DI ALCESTE
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Cos’è la propaganda se non l’arte di rendere ragionevole l’assolutamente irragionevole? La propaganda non è mai diretta: è la creazione – inavvertita dai più – di un’aria, di un’atmosfera: entro tale Zeitgeist l’individuo è portato, con naturalezza, a scegliere il peggio per sé credendo che sia il meglio. La storia post-1989 è la continua scelta del peggio creduto quale libertà, progresso, diritti.
Contro il potere non serve la verità, bensì un breviario etico che riposi su una bella menzogna.
Corteggiare una ragazza, sino a pochi decenni fa, era un assedio estenuante e fonte di fantasticherie, umiliazioni e gioie squassanti. Si diceva: “Giorgio? Quello va dietro a Maria“. Va dietro: la scruta da lontano, manda bigliettini, gira e rigira intorno, circuisce, cerca di fuggire gli sguardi dei genitori di lei, insozza il buon nome di eventuali concorrenti. Intanto Giorgio si strugge, sente il vuoto nello stomaco, ha erezioni incontrollate e formidabili, la sua mente si perde nell’empireo delle possibilità, la pelle e i denti dell’amata divengono splendori abbaglianti che lo perseguitano di giorno e di notte. A volte egli ha la contezza, fisica, inoppugnabile, del profumo dell’amata: nella mente ha avvicinato la bocca muta alla sua nuca morbida e ha aspirato con voluttà. È disposto a spergiurare: la sua bella profuma come mille rose, pur avendola avvicinata solo in chiesa o al catechismo. Gli amici, intanto, lo prendono per i fondelli, si ridacchia continuamente fra maschi, si ordiscono scherzi atroci con finte missive. L’innamorato si bendispone a una forzata castità (con qualche puntata verso le professioniste) e pianta le sue tende sociali di fronte alla famiglia di Maria. Passano i mesi, gli anni. Il frutto deve essere colto, la passione si diluisce leggermente ai primi baci concessi, alle smanacciate date di fretta. Si ha voglia di palpare, di mangiare. Erano già tempi di decadenza morale, eppure questo universo era ancora ben vivo, soprattutto in provincia. Si fantasticava sopra un ginocchio nudo; ora ci si addormenta di fronte a film pornografici.
Francesco Petrarca è un esperto di muri a secco. Il biografo Wilkins ci rende edotti di tale sua passione: “Ai confini orientali della proprietà del Petrarca c’era un piccolo campo sassoso, vicino alla fonte del Sorga, e nell’estate del 1340 … il poeta decise di trasformare una parte di quel campo, o forse tutto, in un prato su cui potesse accogliere come ospiti le Muse. Egli lo ripulì dei sassi con le sue stesse mani, vi fece portare dell’humus ed ebbe così il desiderato ameno praticello. Ma le Ninfe della fonte (come il Petrarca stesso volle personificarle) si opposero a questa appropriazione di un terreno che consideravano tutto loro e con un’inondazione disfecero quanto il poeta aveva fatto …”.
“Nel 1346 … servendosi di contadini, pastori e pescatori del luogo, fece portare dei grossi massi e li fece collocare sulla riva del fiume, a firmare un argine; lungo la riva furono poste delle pietre, per creare un sentiero su cui si potesse passeggiare; e sul terreno conquistato fu eretto un tempietto alle Muse”. (Cfr. Epistole metriche III, 1)
Il Petrarca – vicino ai potentissimi Colonna, diplomatico, ambasciatore, poeta e straordinario prosatore – ama la pace delle campagne provenzali. Ama ancor più sperimentare: trapianta alberi, zappetta, sarchia. Giovanni Boccaccio si reca, ospite gradito, in visita a Valchiusa e lo trova intento a tali umili occupazioni.
“Petrarca aveva un sovrintendente, Raymond Monet. Il poeta descrive Monet come un uomo dal fisico duro e coriaceo, ma dall’animo gentile, che con assoluta fedeltà e devozione si prendeva cura non solo della casa e dei campi, ma persino dei libri del padrone. Sebbene Raymond non sapesse leggere, amava quei libri e aveva imparato a riconoscerne il titolo. Quando il Petrarca gli metteva in mano un libro, Raymond se lo stringeva al petto e certe volte, a bassa voce, si metteva a parlare con l’autore”.
Ecco Petrarca descrivere la moglie del Monet: “Il suo cuore è tanto candido quanto il suo viso è scuro; la sua bruttezza quasi le dona. È una lavoratrice instancabile malgrado la sua età: fatica duramente nei campi tutto il giorno eppure, quando torna verso sera, è sempre pronta a occuparsi, senza protestare, dei bisogni dei figli, del marito, di quelli dei miei servi e di qualsiasi ospite sia capitato nella mia casa“.
Alla morte del Petrarca i due figli dei Monet, Jean e Pierre, erediteranno, secondo le volontà del poeta, le proprietà di Valchiusa.
La devozione di un illetterato per i libri, la dolce e ostinata lotta del Petrarca con le ninfe, la donna brutta e gentile, la generosità ricompensata: questi brevi accenni formano un continuo cifrario con cui decrittare ciò che l’Italia e l’Europa furono. Chi non le comprende, o le ridicolizza, ha già rinunciato a lottare contro il potere. Ha già perso, in realtà, poiché ragiona e parla con la logica e la lingua del potere. Una opposizione che si oppone al potere con le sue stesse armi è un morto che cammina: al massimo può trastullarsi con qualche grafico; una statistica, un sondaggio, una sciocca intemerata.
“A mezzanotte, dopo la recita delle laude, spesso usciva solo a vagare nei campi, specialmente nelle notti di luna, o per le colline, o certe volte, con un senso di reverente timore, si avventurava nell’oscurità della grotta da cui esce sgorgando il fiume”.
“Con reverente timore …“. È così. Le manifestazioni della Natura in cui è adombrata una presenza mistica, la classicità, il timor panico, l’anelito alla solitudine: tutto questo forma un altro mirabile cerchio entro cui difendersi dalle sozzure del presente sozzo, da cui esserne riparati e da cui, forse, contrattaccare.
Appena fuori Viterbo, lungo la provinciale Teverina, è il sito archeologico di Acquarossa. Un insediamento etrusco che testimonia la floridezza di quella civiltà mirabile. Il sito etrusco dell’Acquarossa fu indagato dal re Gustavo di Svezia, lasciato in buon ordine e, quindi, donato allo Stato Italiano (e alle cure dell’Amministrazione di Viterbo). In pochi anni il tutto si è ridotto a un immondezzaio. Il sentiero principale è divenuto una mulattiera impervia, le fondamenta della città sono scomparse nella vegetazione incolta; i vandali hanno avuto gioco facile. Recentemente, però, la Svezia è tornata a farsi sentire: “Ce ne occupiamo noi“, pare abbiano detto. Hanno ripulito il sito, ripristinata la strada di raccordo e piazzato un bel cancello d’ingresso. In poco tempo. Ora se volete visitare un sito etrusco in terra italiana dovete prendere un appuntamento con l’ambasciata svedese.
Vicino ai ruderi etruschi si trovano le fonti sacre di Acquarossa. Il nome deriva dagli elementi ferruginosi presenti nelle acque: col tempo essi hanno colorato i letti dei torrenti d’un peculiare e acceso rosso fulvo. Nonostante la fonte si trovi a poca distanza dalla trafficata strada provinciale, bastano pochi passi per immergersi in un mondo alieno. La vegetazione presto si infittisce, un freddo umido assale le membra. Alla destra si scorgono i ruderi di un mulino: il verde scuro delle foglie, i cui contorni sono resi più netti dall’aria gelida e ialina, risalta sul grigio delle pietre silenziose. Al fondo del ruscello si scorge un rugginoso impianto per la desolforazione: ennesimo memento di ciò che eravamo. Si scendono alcuni gradini scavati nella roccia: una breve catabasi. Alberi e sterpi chiudono il luogo da ogni lato, si annulla ogni rumore del mondo e della natura. Ci si immerge in una sorta di camera di deprivazione sensoriale. Il silenzio è altissimo, lustrale, minaccioso. Il gorgogliare della fonte, che scende direttamente dalla roccia viva, si miscela allo scroscio delle cascatelle e del torrente che, rapinoso, si immette fragorosamente nello stretto alveo tagliato nel tufo. Col passare dei minuti quel suono cupo ed estraneo si sostituisce al battito della coscienza e prende consistenza sino a organizzarsi in un messaggio segreto. Il presente e la contingenza sono tagliati fuori, qui si è in contatto con il passato che insorge. Gli dei che, alla luce digitale del giorno, potevano essere derisi, reclamano la signoria attraverso il tumulto del sangue. Solo qui comprendiamo ciò che inquietava Petrarca. Non era la ricerca superficiale del sublime, o, peggio, d’un pittoresco utile all’ispirazione poetica più facile. Egli intuiva qualcosa d’altro sotto queste spoglie: presenze vive, operanti. Le chiamò Ninfe, o Apollo, i nomi sono modi d’un entità decisiva e vitale. Di fronte a quella manifestazione naturale, oggettivamente minuscola, egli si ricreava un mondo di simboli: lì, alle fonti del Sorga, o qui, presso l’Acquarossa, rigurgita il passato dell’Italia; quelle acque scavano la terra da migliaia di anni, assommano le epoche, ricomprendono in un’unità mistica Cicerone, Roma, la Tuscia, Orazio, S. Agostino, Enea e gli arcadici greci. Hanno la consistenza degli dei Lari, i protettori della casa e della nazione. Tutte queste cose le ha avute in mente Petrarca, in un attimo di comprensione universale; e poi le ha cullate, meditate, oggettivate. Il mondo era altro per lui, poteva capire sub specie aeternitatis, uomini e tragedie e cose si organizzavano secondo una morale altissima, ecumenica, ma non per questo meno devota alle proprie radici di italiano e di europeo.
Anche le fonti dell’Acquarossa, come quelle del Sorga, vantano questo sortilegio. Se vi andate di notte, in inverno, quando il fiumicello è ingrossato dalle piogge, nel buio vero, comprenderete anche voi cosa è il bello e cosa è il brutto, senza tentennamenti. Gli dei (Velchanas, Apollo, Cristo, le ninfe più crudeli) s’intrecceranno inestricabili, il rumore delle acque vi assorderà bisbigliando versi indicibili: è la storia dell’Italia che s’incarna in loro e vi reclama. In quel momenti i meno avveduti o i più deboli potrebbero smarrirsi o fuggire in preda al terrore, come la turista inglese di Passaggio in India, spossessata da una folgorazione mistica più vasta del suo animo meschino.
Dysangelium PolCor: la pazzia, le perversioni, i capricci non sono che gradi diversi della normalità, col loro perfetto grado di dignità; anzi, a ben valutare, più il diritto è folle e capriccioso maggiormente è tenuto nella considerazione dei liberali, liberisti, libertari.
Anch’io amo tirare su muretti a secco. Col tempo il terriccio si insinua tra le fessure; cresce lenta l’erba vetriola. Le devastazioni del tempo qui intervengono non per distruggere, ma per consolidare ancor più. Le piogge, la polvere, il gelo, il fuoco riconoscono la propria umile fratellanza con l’opera dell’uomo. Tutto è già stato scoperto, tutto ritorna: siamo una glossa inevitabile di ciò che fu. Fuggire da tale angusto circolo: questa è hybris.
Francesco Petrarca, che fu poeta e grande prosatore, era, evidentemente un uomo antico. Anche un altro poeta, morto recentemente, si riteneva tale. Infatti scrisse:
“Io sono un uomo antico, che ha letto i classici, che ha raccolto l’uva nella vigna, che ha contemplato il sorgere e il calare del sole sui campi, tra i vecchi, fedeli nitriti; che è poi vissuto in piccole città dalla stupenda forma espressa dalle età artigianali, in cui anche un casolare o un muricciolo sono opere d’arte, e bastano un fiumicello e una collina per dividere due stili e creare due mondi“.
Queste parole sono vere oltre ogni obiezione. Hanno la potenza delle cose definitive.
In un certo senso, gravide di quel pizzico di estenuato estetismo e di patetica drammatizzazione, rappresentano il mio testamento.
I muri a secco, che cingono i sentieri, non sono utili: sono belli. Molte cose belle sono inutili. Riflettiamo: perché, quando dominavano gli artigiani, si spendeva tempo e fatica per abbellire un manufatto? Perché tale incredibile spreco? Lasciamo stare le architetture: quell’esempio è troppo facile. Osserviamo gli alari d’un vecchio caminetto, il calcio d’un fucile degli anni Quaranta, un piatto d’argento istoriato o una brocca dipinta con colori vivaci; anche forchette e coltelli, quotidiani e semplicissimi, obbedivano a un gusto oggi perso: una foglia o un animale stilizzato abbellivano le impugnature. Perché un artigiano analfabeta doveva perder tempo con tali divagazioni? Intuiva qualcosa? Era ricompensato dalla buona fattura di ciò che produceva? Rendeva felici coloro che usavano tali oggetti? Oppure aveva a presentire – con l’intelligenza che dona nei secoli il lavoro – che una forma utilitaristica, da poco prezzo perché poco lavorata, e, quindi, poco amata, produceva un pessimo servizio? Una forchetta da supermercato o una forchetta degli anni Trenta servono alla stessa maniera, o no?
La verità sul futuro non la affermano Putin, Trump, Francesco I, Obama, Netanyahu, il segretario generale della Nato. È più affidabile il loden di Marco Cappato. Questo ennesimo personaggio insulso che, al di là della legge, intoccabile, può permettersi di tutto senza rischiare nulla, rappresenta il polo magnetico delle nostre fragili bussole.
Ecco Cappato che scavalla in Svizzera per consentire la morte.
Ecco Cappato che pianta la marijuana.
È il segno che il PolCor avanza, indisturbato, fra gli applausi dei poveri coglioni che credono di abbronzarsi al sol dell’avvenire. La buona morte, e poi la buona droga; sino al buon incesto. Lo preannuncia Cappato, questa minutaglia decisiva per le sorti dell’Italia. Seguitelo, vi porterà nel futuro, altro che Casaleggio. Lui indica la terra promessa. E terra promessa sarà.
La rivendicazione della bellezza: ecco un’arma nelle mani del ribelle. Il nuovo è sistematicamente brutto. L’armonia, il gusto calmo della tradizione, il nulla di troppo, l’artigianato che si fa arte: questo si deve reclamare. Le targhe toponomastiche in pietra, pazientemente incise, sono il bello; quelle in metallo il brutto. Le paline dei tram in legno disegnate dai calligrafi sono il bello; quelle in metallo, di un giallo orrendo, sono il brutto. Bello e brutto sono il discrimine fra antico e nuovo ordine. La calligrafia è un atto rivoluzionario.
Il bello è relativo: questo lo scudo di Gorgone con cui i poveri di spirito amano difendersi. Ma il bello, e il brutto, sono assoluti perché relativi a noi, esseri relativi, transeunti, storici. L’uomo è misura di tutte le cose. La proiezione dell’umano forma il recinto estetico; l’oggettivazione di ciò che forma l’anima dell’Italia è, inevitabilmente, il bello assoluto. La Resurrezione di Piero della Francesca, perfetta nelle proporzioni e gravida di simboli, non può che imporsi a qualsiasi essere umano: in lei rivive il genotipo della patria e dell’Europa. Fissarla significa ritrovare la regalità, l’armonia, il senso della gerarchia, la bellezza che coincide con la nostra esistenza. L’euritmia greca, l’autorictas romana, il crepuscolo del perdono cristiano, la maestà del feudalesimo, la ieraticità che inquinò mirabile l’impero bizantino per dilagare nella Russia delle icone, la sensibilità mistica del Medio Oriente. Negare questa evidenza equivale a regredire, rendersi anonimi, sconfitti, brutti. Equivale a dissolversi. A sparire nel nulla e nell’impotenza. Entropia morale e fisiologica. La fenomenologia dell’italiano e dell’europeo attuali, sfiniti, idioti, superficiali, ignorantissimi nonostante il proliferare di dottorati, è lì a confermare tale diagnosi.
Perché Picasso, Dalì, De Chirico attraggono irresistibili? Perché in loro si rinviene la passata bellezza. Essi distruggono il vecchio ordine, ma ne sono interamente sostanziati.
Le scorse vacanze estive le ho passate, assieme a un gruppo di amici, impegnato nel ripristino di un’antica fonte. Il cunicolo che raccoglie le acque data all’incirca alla fine dell’Ottocento, ma a un passo si trova ancora lo scavo a cuspide tipico degli ingegneri etruschi. Di fatto è una fonte etrusca. Le pareti di tufo filtrano lentamente le acque che si incanalano, poi, per venti metri, in un minuscolo solco inciso a mano. Più avanti è la pozza di raccolta, larga un metro: da lì l’acqua s’incanala in un condotto di ghisa che precipita a valle per poi risalire, grazie alla pressione, verso la fontana vera e propria: un percorso di circa un chilometro e mezzo. Chi scavò il cunicolo ottocentesco e quel solco? Forse i miei trisavoli, lì condotti dalla maestria degli Etruschi. In tutto simili, entrambi i popoli cercavano la vita. La terra gliela donò.
Nella valletta (è il letto d’un fiumiciattolo oggi essiccato) il condotto si adagia sopra un ponte di pietra semisepolto da cerri e rovi: il manufatto ha forse due secoli; o forse tre. Per liberare il ponte dalla vegetazione e riparare i guasti delle tubazioni si è penato per quattro giorni.
L’ultimo giorno mi son seduto, a sera, su una roccia che dava sulla forra. Ho seguito, in quello stato di torpore che precede la muta contemplazione, le evoluzioni dei tronchi e dei rami. Essi seguivano docili e feroci la via di salvezza del sole: ecco: alcuni svettano trionfanti, stagliati nel cielo serotino; altri, già pronti alla vittoria, ripiegano, invece, su sé stessi, vinti dalla forza d’altri rampolli, più agili e veloci; v’è chi cerca scampo attorcendosi in modi fantastici o chi cede sotto il peso degli anni o schiantato dalla rassegnazione e dal destino e dalle bestie selvagge; la macchia, eterna, nasce e muore, indifferente al gioco della sopraffazione, putrefacendosi e rinascendo continua assieme alle foglie, agli insetti, al terriccio umido; le ombre decidono della vita, il sole giudica i vincitori: in un attimo ho la contezza precisa di quel labirinto terribile, aspro, ineluttabile ove convivono felicità e disperazione, debitrici l’una dell’altra. Su tutto il breve imperio dell’umano, noi, e la protervia di quel ponte e di quell’acqua antica.
Non mi ricordo chi disse: viviamo in un’esigua radura accerchiata da foreste interminate e sconosciute; dall’oscurità, gli dei, non veduti, ci osservano.
Ho risalito, a ritroso, il corso di quell’acqua che dissetò decine di migliaia di uomini e bestie nei millenni, dalla fanghiglia della vasca, aperta allo sguardo di tutti, sino alle scaturigini occulte e purissime, nel grembo di rocce dimenticate.
Come il mistico medioevale che scorge nell’amore carnale per la propria donna l’ultimo corso di un ruscello le cui fonti sono prive di peccato.
Era quasi notte. La polla, perfettamente circolare, trasparente, freddissima, era di una impalpabilità metafisica, inattaccabile, quasi avesse a concretare l’assoluto.
Mi sono inginocchiato e ho bevuto.
Quindi, nel buio, come Francesco Petrarca, ho sostato con reverente timore, consacrando ciò che resta di me a quelle presenze.