purtroppo Fukuyama dimentica completamente che tra gli alleati degli Stati Uniti vi sono, o vi sono stati, paesi che non sono assolutamente liberali ma anzi ostinatamente dittatoriali come l’Arabia Saudita, le petro-monarchie del Golfo Persico o il Cile di Pinochet.

 

Fonti:

S. Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, Il Mulino, Bologna, 1998.

F.Fukuyama, La Fine della Storia e l’Ultimo Uomo, Rizzoli, Milano 1992.

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